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Autore: imperfection_    15/01/2015    2 recensioni
Quattro momenti, dall'ultima puntata dell'ottava stagione fino ad un futuro ipotetico:
1. La fuga in moto
2. Una serata in casa House-Wilson.
3. La morte di Wilson.
4. Come House va avanti.
Enjoy ;)
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Greg House, James Wilson | Coppie: Greg House/James Wilson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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If you die, I'm alone



If you die, I'm alone

Wilson aveva il cancro.
Questo ormai lo sapevano cani e porci. Tutti erano a conoscenza della malattia dell'oncologo, quella stessa malattia alla cui lotta egli aveva dedicato la sua vita e la sua carriera. Ironico il destino a volte, prendersela con chi aveva sempre cercato di aiutare gli altri. Colpire una persona con quella malattia che cercava di curare.

James Wilson aveva il cancro, ed era da solo.
Sì, solo. Perché Gregory House, il suo migliore amico, la persona che conosceva meglio di tutti era morto. In un incendio. E poco importava quel messaggio arrivatogli durante il funerale dal numero del suo amico, poco importava quel guizzo al cuore quando aveva visto il nome "House" come mittente.
Probabilmente era lo scherzo di qualche stupido ragazzo che aveva preso il cellulare dell'uomo. Maledetto bastardo. Avrebbe preferito fosse finito in prigione, almeno avrebbe potuto trovarlo, vederlo in quei cinque mesi che gli rimanevano. Invece no, aveva deciso di prendere la via più semplice e andarsene prima di lui. Maledetto egoista. Non lo aveva capito che aveva bisogno di lui?

James Wilson aveva il cancro, ma non era da solo.
Un colpo al cuore. Un solo battito mancante alla vista della figura sulle scale. Possibile che fosse lui? Lui davanti a casa sua, che lo aspettava. Allora quel messaggio - "Stai zitto, idiota" - non era lo scherzo macabro di un ragazzino annoiato. Era davvero lui. Si era avvicinato quasi inconsapevolmente a House, guardandolo come se fosse un fantasma - e da quella luce negli occhi, sembrava trovasse la cosa divertente. Sorrise appena. Oh, quanto gli sarebbe mancato quello stronzo!
In men che non si dica, quasi senza accorgersene, si trovò a cavalcioni della sua moto, di fianco a House, correndo per una strada nuova, per una nuova vita. Per qualcosa di sconosciuto.



You'll die, and I'll be alone

Era ormai un mese che House e Wilson vivevano da soli in un piccolo appartamento arredato giusto dell'essenziale, ma in una città dove non li conosceva nessuno e dove potevano far finta di essere qualcun'altro. House lavorava quel tanto che bastava a guadagnare i soldi che necessitavano per vivere in modo decente - e che lui utilizzava anche per comprarsi il Vicodin, ora non più tanto di facile possessione. Il diagnosta aveva categoricamente proibito all'oncologo di lavorare - "E se poi ti senti male mentre sei al lavoro?" "House, se mi sentissi male a casa mentre tu sei al lavoro, non sarebbe la stessa cosa?" "No, il mio ufficio è dietro l'angolo". La scusa della possibilità di malore era solo una pantomima. O, per lo meno, non era tutta la verità. Greg House non voleva che James Wilson rischiasse di morire lontano da lui, il suo egoismo gli obbligava a dirgli quelle cose solo per poterlo avere vicino fino a quando sarebbe giunto il momento. Stesso motivo, oltretutto, per il quale aveva falsificato la sua morte. Sei mesi in prigione sforavano il tempo che era stato concesso a Wilson, non avrebbe potuto essere lì in quel momento... Ma ora ci sarebbe stato.
Strano come in poco tempo che rimane si voglia recuperare tutto quello perso in anni e anni di amicizia data quasi per scontata. Strano come il pesante alito della morte riesca, anche solo in parte, ad addolcire e piegare le persone secondo il suo volere, a far prendere loro abitudini che prima non avevano e che ora erano quasi indispensabili - erano quasi ciò che li faceva vivere ma, al tempo stesso, li portava sempre un passo più vicino alla vecchia signora dal mantello nero e la falce sempre pronta a mietere nuove vittime. Nuove abitudini, come quella che avevano adottato la sera di stare sul divano, Wilson con la schiena appoggiata ad House mentre leggeva un libro - quella sera toccava a “Lyrical Ballads” di Wordsworth e Coleridge - e il diagnosta che faceva pigramente zapping sulla vecchia televisione, ogni tanto passando una mano fra i capelli dell'amico - che alzava l'angolo destro della bocca ogni volta che lo sentiva accarezzarglieli.
«House... Potresti abbassare un po' il volume? Mi da fastidio» disse Wilson, girando la pagina del suo libro per poi alzare lo sguardo su House che, divertito, invece di abbassare alzò leggermente il volume. «Sei uno stronzo, lo sai?» disse, cercando di rimanere serio ma senza riuscire a mascherare un sorrisetto che nacque spontaneo sulle sue labbra.
Stava abbandonando tutto quello, e faceva ancora fatica a metabolizzarlo. Separarsi da Greg... Perché solo l'idea faceva più male di ogni altra cosa, più male del cancro che lentamente lo stava uccidendo dall'interno?
Scosse leggermente la testa, appoggiandosi con essa alla spalla dell'amico. Era convinto fosse doloroso anche per lui, anche se non voleva darlo a vedere. Lo sapeva, lo vedeva nei suoi occhi quando credeva che non lo stesse guardando. E anche quello lo faceva star male, perché era colpa sua. Lo sapeva che era colpa sua.
Sospirò mettendosi più comodo. House lo guardò, inconsciamente stringendolo maggiormente a sé.
«È... Bello stare così... È come se ti importasse davvero» disse Wilson, quasi a bassa voce.
«Zitto, idiota...» borbottò House, dopo aver sbuffato, scocciato per da quell'affermazione. Odiava quando gli faceva notare quelle cose - e in quell'ultimo mese capitava spesso. Lo odiava perché sapeva di non poter dire il contrario, di non poter passare nella parte della ragione per ovvi motivi che anche un cieco avrebbe visto. Però... Il sarcasmo poteva usarlo, non era fuori luogo. Sogghignò. «A meno che tu non lo dica perché in tutti questi anni hai sempre avuto una segreta voglia di fottermi sulla scrivania del tuo o del mio studio»
«Ti sarebbe piaciuto, eh?» sogghignò anche lui. Anni e anni assieme a House gli avevano insegnato come comportarsi con lui. E ancora si divertiva a vedere quello sguardo leggermente stupito che si intravedeva nelle sue iridi chiare.
«Touché» affermò il diagnosta dopo qualche secondo di silenzio. Wilson chiuse il libro e si girò a guardarlo. Touché. Questo vuol dire che lo desiderava davvero? O era solo un altro dei suoi fottuti scherzi? Di sicuro era la seconda. Era la dolorosa seconda. Nessuno sapeva quanto l'oncologo avesse voluto anche solo dargli un bacio. Un bacio, piccolo e casto. Non chiedeva molto, solo una leggera carezza di labbra. Ma non lo aveva mai fatto, non aveva mai avuto il coraggio di farlo.
Vide Greg alzare un sopracciglio, interrogativo. Non riuscivano a decifrare le loro espressioni, erano come due libri chiusi in quel momento - quando di solito erano chiari come il cielo d'estate l'uno per l'altro. Oh, al diavolo, aveva solo altri quattro mesi da vivere, e non voleva certo rimanere con il rimpianto di averlo potuto fare ma non averne mai avuto il coraggio! Prese un grosso respiro e avvicinò il viso al suo, premendo le labbra contro le sue in un casto bacio. Ok, ora aveva davvero paura. Lo aveva fatto, ma se lui lo avesse allontanato? Ormai era fatta, avrebbe accettato tutto quello che l'altro avrebbe fatto, si era mentalmente preparato al peggio.
Ma il peggio non arrivò. Anzi, sentì una mano passare delicatamente sulla sua nuca e le dita intrecciate ai suoi capelli, mentre House rispondeva a quel bacio e lo approfondiva anche, andando ad esplorare con dolcezza la bocca dell'amico.
Quanti anni che si conoscevano, ma in realtà non sapevano niente l'uno dell'altro. Quanti anni che reprimevano quel desiderio proibito, quel sogno segreto di cui solo la luna e le stelle erano a conoscenza.
«Finalmente» mormorò Greg, sorridendo appena, quando si staccarono.
«Sì, finalmente...» sorrise l'altro in risposta. Per la prima volta in cinque mesi, entrambi potevano dire di essere felici.



You're dying, and I'm going to be alone

House era al lavoro. Era a quel dannato lavoro, e James non ne poteva più. Non ne poteva più per il dolore che quel giorno lo tormentava come un aguzzino. Non ne poteva più di stare da solo, di vivere in quel modo. Si chiedeva come avesse fatto l'altro ad essersi adattato a prendere per tutta la vita delle pastiglie contro il dolore alla gamba. E una volta di quelle glielo aveva chiesto. Gli aveva chiesto come faceva a sopportarlo, come poteva pensare che avrebbe dovuto prenderle fino alla morte. Lui gli aveva rivolto un sorrisetto breve e aveva detto che "il mio dolore non è nemmeno paragonabile al tuo".
Si alzò dal letto con difficoltà. Un mese... Un solo mese e non avrebbe mai più sofferto così tanto. Doveva solo avere pazienza... Una fitta tremenda lo fece piegare in due, i denti stretti a soffocare un urlo di dolore. Rimase in quella posizione una manciata di minuti, finché il male si fece più sopportabile e riuscì a rimettersi dritto. Con un gemito raggiunse il salotto, facendosi cadere pesantemente sul divano. Ansimava. Non ne poteva più, in quei momenti non voleva nient'altro che la morte, per quanto egoistico potesse suonare.
Si passò una mano sul viso, massaggiandosi poi piano le tempie. Non sapeva in realtà cosa gli facesse più male: la sua malattia o lasciare House? Ci pensava spesso in quei mesi, soprattutto quando lui non lo guardava; o la notte quando lo teneva stretto inconsciamente, quasi spaventato di sentirlo scivolare via nel sonno.
Si concesse un leggero sorriso, Wilson, a quel pensiero. Molte notti le aveva passare sveglio e se ne era accorto. Teneva la testa appoggiata contro il suo petto e riusciva a sentire il cuore dell'uomo. Quel cuore che molti erano pronti a giurare non esistesse, ma che lui sapeva essere lì, sempre lì, a battere e bruciare. E che in quei mesi sapeva battere solo per lui - o forse era sempre stato così?
Un'altra potente fitta lo distolse da quei pensieri, questa volta non riuscì a trattenere un verso di dolore. Un urlo mezzo soffocato nel suo mordersi la lingua per non farlo. Era ingiusto, era totalmente ingiusto. Era un uomo buono che cercava di aiutare le persone, i suoi pazienti lo amavano e gli erano riconoscenti. Perché era proprio lui a dover morire? Poi gli venne in mente una frase, una domanda retorica che gli aveva rivolto House una volta che, preso dallo sconforto, aveva fatto lo stesso ragionamento: "In un giardino, quali fiori raccogli?"
Sapeva che quella frase era quello di più simile ad una dichiarazione che potesse mai ricevere, e gliene era stato molto grato. Era riuscito ad alleviare un po' quel dolore psicologico che provava. Si sforzò di raggiungere il telefono e compose il numero del nuovo studio di House. Suonava libero, poi una voce femminile rispose. Che nome aveva detto di usare? Ah, sì...
«Può passarmi il dottor Coppelius?» chiese, quasi in un soffio. La donna gli rispose di attendere in linea e, dopo pochi secondi, la voce familiare di House si sparse nel suo orecchio. Si concesse un leggero sorriso, un altro. «House...»
«Che succede? Stai male?» dritto al punto, ma la sua voce aveva un tono preoccupato nonostante stesse cercando di mantenere un volume basso. Wilson annuì, dandosi poi dell'idiota. Non poteva vederlo.
«Sì»
«Come le altre volte?»
«Di più, ho... Già avuto due fitte... Puoi tornare a casa? Credo...» non riuscì a terminare la frase, non voleva anche se se lo sentiva. Sperava sarebbe successo in modo tranquillo, con meno dolore, invece... Avevano ascoltato il suo desiderio, sì, ma facendolo stare ancora più male. E il silenzio dall'altra parte della cornetta era terribile.
«Arrivo subito» disse solamente, sembrava quasi calmo. Ma lui sapeva che non lo era, non lo era mai. Mise giù il telefono quando sentì l'inconfondibile suono della chiamata chiusa. Si abbandonò contro lo schienale del divano mentre lo aspettava, stringendo i denti e lottando per rimanere cosciente. Doveva aspettarlo, glielo doveva...
Girò la testa al rumore della chiave che gira nella toppa. Guardò l'orologio. Cinque minuti... Doveva essere davvero preoccupato. Si alzò, andando verso la porta a passo lento e arrancante, quasi gli cadde addosso. Ma House fu lesto a prenderlo. Chiuse la porta e, reggendosi l'uno all'altro e senza fiatare, House lo diresse verso la camera. Lo fece sdraiare, e lo stesso fece lui.
Lo strinse a sé, come faceva ogni notte, e anche Wilson gli passò le braccia attorno. Lui aveva gli occhi lucidi, in fondo aveva paura di morire anche se sapeva sarebbe successo. House sembrava la maschera della calma se non fosse stato per quel luccichio negli occhi che gli faceva capire che sì, anche lui non voleva lasciarlo andare. Trovò la forza di sollevarsi appena e di premere le labbra contro le sue. Un bacio dolce, non disperato. Non voleva fosse di addio, ma di arrivederci, un giorno sapeva si sarebbero incontrati di nuovo. Un giorno lontano, lo sperava almeno per House.
«House...» lo chiamò. Non si chiamavano mai per nome, a loro andava bene così. L'altro lo guardò, e lui gli sorrise. «Ti amo» disse semplicemente, rimettendosi giù e guardandolo negli occhi. Fortunatamente il diagnosta non distolse lo sguardo; poteva andarsene con l'immagine dell'azzurro degli occhi di House impresso nella mente.
Alla fine i medico si erano sbagliati. Erano quattro mesi e una settimana. Aveva vissuto ancora solo quattro mesi e una settimana. Erano stati assieme per così poco tempo.
Non vide House sospirare quando gli si girarono gli occhi, non notò la singola lacrima che gli scendeva sulla guancia man mano che diventava più freddo e si rendeva conto che Wilson, il suo James Wilson, era morto tra le sue braccia. Non lo sentì sussurrare "ti amo anch'io, brutto idiota, anche se mi hai abbandonato". Non seppe nulla di tutto questo, anche se forse, da vivo, il suo cuore già lo sapeva.



You're dead, and I'm alone

Una nuova città, una nuova casa. House ormai viveva da solo, di nuovo. Ci era abituato ormai, praticamente tutta la vita l'aveva passata da solo. Non era una novità; quella erano stati gli ultimi quattro mesi con Wilson. Era incredibile come anche solo pensare a lui faceva tornare quella morsa dolorosa al cuore e quel senso di colpa per non averlo salvato. Scosse la testa, grattandosi una tempia. Non doveva pensarci.
Allungò la gamba dolorante, tenendo sempre stretto il bastone e il suo curriculum vitae. Ovviamente falso, ovviamente con un altro nome che non fosse il suo. Si guardò intorno. Nella sala d'aspetto c'erano molte persone. Molti giovani soprattutto, che speravano magari in un primo lavoro. Avrebbe avuto possibilità contro di loro? L'esperienza avrebbe battuto la giovinezza? Sospirò, o meglio, sbuffò mentre tornava a guardare la porta.
Il tempo sembrava non passare mai. Sembrava diluito, ovattato, reso apposta così lento per farlo esasperare. Lo odiava. Odiava i colloqui di lavoro, odiava doversi presentare. Odiava non avere più il suo team, non vedere più Cameron al pronto soccorso le poche volte che passava di lì o quando andava a far loro visita. Odiava la Cuddy che se ne era andata dall'ospedale. Odiava Wilson che lo aveva abbandonato, lasciato per sempre con un senso di colpa che non può essere descritto, che lo amava talmente tanto da volerlo con sé durante la morte. Quanto lo odiava e quanto lo amava.
Piegò le gambe, sbattendo rumorosamente le suole delle scarpe sul pavimento - suono che fece trasalire più della metà delle persone presenti. Si appoggiò alle cosce con i gomiti e si passò ripetutamente le mani sul viso. Si stava rammollendo, da quando era così sentimentale? Fece scivolare le dita tra i capelli e li agitò appena. Probabilmente tutti pensavamo fosse dovuto al nervosismo per il colloquio. Non sapevano cosa passasse nella testa di quell'uomo così enigmatico.
Si riscosse quando si sentì chiamare. Si alzò in piedi velocemente, prendendo lesto il suo fido bastone e si avviò nello studio. Teneva ancora stretto il suo curriculum, come se avesse paura che glielo rubassero. Appena dentro, l'uomo che lo aveva chiamato chiuse la porta. Una scrivania torreggiava in mezzo alla stanza, su un lato un divanetto nero.
Non ora, ricordi. Non ora!
Posò i fogli sul tavolo, davanti ad un uomo che, sebbene fosse seduto, era evidente fosse molto alto. Magro, i capelli castani e gli occhi scuri. Gli tendeva una mano, che lui strinse.
«Si accomodi. Io sono il signor Turner, il suo capo se verrà assunto. Lei è...?» chiese, senza minimamente calcolare il fascicolo che aveva sotto mano. Non gli aveva nemmeno dato un'occhiata. House sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso. Questa volta, il nome era falso ma non totalmente inventato. Era forse il migliore che potesse scegliere.
«Gregory Wilson»





~~Author's little corner~~

Buongiorno! Mi preparo alla cascata di pomodori che, dopo questa storia, riceverò sicuramente!
Anzitutto... Sono un inguaribile romantica e amavo che House avesse deciso di fondere i loro nomi per una nuova identità. Lo trovo un gesto molto dolce anche se non proprio esplicito. Un modo per commemorarlo e ricordarsi di lui, direi.
Anche nel resto sono stata molto sul "dolce e fluff" andante, lo so... Ho cercato di tenere al massimo l'IC dei personaggi però. Se così non fosse... Fatemelo notare che provvedo a mettere l'avvertimento!
Detto questo... Spero vi sia piaciuta tanto quanto è piaciuto a me scriverla. Inoltre, spero di avervi commosso anche un pochino, magari una minima lacrimuccia... Anche se credo di chiedere troppo ahah
Mi raccomando, recensite per dirmi se vi è piaciuta o se devo darmi all'ippica! E fatemi sapere anche qualsiasi errore che posso aver fatto!
Alla prossima!

imperfection_

  
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