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Autore: Elos    16/01/2015    7 recensioni
"L'aveva pregato di non farlo, e lui l'aveva fatto lo stesso.
E' di questa materia che sono fatti gli incubi.
[...]"
La cosa spaventosa è che Donna non se lo ricorda.
Genere: Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Donna Noble, Sorpresa, Sylvia Noble, Wilfred Mott
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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(L'aveva pregato di non farlo e lui l'aveva fatto lo stesso.
E' di questa materia che sono fatti gli incubi.)



t a b u l a r a s a





Essere Donna Temple-Noble non è difficile quanto l'essere Donna Noble era stato. Innanzitutto, Donna Temple-Noble è, be', non precisamente ricca-ricca, non rowlinghescamente ricca, non ci saranno lussuose ville in Cornovaglia e yacht da trenta metri ormeggiati nella baia di Cardiff per Donna Noble-Temple, ma ricca abbastanza per avere preso casa a Richmond e per trascorrere un mese di vacanza tutte le estati nel Sussex, e per andare dal parrucchiere una volta alla settimana e per fare spese a Mayfair e per non doversi mai preoccupare dei conti a fine mese.
Donna Noble aveva passato una vita intera – quaranta (trentanove, prego, sempre trentanove) lunghissimi anni – a preoccuparsi dei conti a fine mese: preoccupazione che finiva per concentrarsi, generalmente, in quei giorni nei quali si sedevano tutti e tre a tavolino, il padre, la madre e il nonno, unendo i cervelli per cercare di convertire un modesto stipendio ed una magra pensione in bollette pagate, conti del supermercato coperti, libri scolastici per Donna e benzina per l'auto di famiglia.
Donna Noble era stata intimamente familiare con il concetto di risparmio: vestiti di seconda mano, auto non proprio nuovissima, libri usate e scarpe di finta marca e finta pelle, cercarsi un lavoro alla fine dell'università e ritrovarsi a fare la segretaria con un contratto a tempo determinato. Donna Temple-Noble, dal canto suo, non ha di questi problemi, perché un tirchio sconosciuto le ha regalato, il giorno del suo matrimonio, un biglietto della lotteria – certo credendosi un gran furbo ed un fine spiritoso – che si era incidentalmente rivelato essere quello vincente. A Donna piace pensare, nei suoi momenti meno nobili, che il simpatico umorista si sia condito le mani con sale e pepe e se le sia masticate a lungo.
Può sembrare vendicativo da parte sua, ma nessuno ha mai accusato Donna di avere un cuore traboccante di compassione.
(C'è qualcuno, nelle notti della valeriana e delle televendite delle quattro del mattino, le lunghe notti bianche che cominciano sempre con un sogno strano e pauroso, che certe volte è pieno di cenere e di ragazze pallide, certe altre volte sa di gas o di neve e di tristezza, ma sempre più spesso prende la forma di un cielo troppo buio, con troppe lune e troppo poche stelle, c'è qualcuno, nei suoi sogni, che le dice il contrario – ma Donna, quando l'insonnia la coglie, trangugia una teiera di tisana ed un barattolo di biscotti e si infila a letto accanto a Shaun alle sette del mattino, satolla e contenta, e spesso il giorno dopo si sveglia ed è tutto dimenticato, il sogno, il qualcuno, cenere e gas e stelle.) La vita di Donna Temple-Noble è una vita facile. E' una vita leggerissima. Non ci sono da tenere conti alla fine del mese, c'è una puntata di Downton Abbey su ITV ogni settimana e Shaun a tenerla sottobraccio quando va a fare spese. E Shaun è...
Shaun è gentile. Shaun è paziente. Shaun sa che il turchese è il suo colore preferito e non le regala mai sciarpe rosa. Shaun le compra orchidee e tulipani una volta al mese. Shaun pulisce il giardino tutti i sabati mattina e sceglie sempre il regalo giusto per Sylvia quando arriva Natale. Shaun piace al nonno. Shaun si ricorda tutti gli appuntamenti, non manca mai una ricorrenza, non dimentica mai un anniversario.
(E certe volte Donna ha l'impressione che, se si girasse al momento giusto, si troverebbe accanto a qualcuno che balbettava e che confondeva i lunedì e i giovedì, che le comprava sempre rose per il suo compleanno – e le rose non piacciono a Donna, ma due dozzine di rose rosse, incartate con un nastro bianco e lasciate sul suo cuscino al mattino presto, cosa c'è di male in questo? Due dozzine di rose rosse, il suo compleanno era stata l'unica data che quel qualcuno avesse segnata sull'agenda – e c'erano stati due bambini nella stanza blu al piano di sopra. Donna e Shaun non hanno bambini. Quando si gira, Donna trova sempre Shaun, e Shaun non balbetta.)
Shaun ha un buon lavoro. A Shaun non dispiace passare le vacanze alle terme. Shaun non ha un gran senso dell'umorismo, ma sorride sempre alle battute di Donna - non importa che non sempre le capisca.
(Qualcuno aveva riso con Donna e di Donna, aveva conosciuto diciassette diverse barzellette sugli scimpanzé, aveva letto i libri gialli prima che lo facesse lei e non le aveva raccontato mai il finale per non rovinarle la sorpresa. Donna ama Agatha Christie e ha la vaga ed insistente impressione che ci sia qualcosa di mancante nella terza di copertina di Assassinio sull'Orient Express.)
Shaun è alto e Shaun ha belle mani e Shaun è perfetto, ed è per questo che Donna e Shaun rimangono un tutt'uno, DonnaeShaun, DonnaShaun, per quasi tre anni.
Le cose devono rompersi un po' alla volta, lentamente, come si rompono sempre queste cose, con il punto di frattura che si desensibilizza e alla fine non fa male quasi per niente; ma il preciso mattino in cui l'entità DonnaShaun cessa di esistere è quello in cui Donna si gira nel letto – se lo ricorda benissimo, se lo ricorderà benissimo per tutta la vita – ed appoggia la mano sulla spalla di Shaun: e, per un decimo di secondo, quella spalla è una spalla sbagliata, con la forma sbagliata, la pelle sbagliata, l'odore sbagliato. Non è la spalla giusta.

Così, tre anni dopo il matrimonio dei suoi sogni, niente più DonnaShaun.



Donna Che-Non-E'-Più-Donna-Noble-Temple è ancora ricca, sempre un po' meno ricca-non ricca di quanto non lo sia stata prima del divorzio, ed ha una casa graziosa nel Sussex, una bella macchina in garage che usa per andare a trovare il nonno e la mamma tre volte alla settimana, e passa un sacco di tempo tra mercatini e negozietti e banchetti di oggetti usati. Ha comprato una lampada azzurra per il soggiorno: riflette una luce pallida, sulle pareti, che sembra tingerle di una sfumatura freddissima, e certe volte Donna l'accende nelle sere d'inverno e si siede sul divano e pensa... pensa alla neve. La neve le piace. La neve è quieta. La neve è la neve dei sogni più malinconici, quelli che le lasciano meno paura addosso, quando se li ricorda ancora il giorno dopo.
(Non sempre ricorda quel che sogna, non sempre ricorda di aver sognato; ma certe mattine si sveglia triste, certe mattine si sveglia spaventata, e certe mattine apre gli occhi e la nostalgia è un crepaccio, è il vuoto, la nostalgia è un dolore straziante ed è la frana sotto ai piedi del suo mondo che si sfalda. La nostalgia è una scatola di cose mancanti.)
Donna-Non-Più-Temple ha comprato la lampada azzurra, e poi libri vecchi per il salotto ed una teiera di metallo scuro per la cucina e una foto in bianco e nero di Agatha Christie da mettere nel corridoio. Trova per il suo scaffale preferito del soggiorno una riproduzione alta un palmo di una cabina blu della polizia, un soprammobile che probabilmente arriva dritto dritto dagli anni Cinquanta e la bruttezza del quale è eguagliata solo dalla sorpresa di Donna nel vedere la faccia di Wilfred, che viene un bel pomeriggio a trovare la nipote, farsi prima sbalordita e poi terrorizzata e poi molto, molto, molto bianca. Wilfred guarda quei tre pollici di porcellana e cattivo gusto con l'espressione di chi fissa un morto e Donna si fa prendere dal dubbio che possa venirgli un infarto: e così seguono la telefonata al dottore e poi l'ambulanza e la corsa in ospedale, perché Wilfred Mott ha ottant'anni suonati e il suo cuore comincia a farsi vecchio e a perdere i colpi, e certe volte Donna si dice che non sa che cosa farà il giorno in cui dovrà seppellirlo.

Quando Wilfred torna a casa il giorno dopo, dimesso dall'ospedale perché sembra che, dopotutto, non ci sia stato nessun infarto, nel mezzo del sollievo e della stanchezza Donna si dimentica della piccola cabina blu che tanto l'ha spaventato. La cabina blu resta in salotto, così.
(Ma Donna se ne ricorderà, poi, dopo, quando non ci sarà più modo di chiedere spiegazioni a Wilfred, ed allora vorrà poter tornare indietro e rimediare e fargli la domanda giusta e poi insistere e insistere ed insistere finché Wilfred non risponderà, ma allora sarà troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi.)



Quel che Donna fa, il giorno in cui deve seppellire Wilfred, è accompagnare Sylvia a casa, rubare il telescopio del nonno dalla soffitta dei suoi e piazzarselo nel giardino di casa.
La tomba di Wilfred è a soli dieci passi da quella della moglie. Nel cimitero, quel mattino, sembrava essersi radunata mezza Londra, ed erano arrivati cuscini e corone bastanti a tappezzare l'aiuola di Wilfred e ad invadere quelle dei vicini su tutti e due i lati. C'era stato un mazzo apparso come dal nulla, senza che Sylvia e Donna si ricordassero di averlo visto recapitare, senza un biglietto, senza una lettera, senza un incarto, un nastro, niente, solo girasoli ed uno spago per tenerli insieme.
“Girasoli in inverno,” aveva detto Sylvia. Lo aveva detto tirando su con il naso, ma la sua voce aveva mantenuto quella perfetta sfumatura di disapprovazione che, Donna ne è sicura, conserverà anche di fronte a San Pietro, il giorno del Giudizio Universale. “Che idea balzana!”
I girasoli nel mazzo avevano avuto piccoli petali dorati ed un cuore di chicchi scuri, erano stati semplici ed erano stati preziosi ed avevano guardato il cielo per cercare il sole. Donna aveva pensato al telescopio di Wilfred ed aveva pianto schiacciandosi le mani contro la faccia per fare meno rumore.

Dal giardino sul retro della casa di Donna non si vedono tante stelle quante se n'erano viste la notte dalla collina di Wilfred; ma c'è una grossa stella sfumata di giallo che si nota benissimo anche ad occhio nudo, ed una manciata di piccole stelle tutte vicine piegate nella direzione di Londra.
(E, nel sogno di quella notte, ci sono le stelle come si sarebbero viste attraverso una porta spalancata: non le piccole e pallide stelle inglesi, terrestri, ma stelle grosse come lune e pianeti in lontananza e nebulose di polvere viola e verde e blu oltremare e la spirale d'oro rosso della Galassia di Bode.
Non bastano tre ore di televendite e due teiere piene fino all'orlo per farle dimenticare che adesso sa che cos'è la Galassia di Bode. La Galassia di Bode esiste nella testa di Donna. La Galassia di Bode è una cosa vera. La Galassia di Bode è qualcosa che Donna ricorda. Si sveglia al mattino rannicchiata sul divano, con un filo di bava che le cola dalla bocca, il collo dolorante ed un'emicrania lacerante che parte dalla fronte e taglia in mezzo alle orecchie – ma la Galassia di Bode esiste.

Non c'è valeriana che riesca ad annegare questo ricordo.)



Tre settimane più tardi – ventitré giorni dopo la morte del nonno, un anno e tre mesi dopo il divorzio e circa quattro anni, mese più, mese meno, dal giorno in cui Donna e Shaun erano diventati DonnaShaun – Sylvia la sveglia con una telefonata:
“Che devo farne?”
Sono le otto del mattino. Le otto del mattino sono un'ora che può essere affrontata solo dopo due tazze di caffè ed almeno tre biscotti. Le otto del mattino non sono un'ora adatta a ricevere telefonate e, soprattutto, non sono un'ora adatta per avere a che fare con Sylvia. Donna si sforza di strofinare insieme due neuroni per produrre un pensiero coerente e grugnisce per prendere tempo:
“Ugh...?”
“Con le tue cose,” insiste Sylvia, implacabile. “Sto facendo spazio in soffitta. Che devo farne?”
“Cose? Quali cose?”
“Le tue cose. Le tue vecchie cose. Ne ho trovati due scatoloni pieni. Li vuoi? Devo buttarli? Devo spingerli in fondo alla soffitta? Che devo farne?”
Conoscendo Sylvia, può esserci di tutto in quelle scatole. Possono esserci libri delle medie, quadernini delle elementari, regali dell'ottavo compleanno o vestiti dell'inverno scorso. Donna sbadiglia dritta nella cornetta ed ignora serenamente lo sbuffo di disapprovazione di Sylvia, perché sbadigliare senza ritegno alle otto del mattino è lecito:
“Vengo a darci un'occhiata nel pomeriggio.”

Apparentemente, tre settimane sono state sufficienti a Sylvia per far fare il girotondo ai mobili del soggiorno, per pitturare di azzurro le pareti del corridoio e cambiare il posto a tutti i maledetti quadri delle scale, per buttar via tutti i servizi spaiati di tazze, tazzine, bicchieri e piatti e sostituirli con servizi nuovi di zecca; adesso ci sono tende nuove in soggiorno e tre cestini con lavori a maglia completati solo a metà sparpagliati tra il tavolo, il divano ed una delle poltrone. Donna riconosce in tutto ciò il bisogno frenetico di tenersi occupata, di fare, disfare, cambiare: la casa suona piena di silenzio, vuota, quieta e come sonnolenta ora che non c'è più papà, ora che non c'è più il nonno, ora che anche le tracce della vita che Donna aveva avuto qui stanno sparendo.
La soffitta è in uno stato intermedio di rinnovamento. Donna si guarda intorno con aria dubbiosa, contemplando gli scatoloni aperti per metà, le borse rovesciate, la plastica a bolle e i rotoli di nastro adesivo e la carta da imballaggi abbandonati sul pavimento, e si offre a malincuore:
“Vuoi una mano?”
Quando Sylvia si limita a bofonchiarle di prendere la sua roba e levarsi dai piedi, Donna, problema del senso di colpa aggirato e una giornata di sgradevolissime sgobbate evitata, è ben felice di eseguire prontamente.
Una delle due scatole è coperta di uno strato di polvere alto due dita e chiusa con del nastro adesivo talmente antico da essere diventato giallo: ad uscirne fuori sono i vecchi diari rovinati della sua adolescenza, un paio di orecchini che credeva di aver perso, un vecchio disco che era stato l'unico pegno d'amore lasciatole da quell'imbecille di Stephen Coffat, un poster logoro dei Beach Boys e un altro sul quale sorride ancora il faccione affascinante di uno Sean Connery trent'anni più giovane, tre bustine da tè di origine incerta che devono ormai essersi trasformate in un'arma batteriologica e un vecchissimo libro di astronomia regalatole da nonno Wilfred, crede di ricordarsi Donna, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Le viene da pensare che magari è da lì che arriva la Galassia di Bode, e l'idea le lascia una strana fitta nel cuore di un qualche cosa che è insieme sollievo, malinconia e delusione.
La seconda scatola è più grossa, più recente, ed è rivestita di carta da pacchi. Donna strappa via tutto e ci ficca una mano dentro: e la prima cosa ad emergerne è una falda di gonna bianca. Il vestito da sposa, si dice, le dita che passano tra gli strati lisci di seta e di raso, il mio vestito da sposa; ma il suo vestito da sposa è in un cassetto della sua camera da letto, e il suo vestito da sposa non era stato sbracciato e il suo vestito da sposa non era stato fatto così, raso e seta, il suo vestito da sposa era stato organza e perline e sul velo c'erano stati... non c'erano stati tutti quei ricami, quei cosi lì, quei fiorellini bianchi.
Il vestito da sposa, quindi, ma l'altro vestito da sposa, il suo primo vestito da sposa, il vestito del matrimonio che non era mai stato – il matrimonio di Lance e il matrimonio dopo il contratto con la H.C.Clements e il matrimonio che non aveva mai avuto luogo perché Lance era sparito nel niente, forse morto, scomparso, e Donna aveva portato il lutto per un po', ma poi... Si ritrova seduta sul pavimento, tutto ad un tratto, quando le ginocchia prendono a tremarle e il pavimento sembra farsi improvvisamente scivoloso, cedevole, sfuggente.
Non se lo ricorda.
Il panico ha un retrogusto viscido di bile e freddo nel fondo della sua gola.
Non si ricorda di aver portato il lutto. Ha portato il lutto? Non ricorda di aver pianto. Non ricorda chi l'ha consolata. Wilfred? Sylvia? Non ricorda... deve aver pianto, sicuramente? Deve aver pianto. Deve aver pianto moltissimo. Aveva voluto sposarsi per tutta la vita, per tutta la vita aveva sognato il mattino del suo matrimonio bianchissimo e lussuoso, e Lance era arrivato a riempire la sua vita di corteggiamenti e fiori e cene e inviti e... e il giorno prima delle nozze era sparito, morto, andato, l'aveva lasciata sola di nuovo e adesso Donna non riesce, non riesce, non riesce a ricordarsi di aver versato una sola lacrima.
Sto impazzendo, pensa, pazza, sono diventata pazza, e deve contare fino a dieci, respirare profondamente e contare, per non sentirsi male.
Lance. Il matrimonio. La chiesa. Gli invitati. Sua madre e suo padre che l'avrebbe accompagnata all'altare, se Lance non fosse scomparso, e suo padre l'aveva accompagnata all'altare, con Shaun, pensa febbrilmente Donna, mi ha accompagnata da Shaun ed è per questo che me lo ricordo, ma suo padre era stato già morto, allora, morto, mortissimo, era stato Wilfred a tenerla sottobraccio nella chiesa – ma adesso Donna si ricorda della mano di suo padre sul polso nudo di lei e del modo in cui l'aveva guardata, raggiante, radioso, orgoglioso, e poi c'era... c'era stato... non c'era...
Non c'è, realizza Donna, pieno di orrore. Non c'è.
Tutto il resto non c'è.



Questa terribile emicrania, si dice Donna, la sera, rannicchiata sul divano, con i crampi e la nausea e la sensazione che il cervello le stia colando via: continua a soffiarsi il naso con l'insana paura di vedere materia grigia e roba rossa al posto dei grumi gialli del moccio. Questa terribile emicrania, si dice. Se non passerà presto, finirà per uccidermi.



(“Salva pianeti, salva civiltà, sconfigge terribili creature... e corre un sacco. Sul serio, ogni volta c'è un quantitativo spaventoso di corse.”
Il sogno di questa notte comprende una ragazza bionda e una cella ed una razza di uomini-pesce. Alla destra di Donna c'è sempre qualcuno, che non è il qualcuno delle rose rosse e dei libri gialli e dei due figli che non sono mai esistiti, ma Donna non si volta mai a guardarlo: se si girasse, lo sa, tutto il sogno scomparirebbe. Corrono sottoterra e corrono in una serra verde e poi continuano a correre fino a sbucare fuori, all'aria aperta, dove il cielo è di un blu così blu da farle male agli occhi.
“E' pericoloso,” le dice il qualcuno alla sua destra. “Mezzanotte. Ci ucciderebbe.”
Il suolo sotto ai suoi piedi pare incrostato di diamanti, scintillante, tagliante, e il blu del cielo blu è pieno di stelle che non sono sul libro di Wilfred. Donna sa già – non ha bisogno di chiederlo – che non sono più sulla Terra.
Stelle, galassie. L'universo in una scatola che è anche più blu del cielo.
La Donna del sogno ha un vestito da sposa – il suo vestito da sposa mai indossato, mai uscito dalle quattro mura della sartoria, mai fatto strisciare sul pavimento di una chiesa – dall'orlo tutto infangato.
Quanto fango può esserci mai in un camerino di prova?)



Gli scatoloni vengono relegati nella cantina della casa di Donna, il vestito da sposa pigiato il più in fondo possibile. Pigiare via il mal di testa, tuttavia, sembra non essere così facile.
“Potrebbe essere lo stress,” le dice il dottore, e Donna si trattiene a stento dal grugnire ma no, ma non mi dica, non ci sarei mai arrivata da sola, c'era bisogno di spendere tutti quei soldi in una laurea per arrivare a questa prognosi? “Solo lo stress di un periodo difficile.”
Il dottore le prescrive gocce per dormire e pillole per quietare il dolore quando si fa più forte.
Donna non sa come spiegargli – non riesce a spiegargli – che adesso si ricorda di un matrimonio che non è mai accaduto e del giorno in cui gli alberi di Natale hanno cercato di assassinare tutti gli invitati al suo ricevimento.
Se prende le gocce, non sogna e il dolore non torna.
Se non prende le gocce, la testa le scoppia, al mattino, e si sveglia con gli occhi gonfi, il naso colante e le mani che le tremano: ma i sogni – e vengono tutte le notti, adesso, tutte le volte diversi, la valeriana e la brutta televisione non bastano più a soffocarli – sono pieni di luce e di cose magnifiche e terribili e mostruose e di pianeti ingioiellati e di qualcuno sempre al suo fianco, che certe volte le parla, certe volte no, qualcuno che pensa – aveva pensato, deve aver pensato – che lei è fantastica.
Adesso Donna si chiede come ha fatto a vivere la vita facilissima di Donna Noble-Temple per così tanto tempo, quando c'erano tutti questi desideri repressi e impossibili e stupendi a vibrarle a fior di pelle.



Anche dopo il divorzio, Donna non ha avuto bisogno di tornare a lavorare: un biglietto della lotteria spartito in due è comunque una grossa fetta di problemi che viene rimossa. Donna può stare a casa, e comprare tutti i piccoli, orribili soprammobili che vuole e fare poco tutto il giorno; spazza, lava i piatti, pulisce il giardino e fa la spesa, ma il novanta per cento del suo tempo è libero e vuoto. E per qualche giorno Donna lo riempie, tutto quel tempo vuoto, con sonno e sogni.
Dal giorno dello scatolone, i suoi sogni hanno preso forme vivide, spigoli netti. Certe volte sogna ed il sogno è così vivido che, al risveglio, il mondo reale le sembra nebbioso, insipido ed offuscato. Il mondo dei sogni – i mondi dei sogni – sono vivi e luminosi, invece; l'aria è più brillante, lì, come l'aria fresca dei mattini d'inverno, quando il cielo è limpido e il vento porta via ogni nebbia ed ogni pulviscolo, quando l'umidità pungente di novembre sembra far scintillare il sole e il cielo.
Donna capisce che potrebbe continuare a dormire e sognare molto più a lungo di quanto non faccia, molto più a lungo di un paio di giorni; ma non c'è bisogno che qualcuno le dica che si sta uccidendo, che l'emicrania è diventata una cosa viva che le invade il cervello e le fa sanguinare il naso, che di sonno e di sogni si può morire. Si può smettere di vivere, così.
Il pomeriggio in cui si sveglia con il cuscino intriso di sangue, il naso e la fronte solo una pulsante massa di dolore, apre gli occhi con la consapevolezza inaspettata e priva di contesto che le prime dieci cifre che seguono il tre, nel pi greco, sono uno, quattro, uno, cinque, nove, due, sei, cinque, tre, cinque, e che la costante di gravitazione universale è accompagnata da un ordine di grandezza elevato alla meno undici. Ha troppa paura per andare a controllare se è veramente così – se controlla, se è vero, dovrà ammettere che non sa bene cosa ammettere. Nulla sarà più normale, però, nulla sarà più solo un sogno, e Donna dovrà cominciare ad avere davvero paura.
(L'altra consapevolezza che emerge da quel pomeriggio è che l'uomo delle due dozzine di rose rosse per il suo compleanno, dei libri di Agatha Christie e dei due bambini si chiamava Lee. Lee, l'uomo perfetto che balbetta. La camera dei bambini ha, nei sogni, pareti rivestite di carta da parati azzurra, due piccoli letti, due piccoli armadi ed una piccola lampada da tavolo che viene lasciata accesa per tutta la note, così che i suoi amori, le sue cose preziose, non stiano mai al buio.
Lee che balbetta. Il suo perfetto marito inventato.)
Quindi, Donna non ha bisogno di lavorare, ha tempo libero e tempo vuoto, ma c'è sempre Sylvia da tenere tranquilla; perché insieme alle preoccupazioni di Sylvia verrebbero, lei ne è sicura, gli strizzacervelli. Per sei mesi dopo il divorzio Donna era andata due volte alla settimana da un costosissimo terapista di Londra, un omino simpatico dal cranio perfettamente liscio che le aveva parlato di ricostruzione dell'autostima e di rinnovamento del sé interiore e che le aveva suggerito con entusiasmo di dedicarsi a passatempi creativi: è per colpa dell'omino calvo che adesso Donna ha in giro per casa tre dozzine di abortiti vasetti di ceramica, una cesta piena dei suoi orribili tentativi di produrre anemoni di carta di riso e tre serie di formine da biscotti delle quali non sa più cosa farsene. Era risultato evidente, dopo sei mesi di sfortunati esperimenti terapeutici, un centrotavola rovinato dalla colla e duecento sterline investite in un forno nuovo a seguito del piccolo incidente occorso a quello vecchio (incidente che aveva coinvolto della creta, una boccia di vetro non temperato ed una bolla d'aria formatasi al momento sbagliatissimo), che le capacità di Donna non si estendevano al lato artistico della produzione umana.
Per evitare Sylvia e gli strizzacervelli, Donna ricorre ad una telefonata al giorno ed a tre visite alla settimana. Quando va a trovare sua madre, i sogni e le emicranie vengono lasciati accuratamente nascosti a casa, al sicuro; Donna porta a Sylvia vestiti da rammendare e pasticcini e se ne va dopo tre o quattro ore di chiacchiere con la borsa piena di pettegolezzi e rimbrotti e sbuffi ed un'orda di consigli che, a seguirli tutti, basterebbero per sette vite e mezza. Sylvia vorrebbe che Donna andasse a fare sport. Che Donna dimagrisse. Che si tingesse i capelli. Che frequentasse un corso di cucino. Che si trovasse un nuovo parrucchiere, che si trovasse un hobby, che si trovasse qualcun altro. Qualcun altro, vorrebbe chiederle certe volte Donna, qualcun altro dopo Shaun o qualcun altro dopo Lance o qualcun altro dopo non-Lee e, giacché ci siamo, mamma, che fine ha fatto Lance? C'eri, tu, la sera che i Babbo Natale ci hanno aggrediti, è successo davvero o lo sogno solo, te ne ricordi, tu, almeno tu, mamma, ti ricordi di quello che è successo, se è veramente successo, se non sto diventando matta, si può diventare matta con il sangue ed il cervello che ti colano dal naso ed un'orda di pianeti che non sono la Terra nella testa?
Vorrebbe chiederglielo, ma non le chiede niente. Si è accorta, visita dopo visita, che ci sono rughe nuove agli angoli degli occhi di Sylvia, che Sylvia non deve essere andata dal parrucchiere nelle ultime due settimane, che ha perso peso e che ha le mani come aggrinzite e molto più fredde, adesso. Si è accorta, Donna, che Sylvia sembra invecchiata tutto d'un colpo, come se la morte di Wilfred l'avesse spostata di scatto in un'età diversa.
E:
“Be',” le chiede Sylvia un pomeriggio: “Cosa c'era, poi, in quegli scatoloni?”
Il mio vestito di nozze, pensa di risponderle Donna, il vestito delle mie non-nozze. Stoffa bianca e sangue dal naso ed emicranie e adesso sogno di un terzo marito che non è mai esistito. Invece, scrolla le spalle e risponde bruscamente:
“Solo vecchia robaccia. Ho buttato via tutto.”
Sylvia la guarda e la guarda e, per un lunghissimo minuto, c'è la faccia di Wilfred dietro alla sua, l'espressione tutta disappunto, stanchezza, rimpianto.
Ma forse, si dice Donna poi, tornando a casa, forse se l'è solo immaginata.



(C'è una cosa alta e sottile, in uno dei sogni, una cosa senza la bocca che tiene un cuore parlante tra le mani. Riempie la mente di Donna del ricordo/desiderio straziante di una canzone che non riesce a sentire veramente, della neve, del freddo, la canzone del mondo bianco e la canzone di Donna, Donna e il suo amico, Donna e il suo qualcuno a destra, Donna e il D...)

(E' sicura che il qualcuno alla sua destra fosse stato qualcuno che aveva tenuto per mano. Non avrebbe voluto lasciarlo andare. L'aveva chiamato marziano ed uomo dello spazio e c'erano stati giorni in cui avrebbe voluto poterlo picchiare sul naso con un giornale arrotolato, come si fa con i cani che continuano a mettere le loro grosse zampacce pelose su cose che non dovrebbero toccare, giorni in cui avrebbe voluto poterlo scuotere per tirarlo fuori da sé stesso e giorni in cui erano stati una gran coppia, Donna ne è sicura, nei suoi sogni sono una gran coppia. Potrebbero salvare l'universo, insieme, se ci si mettessero d'impegno.
Se solo trovasse il coraggio di girarsi, pensa Donna. Se solo trovasse il coraggio di girarsi e di guardarlo e di chiedergli...)



(Il punto di non-ritorno, realizza Donna alle quattro del mattino, è quando anche da sveglio cominci a pensare nella forma del passato – fosse stato, aveva chiamato, erano stati – e non nell'ipotetica dei sogni.
Diventa ricordo-ricordo, così. Comincia ad essere vero. Fa più paura, quando non è più nell'ipotetica.)



Dallo scatolone di Donna è emerso anche uno dei vecchi quaderni di Wilfred, coperto di fittissimi appunti sulle sue esplorazioni celesti. Accanto ad ogni osservazione ci sono una data ed un'ora ed una coordinata approssimativa, ed ogni frase scritta dal nonno è una piccola cosa brillante che fa rimpiangere a Donna che non fosse mai stato un astronauta, il vecchio, un esploratore dello spazio, che non fosse mai stato quantomeno un astronomo per potersi godere il cielo per bene, attraverso un vero telescopio e con veri strumenti per misurare e capire quel che vedeva – ma forse sarebbe risultato poco soddisfacente per Wilfred, con i goffi Shuttle e i satelliti televisivi, la luna che è solo dietro l'angolo e tutto il resto che potrebbe anche essere in un altro universo, per quanto è lontano ed irraggiungibile dalla Terra. Forse i veri viaggi nello spazio sarebbero stata una delusione per il nonno.
12.03.2001, 23:55, Venere bassa sull'orizzonte, aveva scritto Wilfred. Oppure: 25.05.2001, 05:10, seguito Marte per tutta la notte, tramontato adesso. 29.08.2002, 22:50, Orsa Maggiore sopra Londra, nuvole alte. E ancora: 01.01.2007, 00:00, mezzanotte, buon anno nuovo, Inghilterra, e via così fino alle ultime osservazioni, che hanno la data del 2009. Doveva aver cambiato quaderno allora, chissà dov'è finito il quaderno nuovo, chissà che c'è scritto sopra. Forse l'ha preso Sylvia, ma Sylvia sembra sempre più grigia e sempre meno Sylvia ogni volta che Donna va a trovarla.
Presa da una specie di panico sordo – la memoria dei girasoli sulla tomba del nonno è ancora troppo vicina – Donna va dal parrucchiere e si tinge i capelli e si iscrive ad un corso di cucito e appiccica i fogli della dieta Atkins al frigorifero e poi riferisce tutto a Sylvia, doverosamente. Sylvia non sembra contenta quanto dovrebbe.
Non sarà mai contenta, pensa Donna. Questa è una fitta piccolissima alla quale Donna ha avuto quarant'anni per abituarsi. Sylvia non sarà mai contenta. Qualunque cosa Donna faccia per compiacerla non sarà mai abbastanza.

25.12.2008, 06:30, Una nave caduta dal cielo ha quasi speronato Buckingham Palace. Donna crede di aver letto male, al principio, e poi si ricorda che, no, no, questo è successo. E' successo davvero. E' passato al telegiornale. Ci sono state fotografie. Il nonno era tornato a casa parlandone, cinque, no, sei, quasi sei anni prima, in effetti. Come ha potuto Donna dimenticarsi di una nave caduta dal cielo?
Tutte le cose interessanti, si dice Donna, distrattamente, sembrano essere accadute mentre io guardavo da un'altra parte; e poi se lo ridice, ma meno distrattamente, tutte le cose interessanti sembrano essere accadute mentre io guardavo da un'altra parte, tutte le cose interessanti, tutte. Tutte. Tutte.
Per guardare da un'altra parte in tutte le occasioni bisogna essere ciechi – o farlo apposta.
(Quella notte, nel sogno di Donna, lui lo fa apposta. Lei lo prega di non farlo e lui lo fa lo stesso. Donna si sveglia gridando, no, no, no, e la sera dopo e tutte le sere che seguono per una settimana lei va a letto prendendo le sue pillole per assicurarsi un sogno senza sogni.
Tu che dici no e lui che lo fa lo stesso, è questa la materia della quale sono fatti gli incubi.)
Il Titanic – non proprio il Titanic-Titanic, ma qualcosa che ci assomiglia spaventosamente – è quasi caduto su Buckingham Palace la notte di Natale del 2008. C'è stato un bizzarro episodio collettivo di allucinazioni la primavera successiva: c'è gente, sui blog e sui forum, che sostiene di aver visto piccole palle di grasso bianco saltellarsene per le strade, cinguettando allegramente, prima di essere risucchiate in una gigantesca astronave. Donna crede di ricordarsi anche di questo; deve averlo letto da qualche parte – perché di sicuro se ne ricorderebbe meno vagamente di così, se avesse visto di persona omini di lardo andarsene a spasso per Londra. Ci sono tracce di qualcosa che è accaduto a Cardiff nel 2009 e poi nel 2010 e racconti bizzarri a proposito di diciassette assurdi DVD.
Donna si fa strada a fatica in un'orgia di fatti e supposizioni lasciati in Rete ed ha l'impressione di aver già fatto tutto ciò prima d'ora. Ci sono pagine familiari e nomi che le ricordano qualcosa e poi fotografie che le lasciano la sensazione terribile di averli già guardati, quegli scatti: solo, da un'altra angolazione.
Esce un mattino per fare la spesa e torna con un quaderno nuovo, un righello ed una penna. Si siede alla scrivania e divide con cura tutte le pagine in due colonne: mondo e io. Nella colonna mondo segna tutto quel che sembra essersi persa, il Titanic e le palle di grasso e Cardiff e tutte le volte nelle quali Londra è stata apparentemente quasi invasa dagli alieni; nella colonna io c'è la vita di Donna, invece, dov'era Donna tutte le volte in cui non si è accorta di qualcosa.
La cosa spaventosa, realizza Donna tre pagine d'elenco più in là, tre pagine di doppie colonne con i fatti scritti a penna su foglio bianco, lì, spiaccicati davanti a lei, la cosa spaventosa è che Donna sembra aver trascorso un quantitativo osceno di tempo dormendo. C'è questa storia degli alberi che hanno coperto il mondo intero un bel mattino e sono spariti il giorno dopo, per esempio, che, be', dev'essere accaduta in uno di quei giorni che Donna ha deciso di bruciare in sonno e sogni, passati sul divano mentre la Terra fuori dalle finestre continuava a girare.
La cosa spaventosa è che ci sono troppe date, troppe volte, su tutti e due gli elenchi. Donna non può aver perso tutto questo tempo dormendo.
Donna non può aver perso tutto questo tempo per caso.

Se non l'ha perso per caso, questa, questa, questa è la cosa spaventosa, allora l'ha perso apposta.
(Donna non l'ha fatto apposta. Lui l'ha fatto apposta. Nel sogno, lei lo prega di non farlo e lui lo fa lo stesso, tu che dici no e lui che lo fa lo stesso, è questa la materia della quale sono fatti gli incubi.)



E' un esaurimento nervoso, si dice.
Ha rovesciato gli scatoloni per terra: strati di seta e tulle mescolati alle pagine dei suoi vecchi quaderni, le sue dimissioni della H.C.Clements – si è fermata per vedere se riusciva a ricordarsi del giorno in cui ha lasciato la ditta e si è ritrovata con la schiena appoggiata alle gambe del divano, il mal di testa a pulsarle nel fondo della testa come una spugna gonfia, mostruosa e maligna e imbevuta d'acido, e nessun ricordo nuovo ad aiutarla – e i suoi dischi, vecchie cartelle cliniche ed un libro intitolato Combattere il futuro che non ricorda di aver mai comprato.
E' un esaurimento nervoso; le allucinazioni, la stanchezza, le emicranie, potrebbe venire tutto da un esaurimento nervoso. Oppure è un tumore. E' così che si annuncia un tumore al cervello? Con amnesie e sangue dal naso?
Qualcuno ha telefonato all'ora di pranzo, ma Donna non ha risposto: se ne sta accoccolata per terra nel mezzo dei suoi scatoloni aperti, lacrimando per le fitte laceranti che le attraversano la testa e che sembrano farle pulsare tutto quel che ha tra la radice del naso e la sommità del cranio, tenendo tra le mani il quaderno di Wilfred.
Se solo il nonno fosse vivo, potrebbe parlarne con lui. Se solo il nonno fosse vivo, saprebbe cosa fare.
Se è un esaurimento nervoso, Donna vuole... Donna non crede di poter gestire la reazione di Sylvia. Se è un tumore, se è pazzia, Donna non vuole dover affrontare la cosa con Sylvia. Il nonno capirebbe. Il nonno l'aiuterebbe. Il nonno non farebbe domande, non spingerebbe, non premerebbe, il nonno è, è stato, il suo miglior amico, Donna non si vergogna di questo, sa di non conoscere nessuno più che superficialmente, ora che Shaun se n'è andato, che Wilfred è morto, che anche Sylvia sembra lontana, lontanissima, invecchiata e in un'altra casa e forse una bugiarda, perché se non è un esaurimento nervoso, se non è un tumore, allora... questo, allora, significa che...
03.01.2009, 22:15, scia di meteoriti a sud sopra la città. 21.01.2009, 00:19, Marte di nuovo visibile, 13.02.2009, 21:33, luna bellissima, 19.03.2009, 21:07...
L'appunto del diciannove marzo è illeggibile: qualcuno ci è passato sopra più e più volte con una penna, cancellandolo. Le dita di Donna sembrano inciampare su quella pagina. Tocca l'inchiostro sbiadito e tutto ad un tratto eccola lì, la furia, irrazionale e ferocissima, per tutte le cose cancellate, vere o immaginate, per tutti i ricordi non-ricordi non-memorie e non-sogni, per tutto quel che forse Sylvia non le sta dicendo – ed è quel forse che la uccide – e per quell'emicrania terribile, terribile, che non vuole passare. Se, oh, se solo si potesse cancellare quella!
Fa per gettare via il quaderno con rabbia: ma poi si alza e va in cerca di una matita e di un temperino. Il retro della pagina cancellata ha poche righe di appunti, e nessuna che si sovrapponga al punto in cui le parole di Wilfred sono state coperte. Donna tempera la matita e strofina un velo di polvere di grafite, delicatamente, sul retro della cancellatura; appoggia un foglio pulito tra la macchia di grafite e la pagina sottostante e poi fa combaciare il tutto. Con il retro della matita e con le dita ci passa sopra, più e più volte, e nel frattempo tira grossi respiri profondi: la pazzia sembra già troppo vicina, vista da questo lato del suo mal di testa, senza mettere nel mezzo anche uno scatto di furia divina.
E' solo uno sciocco appunto. E' inutile arrabbiarsi. Solo uno sciocco appunto. Magari su quella riga Wilfred aveva scritto costellazione con troppe z.
Quando Donna solleva il foglio, non sembra esserci nessun costellazzione sulla pagina; i punti dove la penna ha tracciato fossati nella carta sono a malapena leggibili, trascritti dalla grafite in una macchia polverosa e scura. Donna passa la punta della matita sulle linee, con cura, inspessendole, e tratto dopo tratto, curva dopo curva, quel che appare è:

Cabina blu volante sopra Londra.
Vai così, figliola.





(Perché mi hai fatto questo?)



“Ho bisogno di farti una domanda, mamma.”
A Donna non è necessario essere nella stessa stanza di sua madre per immaginarne l'espressione.
“Che cos'è successo? Cos'hai fatto, Donna?”
Si è ficcata due tamponi di carta igienica su per il naso per fermare l'emorragia ed ha mandato giù mezza scatola di pastiglie di Advil per riuscire a parlare al telefono, ecco cos'ha fatto Donna.
“Ho il raffreddore.”
“Il raffreddore? Ma...”
“Una domanda, mamma.”
Incredibilmente, Sylvia sembra darle retta ed interrompersi; Donna decide di approfittare della propria buona fortuna prima che la madre decida di riprendere la filippica dal punto in cui l'ha interrotta:
“Cos'è successo il giorno del mio matrimonio?”
“Il tuo matrimonio?”
“Con Lance,” specifica Donna. Sente Sylvia trattenere il respiro, dall'altra parte, e per un momento deve chiudere gli occhi e respirare per combattere il senso di vertigine: è stato un lancio nel vuoto, ma adesso Donna sa. Oh, adesso Donna sa. “Il giorno del matrimonio con Lance.”
“Non c'è mai stato nessun matrimonio,” dice Sylvia, incerta.
Donna serra i pugni e serra i denti e sbotta:
“Una cabina blu.”
Sylvia si azzittisce.
“Una cabina blu, mamma. Una piccola cabina blu che vola. Ti dice niente?”
“Donna...”
“Perché se sono pazza, mamma, questo è il momento giusto per dirmelo. Il momento buono è questo qui. Puoi dirmi se credi che io sia pazza, se credi che... che non sai che cosa sto dicendo, puoi dirmelo, davvero, ora o mai più, puoi dirmi che non sai che ho trovato il vestito del matrimonio nello scatolone e c'è del fango sopra anche se non l'ho mai indossato, che non ricordo che cos'è successo a Lance, è stato lo choc, mamma? Il trauma? Adesso, dimmi che sono pazza. E' il momento giusto.”
Sylvia rimane in silenzio per un lungo, lungo, lunghissimo momento, e per quel lungo, lungo, lunghissimo momento Donna rimane in sospeso sul bordo: c'è un crepaccio sotto ai suoi piedi, il vuoto, ed il terreno è scivoloso, è viscido. Un passo e si finisce per precipitare.
“Non avresti dovuto saperlo,” mormora Sylvia alla fine, raucamente. Il crepaccio è più largo e più fondo e più nero, adesso, ma il terreno sotto ai piedi di Donna non trema più. “Non dovevo parlare. Il nonno ed io, noi non dovevamo parlartene.”
Donna deve chiudere gli occhi di nuovo:
“Ma mi hai dato gli scatoloni. Mi hai dato il vestito. Sapevi che c'era il vestito, mamma.”
“Quel che ti ha fatto non è stato giusto. Non è stato...” La voce di Sylvia prende una sfumatura che Donna non crede di averle mai sentito usare; ma poi si ricorda di quel giorno di scuola – non poteva avere più di undici o dodici anni – in cui Sylvia si era presentata in classe, le labbra strette e la faccia scura, per fare quattro chiacchiere con David Thompson, il bulletto del terzo banco. David Thompson non aveva mai più nemmeno osato guardare in direzione di Donna, dopo quella volta. “Non è stato giusto. Era diverso, quando c'era Shaun. Era diverso. Tu eri felice. Credevo fossi felice. Io e il nonno ne abbiamo discusso, oh, se ne abbiamo discusso! Tutti i giorni. Non voleva che ti dicessi nulla, Donna, e non so se...” Sylvia deve fermarsi per tirare su con il naso, e Donna vorrebbe dirle che basta così, che non deve dire più nulla, che va bene così, ma non ci riesce: davvero, davvero, davvero non ci riesce, pende dalle sue labbra, pezzi e frammenti e il mal di testa che sembra farla cieca di dolore. “Non so se ho fatto bene. Non so se lo scatolone è stato una buona idea. Ma lui ti ha riportata a casa e sembrava che gli ultimi due anni non fossero mai passati, non ricordavi niente e non eri cambiata per niente ed io non potevo più vederti così. Ti ha lasciata sul letto e ha detto che eri la donna più importante dell'universo, ha detto proprio questo, la donna più importante dell'universo; e il giorno dopo tu ti sei alzata e hai telefonato a... a Priscilla, a Liza, non ricordo, Dio, ad una di loro, e ti sei messa a parlare di scarpe.” Sylvia emette un suono che è più vicina ad un singhiozzo che ad una risatina. “Di scarpe. Credevo che tuo nonno si sarebbe messo a piangere.”
E' Donna che piange, adesso, un po' per il dolore pulsante nella testa, atroce, finirà per ucciderla se non smette subito, e un po' perché prima dei sogni, prima di Shaun dalla spalla sbagliata e del vestito bianco nello scatolone, Donna davvero non avrebbe capito cosa ci fosse di male in quelle scarpe: ma adesso c'è la Galassia di Bode, nella sua testa, e il ricordo dell'uomo che balbetta e delle stelle scomparse e del qualcuno alla sua destra che, apparentemente, le ha rubato due anni di memorie. Con una cabina blu nella testa, tornare ad essere Donna Noble-Temple (Donna di Downtown Abbey e del Sun, Donna dello shopping a Mayfair e delle gite al mare in alta stagione e dell'importanza delle bomboniere di porcellana, Donna che non alza mai la testa) è impossibile.
E' stato come se l'avesse uccisa, pensa Donna. Toglierle quelle memorie – le sue memorie! sue! – è stato come ucciderla. Ha ucciso Donna-Donna, e quel che ne è rimasto è stato solo...
Non sono un guscio, pensa Donna. Vorrebbe urlarlo. Non un guscio, non un guscio, non un guscio, io vivo! Io ricordo!
“Mamma?” La voce le trema un po', e la sente rauca. Spera di non spaventare troppo Sylvia, ma restare al telefono è una tortura, restare al telefono e parlare la sta uccidendo in fretta. Ha bisogno di sdraiarsi. “Devo attaccare, adesso.”
“Donna? Donna, sto venendo da te. Aspetta...”
“No, no. Non venire. Va tutto bene, mamma. Solo... grazie. Grazie, va bene? Grazie.”
“Donna...?”
Donna sente Sylvia continuare a parlare dall'altra parte della cornetta, la voce che si alza nel panico, ma le orecchie le ronzano e le ginocchia non la reggono più in piedi: la sua testa si sta spaccando, ha qualcosa di caldo ed umido che le cola dal naso e un gusto salato sul fondo della gola, dev'essere un ictus, pensa Donna, confusamente, un ictus, un aneurisma. Si può morire, così, con la testa che scoppia.
Sto morendo, realizza. In qualche modo, aveva pensato avrebbe fatto meno male.
Abbassa la cornetta con estrema cautela e poi c'è il pavimento che le viene incontro, la botta contro le ginocchia, il freddo sugli stinchi e sulle cosce, sotto le spalle e il collo quando anche la testa finisce per terra. Il sangue è una pozza di caldo sotto la sua guancia. Si fa appiccicoso in fretta. Donna va giù, giù, giù, e tutto ad un tratto si ricorda di aver già vissuto tutto ciò, nel cortile sul retro di casa dei suoi, con tre sconosciuti biondi dalle facce tutte uguali che le venivano incontro e Wilfred al telefono che le diceva di scappare.
Va giù, sempre più giù, e l'ultimo pensiero – nel mezzo dei ricordi che brillano e turbinano, adesso, come un milione di universi bellissimi, pianeti di diamante e libri e le stelle, oh, le stelle, tutte quelle stelle appena fuori dalla porta del T.A.R.D.I.S., una spiaggia di ghiaccio dove il cielo ha tutti i colori dell'arcobaleno e le mani di Lee sui suoi fianchi, il tempo e lo spazio e un milione di miliardi di possibilità sotto le sue dita – be', nel mezzo di tutto ciò, l'ultimo pensiero è:
ne è valsa la pena, Dottore.


(L'intero universo, le dice il Dottore, ed io ho incontrato te per due volte. Come se qualcosa ci legasse assieme.
Lei gli aveva detto di non essere sciocco e di non dire idiozie, che non era niente di speciale, lei, niente di unico, solo Donna, umana e mortale e una precaria e non davvero intelligente. Solo Donna.
Ma, magnifica Donna Noble, le dice il Dottore, magnifica, brillante Donna Noble.
Per un secondo, per un intero, stupendo secondo, era stata lei la persona più importante dell'universo.)



***





Ci sono cose più brutte di un Sontaran, ma non molte.
No, questo non è vero. Ci sono moltissime cose più brutte di un Sontaran, ma un notevole numero di quelle cose sono cose che il Dottore non ha occasione di incontrare spesso, mentre i Sontaran, con le loro teste di patata e facce spadellate e andatura a pinguino storpio, vagano per l'universo come pulcini in cerca di una mamma chioccia, un po' qua, un po' là, sempre pigolando con le loro vocine di anatra gran fumatrice di sigari, facendo saltare in aria pianeti e distruggendo civiltà aliene e, di tanto in tanto, recandosi a Londra, sulla Terra, attratti presumibilmente dal clima mite e dall'aria buona, se non fosse che Londra è Londra, Londra non saprebbe riconoscere un clima mite se le venisse sbattuto sulla faccia e non ha un'aria respirabile in nessun periodo che venga più tardi del Tredicesimo Secolo.
Comunque. Ci sono indubbiamente cose più brutte di un Sontaran, ma un esercito di Sontaran nei cieli sopra Westminster alle cinque del mattino è uno dei più calzanti equivalenti cosmici di una fila di due ore all'ufficio postale: inutile, sgradevole ed una perdita di tempo.
Alla fin fine, il Dottore se l'è cavata con una giacca strinata ed una chiazza di muco sulla camicia. Clara dovrà buttar via il vestito o cercarsi un eccellente lavasecco, perché quella roba lì non se ne andrà via tanto facilmente; la cosa sembra averla messa di pessimo umore, e il Dottore ha ritenuto opportuno effettuare una deviazione sulla via del T.A.R.D.I.S. ed accompagnarla a fare colazione in un eccellente caffè in Regency Street – nella speranza che una fetta di torta alle carote servisse in qualche modo ad attutire gli effetti del malumore, perché Clara con il malumore è, be', Clara con il malumore è una bomba ad orologeria, è una fiala di nitroglicerina in attesa solo della giusta scrollata, qualcosa da maneggiare con infinita cautela.
In questa specifica incarnazione, le capacità del Dottore nel campo delle relazioni interpersonali sono desolatamente carenti; in compenso, le sue conoscenze nel settore Clara vanno migliorando di giorno in giorno. Evolvi o muori, si dice il Dottore, guardando la schiena di lei allontanarsi lungo la strada e sparire all'altezza della fermata della metropolitana. Si sarebbe offerto di riportarla a casa con il T.A.R.D.I.S., ma, per essere certo di tenerla il più lontano possibile dai Sontaran (le navette dei quali hanno la sgradevole abitudine di esplodere nei momenti meno opportuni), l'ha parcheggiata a tre miglia di distanza.
Tre miglia sono una buona passeggiata, decide il Dottore. In lontananza si intravede una nuvola di fumo, e lì da quelle parti dev'essere pieno di gente dell'UNIT, ma Regency Street è tranquilla e quasi vuota; evidentemente la prospettiva di un attacco alieno ha tenuto in casa gran parte dei bravi cittadini londinesi. Il Dottore prende la strada più lunga per tenersi alla larga dalla polizia e dall'UNIT, passa per il parco e sale su per il Tamigi invece di tirare dritto in Charing Cross; ma, una mezza dozzina di giri superflui più tardi, ecco Trafalgar Square ed ecco la National Gallery ed ecco, ecco, ecco la sua bellissima cabina blu, mai vista fu più gradita in un'umida e noiosa mattinata uggiosa. Punta dritto filato in quella direzione, perché tutte queste ore sprecate a Londra gli stanno facendo prudere la pelle con il desiderio di filarsela e fare una capatina su Orione III, magari, Orione III sarebbe una buona scelta, i Sontaran non hanno mai messo piede su Orione III, o su una qualunque delle lune di Gantor, niente Sontaran neanche lì, o sul Parco Molto Grande di Ganimede, chiuso ai visitatori nel Trentatreesimo Secolo a seguito di uno sfortunato incidente occorso con una delle recentemente clonate tigri dai denti a sciabola e lasciato a sé stesso, intatto e indisturbato, fino al giorno in cui il Sole, esplodendo, si è portato via una grossa fetta di Sistema Solare. Il Parco Molto Grande di Ganimede, si dice il Dottore, sarebbe una scelta eccellente: non solo non ci sono Sontaran, su Ganimede, ma, scegliendo il secolo giusto, non ci saranno neanche umani. Ah-ha! Nessuno che parli. Nessuno che strilli. Nessuno che si lamenti. Nessuno nel panico.
Pensandoci bene, potrebbe passare a prendere Clara e portarla con sé, perché un paio di ore di molto parco e niente studenti farebbero meraviglie per il suo livello di stress, e nessuno più di Clara ha bisogno di...
“Dottore?” lo chiama qualcuno alle sue spalle, proprio mentre il Dottore sta poggiando una mano sulla porta chiusa del T.A.R.D.I.S..
Il Dottore si gira.
Il pugno, così, gli arriva precisamente sul mento, un fantastico montante destro che, salendo dal basso verso l'alto con un ammirevole entusiasmo che sopperisce alla tecnica da principiante, lo manda a sbattere la testa contro la porta del T.A.R.D.I.S..
“Ouch,” dice il Dottore.
“Ouch un corno,” sbotta Donna.
E subito dopo, per amor di simmetria, gli assesta un gancio sinistro.



Il Trentaquattresimo Secolo è il periodo perfetto per godersi il Parco Molto Grande di Ganimede: non sono passati più di settant'anni dal giorno in cui gli ultimi ricercatori e custodi hanno abbandonato il satellite, e i predatori del posto non hanno ancora avuto il tempo di riprodursi ed evolversi a sufficienza. Un millennio a partire da ora e Ganimede brulicherà di squali di terra e leoni con tre file di denti e orsi grossi come locomotive (agli scienziati stanziati nel parco era piaciuto sperimentare con la genetica, e non avevano mai avuto la dose di buonsenso necessaria per capire che l'universo davvero non ha bisogno di migliorare i propri predatori, a quello ci pensa già l'evoluzione, grazie tante); ma, per adesso, il Dottore e Donna possono starsene tranquillamente seduti su un tronco caduto in cima ad una scogliera, guardando la cascata e il lago sotto di loro e spingendo con il piede, di tanto in tanto, qualcuno dei membri più avventurosi di un branco di meduse volanti.
“Sapevo che dovevo solo aspettare,” gli sta dicendo Donna. Sembra che assestargli due pugni sulla faccia le abbia fatto bene: non sta precisamente sorridendo, ma l'espressione con la quale contempla la medusa che ha di fronte è meno fosca di quanto il Dottore temesse. “Aspettare che la televisione cominciasse a parlare di astronavi parcheggiate sopra al Big Bang, o di balene nel Tamigi, o di una squadra di manichini assassini in un supermercato nell'Hertfordshire, e tu saresti spuntato fuori.”
“Era un buon piano,” ammette il Dottore.
“Era l'unico piano che avessi. Non mi hai lasciato molta scelta, Dottore.”
Il Dottore si sposta tre centimetri più in là sul tronco d'albero, mettendo più distanza possibile tra sé stesso ed un eventuale terzo pugno, ma Donna si limita a rivolgergli un'occhiataccia.
Dopo un lungo momento di silenzio, durante il quale il branco di meduse è fluttuato più in basso lungo la scogliera, spinto dal vento, Donna si schiarisce la gola:
“Quante volte ti sei...?” Si passa una mano davanti alla faccia, due volte, in un curioso gesto da mago.
Il Dottore sbatte le palpebre due volte, senza capire:
“Lavato la faccia?”
Donna alza gli occhi al cielo:
“Buon Dio, l'uomo più sveglio della Galassia. Rigenerato, Dottore. Quante volte?”
Il Dottore alza due dita senza parlare, indice e medio, e torna a guardare le meduse. Donna sembra fare due conti a mente, perché inarca un sopracciglio, sorpresa e perplessa, ma non dice niente. Lo fissa e sembra cercare qualcosa sulla sua faccia: il Dottore vorrebbe dirle che è inutile, che non è rimasto niente degli occhi, del naso, del mento e delle orecchie che lei ricorda, e invece tiene la bocca ben chiusa.
“Mi hai lasciata indietro,” dice Donna, quietamente: tanto quietamente, in effetti, che è come un colpo alla schiena. Se il Dottore non sussulta, è solo perché se l'aspettava.
“Era l'unico piano che avessi,” le fa eco. “Non avevo molta scelta, Donna.”
“Ce l'avevi, imbecille.”
Il Dottore alza gli occhi, offeso e sbalordito, e Donna agita la mano sinistra al suo indirizzo:
“Ehilà? Buongiorno anche a te, Dottore, e, guarda un po', sono molto poco morta e decisamente molto viva e se mi avessi dato cinque minuti per radunare le idee e pensarci su avrei potuto dirti che non c'era nessun bisogno di cancellarmi come una lavagna sporca al primo colpo!”
“Io non...”
“Quattro anni!” ringhia Donna. Il Dottore deve tirare indietro la testa per evitare di farsi infilzare un occhio dal dito di lei, puntato come una lancia all'indirizzo della sua faccia. “Quattro anni, Dottore! Mi ci sono voluti quattro anni per rimettere insieme i pezzi e salvare il necessario, e sarebbe stato tutto molto più facile se non avessi dovuto sprecare una metà buona di quel tempo stuccando i buchi che mi avevi lasciato nella testa!”
Il Dottore balza in piedi, agitando le mani convulsamente:
“Credevo stessi per morire!”
Stavo per morire, ma avresti dovuto chiedere! Avrei potuto aiutarti, e non me l'hai permesso!” Il Dottore se ne resta fermo, allibito, quando Donna si tira in piedi, gli pianta l'indice contro il petto e comincia a spingerlo indietro, “Non me l'hai lasciato fare, Dottore, ed era la mia testa, le mie memorie, la mia vita! Non era tuo diritto non lasciarmi scelta!”
Il Dottore apre la bocca, cerca qualcosa da dire, richiude la bocca. Ci riprova, e stavolta la bocca sembra richiuderglisi da sola. Guarda in faccia Donna e, al terzo tentativo, riesce a farsi uscire:
“Non potevo lasciarti morire.”
Le parole che vengono fuori non sono precisamente quelle che pensava di voler dire, ma sembrano essere quelle giuste: perché la furia pare abbandonare Donna come aria che scappa da un palloncino bucato. Donna dà l'impressione di sgonfiarsi, le spalle abbassate, il dito ritratto, la bocca meno minacciosa.
Il Dottore distoglie lo sguardo.
“Non potevo non fare niente.”
Donna annuisce:
“Lo so, Dottore.”
“Non volevo che finisse così.”
“Sì.”
“Lui non ha... io non ho avuto più nessuno, dopo. Con me. Fino a quando non mi sono...” Stavolta è lui ad esibirsi nel gesto da mago, due passate di mano davanti alla faccia. Donna sembra non riuscire a fare a meno di sorridere; aggrotta la fronte, subito dopo, cercando di recuperare un'espressione tempestosa, ma il sorriso ormai le è scappato.
Per compensare, torna a puntargli il dito contro:
“Non sei ancora perdonato, Dottore.”
Il Dottore annuisce:
“Sì.”
“Sono ancora furiosa.”
“Sì.”
“E non osare dirmi !”
Il Dottore richiude prontamente la bocca su una s formata solo a metà.
Si guardano e il Dottore ripensa a quel gloriosissimo momento nel T.A.R.D.I.S. in cui aveva creduto, per sessanta meravigliosi secondi, davvero, non potevano essere stati più di sessanta secondi, che non avrebbe più dovuto volare da solo; che avrebbe avuto una flotta per la sua nave ed un Signore del Tempo a dividere con lui tutto la spazio e il tempo – non un vero Signore del Tempo, e non per sempre, sicuro, perché Donna è umana e mortale e non ci sarà nessuna rigenerazione per Donna, ma per un po'. Un po', ha scoperto il Dottore in mille anni e rotti di vita, è molto meglio di mai. Aveva creduto per sessanta secondi di poter tenere Donna Noble con sé per un po', e quei sessanta secondi gli hanno fatto male per tutti e cinquecento gli anni che sono seguiti.
Ma Donna è molto poco morta, adesso, e decisamente molto viva, e Donna ricorda tutto e Donna è davanti a lui e il Dottore può parlarle di nuovo, adesso, mezzo millennio più tardi, quando aveva creduto che tutto quell'un po' si fosse trasformato in un mai.
Il sorriso sulla faccia del Dottore è lento ad aprirsi; e c'è Donna, davanti a lui, che ha ricominciato a sorridere da un minuto buono, mentre lui ci pensava sopra, sorride e lo guarda e per un momento – gloriosissimo momento – questo è il migliore degli universi possibili.



“Devo chiedertelo,” le dirà il Dottore, dopo, quando saranno di nuovo seduti sul bordo, bevendo tè e sbafandosi fragole di bosco grosse come meloni. “Come hai fatto?”
Il sopracciglio inarcato di Donna è un capolavoro; il Dottore, che da questa specifica rigenerazione ha guadagnato un paio di notevoli sopracciglia tutte sue, è adesso in grado di esserne il più fine estimatore.
“Come ho fatto cosa?”
“La mente umana non è pensata per avere tutto quel tempo e quello spazio dentro. Si stava liquefacendo. Due minuti ancora ed il cervello avrebbe cominciato a colarti dal naso. La tua amigdala si sarebbe fritta come...”
Donna allunga una mano sporca di succo di fragola e gli pianta due dita sulla bocca, chiudendogli assieme le labbra e soffocando il grugnito di sorpresa del Dottore:
“Sì, no, niente dettagli, a posto così, grazie.”
Il Dottore mugugna qualcosa di intelligibile e Donna lo lascia andare:
“Vuoi sapere come ho fatto?”
“... sì?”
“Quattro anni di tempo per mettere toppe, cancellare tutto quel che non mi serviva e tenere solo quel che era necessario, ecco come ho fatto. Non ho più tutto quel... pasticcio... di nomi e di date e di formule e di mappe, nella testa. Niente più equazioni matematiche a sette incognite per il calcolo della dislocazione temporale dei corpi in movimento. Niente più formula universale per la gestione del fattore entropia durante i viaggi nel tempo a lunga distanza. Niente più sette miliardi di nomi di pianeti disabitati, tanto per fare un esempio, niente più elenchi di inutili satelliti e di disutili asteroidi e di potenziali stelle binarie.”
Al Dottore serve un momento per digerire la cosa:
“Quindi, niente più...”
“Niente più DottorDonna. Be', niente più un settanta per cento del DottorDonna. Quel che resta è abbastanza. E vuoi sapere come mai io ci ho pensato e tu no?”
“Perché tu hai avuto quattro anni per pensarci,” azzarda il Dottore, “ed io no?”
Anche il sorriso di Donna, decide il Dottore, è tutto un capolavoro.
“Perché tu sei solo un Signore del Tempo,” gli risponde lei, “ed io no.”

E:
“C'è spazio sul T.A.R.D.I.S.. C'è sempre spazio sul T.A.R.D.I.S..”
Il Dottore deve dirlo senza guardarla direttamente negli occhi – perché il Dottore è consapevole di essere un terribile vigliacco, ci vuole una quantità irrisoria di coraggio per decidere di guidare il T.A.R.D.I.S. nel cuore di una supernova, ma una quantità mostruosa di coraggio per rischiare un rifiuto a faccia aperta.
Donna scuote la testa e gli rivolge un piccolo sorriso mesto:
“Hai già qualcuno a bordo, Dottore.”
“E' il T.A.R.D.I.S., non una capsula di salvataggio, tre persone a bordo non cominciano neanche a scalfire la quantità di spazio a disposizione, perché tutti continuano a non...”
“Intendo dire, Dottore,” e il Dottore si ammutolisce, perché lo si può accusare di essere un vigliacco, sicuro, ma non un imbecille, “che adesso hai qualcuno a bordo, e non sei solo. Io non ti servo. E...” Lo interrompe di nuovo lei, prima che lui possa cominciare a protestare e a dirle che, sicuro che Donna non gli serve, non gli serve nessuno, né Donna, né Clara, né... né nessun altro, lui è il Dottore e non ha bisogno di una badante: “E la verità è che non sono certa di poter tornare a viaggiare con te, adesso. Non come prima. Non subito, almeno,” gli spiega Donna, molto, molto gentilmente. “Perché ti avevo detto no, Dottore, e tu l'hai fatto lo stesso.”
Tutte le buone ragioni di questo mondo gli muoiono sulla punta della lingua.
“Perciò vuoi tornare sulla Terra?”
Per un attimo, il rimpianto sulla faccia di Donna si fa intollerabile:
“Te l'ho detto, Dottore. Non mi hai lasciato molte scelte.”
Se ne restano in silenzio per un po', dopo, masticando fragole colossali e guardando il sole abbassarsi sulla linea dell'orizzonte di Ganimede; da così in alto sulla scogliera, il bosco ai loro piedi è come un mare verdissimo dove le meduse volanti si fanno strada tra le foglie più alte, spinte dal vento pigro, ed uno sciame di libellule grosse come falchetti ronza sulla superficie scura del lago. Il Dottore pensa a scelte e possibilità e, quando l'idea più folle che mai follia abbia generato gli attraversa il cranio, quasi si strozza con un sorso di tè.
“Sai, Donna...?”
“Sì?”
“Possono volerci anche trecento anni per far crescere un T.A.R.D.I.S..”
Non serve un vocabolario per tradurre il sopracciglio inarcato di Donna in un chiarissimo e dunque?
“Ma forse conosco il posto giusto – e non c'è bisogno di aspettare tutti quei trecento anni, dopotutto, basta fare un salto avanti e recuperarlo quando sarà cresciuto, credo. Non serve fare la fila, quando hai una macchina del tempo che ti permette di aggirarla. No?”
“Dottore,” lo interrompe Donna, pazientemente. “C'è un punto, in tutto ciò, o stai solo dando aria alle corde vocali?”
“Ho un pezzetto di T.A.R.D.I.S. neonato a bordo,” spiega il Dottore. Lo spiega in fretta, perché ha paura che, se si fermerà a parlare lentamente ed a riflettere, cambierà idea. E' una follia. E' un'assoluta, folleggiante follia che folleggia. “L'aveva qualcuno che conoscevo – ti ricordi del Capitano Jack? – ma è rimasto sulla Terra quando Jack ha...” Attraversato un momento difficile, dove difficile è un eufemismo e, a ben vedere, lo è anche momento. Tentato il suicidio per annegamento in diverse dozzine di bottiglie di liquore. Perso il senno, smarrito la brocca, abbandonato le sicure acque della sanità mentale. “... lasciato Cardiff.”
“Il Capitano Jack,” gli fa eco Donna, confusa. Aggrotta la fronte e pare cercare di spremersi la memoria: il Dottore potrebbe indicare con assoluta precisione il momento in cui Donna ricorda, perché vede la sua fronte spianarsi di botto e osserva, rassegnato, l'allargarsi di un lento, piccolo, malizioso ed eloquente sorrisetto. “Ooooh, il Capitano Jack. Alto, scuro, sexy, drammatica giacca lunga volteggiante?”
No, Donna.”
, Dottore. Sicuro che mi ricordo di Jack. Il Capitano Jack. Il Capitano Jack Harkness. Bisognerebbe essere morti, per non ricordarselo. Non che non sia felice di averci ripensato, ma che cosa c'entra tutto ciò con...” Donna si blocca ed un'espressione di assoluta, improvvisa, sbalordita illuminazione le attraversa la faccia: “Aspetta, aspetta, aspetta. Aspetta. Non stai veramente dicendo quel che penso che tu stia dicendo.”
“Non saprei. Che cosa pensi che io stia dicendo?”
“Un T.A.R.D.I.S. neonato. Hai un T.A.R.D.I.S. neonato a bordo. E ne stai parlando con me. Ne stai parlando con me adesso.” La faccia di Donna si fa uno strano miscuglio di speranzoso e incredulo e dubbioso, incertezza e insicurezza e sospetto, ma lo speranzoso sembra stare vincendo su tutto il resto, e lo speranzoso di Donna, be', lo speranzoso di Donna è abbagliante. Lo speranzoso di Donna potrebbe illuminare a giorno interi pianeti. “Ne stiamo parlando sul serio?”
I Signori del Tempo gli avrebbero dato fuoco per una proposta simile. I Signori del Tempo gli avrebbero dato fuoco anche solo per aver pensato ad una proposta simile. Ma i Signori del Tempo sono in un altro universo, Gallifrey non c'è più – e forse non ci sarà mai più – e i T.A.R.D.I.S. non sono fatti per dormire in un cassetto. Il trenta per cento che è rimasto del DottorDonna potrebbe essere più che sufficiente per fare di Donna qualcuno che... qualcuno che può...
“Ci possiamo provare,” dice il Dottore, prudentemente. “Provare. Non assicuro niente.”
Il viso di Donna sembra illuminarsi come dall'interno, le rischiara gli occhi, e il Dottore aveva quasi dimenticato com'era essere guardati così da Donna. Quasi dimenticato: per dimenticarsene davvero, si dice, bisognerebbe essere morti.
Il trenta per cento. Il trenta per cento, una Donna Noble ed un pezzetto di T.A.R.D.I.S..
Alla fin fine, penserà il Dottore, ci sono universi che sono stati creati con possibilità molto meno promettenti di queste.








Note della storia:
Scritta e impacchettata per il regalo di Natale di Lilith Hedwig.
Era partita come una graziosa storiellina di due pagine che avrebbe preso la cosa alla svelta ed alla leggera e si è trasformata in un mostro di diciotto pagine che ho completato alle cinque del mattino di ieri notte.
Il titolo è nato come il suggerimento ironico di mio fratello - in casa mia l'ironia è la risposta diffusa e ampiamente usata alla disperazione, e stamattina, in cerca di un titolo che non si decideva a venire, ero molto, molto, molto disperata - ed è rimasto. Tabularasa, tutto attaccato, come abracadabra, o anche t a b u l a r a s a, perché quando stacchi le lettere e le consideri singolarmente, tutto perde di senso. L'espressione fare tabula rasa nasce dall'uso romano di scrivere su tavolette di cera e cancellare poi quel che si era scritto, ricoprendo la cera vecchia con nuova cera e lisciandone la superficie, per poterle riutilizzare.

Suppongo non sia necessario dire che ho passato gli ultimi quattro mesi lavorando e ingozzandomi di otto serie del Doctor Who per cercare di dimenticarmi del fatto che stavo lavorando, vero?
Sono ancora in lutto per Donna, non ho mai elaborato bene la cosa di Rose (mi si può trovare, di tanto in tanto, con lo sguardo perso nel vuoto ed un guh sulle labbra) e faccio del mio meglio per non pensare al fatto che Jack Harkness è sparito dalla serie e la cosa non mi va bene per niente. Pensate solo a questo: Jack e River Song e l'Undicesimo Dottore. Meglio ancora, meglio ancora, sentite questa: Jack e Donna e il Dodicesimo Dottore. Jack e Donna e Clara e River Song e il Dodicesimo Dottore. Riuscite a sentire il ribollire di un miliardo di possibilità che fermentano? Perché IO lo sento.

Sto cercando di porre rimedio a tutte le recensioni alle quali non ho risposto e a tutte le storie che ho lasciato in sospeso. Vi prego di avere pazienza con me.
Buon anno nuovo, gente.
  
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