Mirror, mirror
on the wall
Primo giorno, 11.30 di un mattino piovoso e, apparentemente, senza fine.
Belle sbircia con lo sguardo attraverso le tapparelle della biblioteca,
soffermandosi per qualche momento sui pesanti nuvoloni che incombono in cielo.
Poi, istintivamente, stringe le dita intorno alla tazza e sorseggia poco a
poco: nessun segno di pericolo mortale, nessun regno magico sul quale fare
ricerche, nessuna emergenza alla quale porre rimedio.
Solo la pioggia, copiosa e zampillante, che batte a più riprese sui vetri.
Sarebbe il giorno ideale per preparare l’ennesima miscela di tè, afferrare il
piumone e bearsi della compagnia di un libro – probabilmente dovrà aspettare la
prossima maledizione spezzata affinché capiti un altro momento del genere.
Forse, se si sforzasse un po’, potrebbe immaginare quel giorno come uno dei
rari attimi di estrema beatitudine e perdersi con l’immaginazione in avventure
che non avverranno mai. Nei libri, in fondo, sembra che la speranza non
abbandoni mai il protagonista e, pur dovendo compiere gesta eroiche, incrocerà
il “vissero felici e contenti” alla fine del cammino.
Quindi, in procinto di scegliere tra le avventura di un certo Artù – le suona
sin troppo familiare, deve averlo già sentito nominare nella Foresta Incantata
– e la romantica esperienza di qualche eroina della letteratura moderna, Belle
si trova per la prima volta nella sua vita a voler rinnegare la lettura.
Tra i due tomi vi è una voragine, uno spazio che Belle crede mancante, ma ogni
libro occupa una posizione ben precisa. Dunque, dopo un’accurata ricerca,
giunge alla conclusione che si tratti di una ripartizione avvenuta ben prima
della sua comparsa a Storybrooke e che quello sia un semplice spazio… vuoto.
«Uno spazio vuoto…», ripete Belle, articolando i pensieri in parole.
Le sue dita tremano intorno alla tazza e le diciture delle copertine iniziano a
comparire offuscate, mentre pesanti lacrime le solcano gli zigomi – anch’esse
copiose, ma nascoste ai più, a differenza della pioggia.
Sette giorni dopo, 14:30, qualche nuvola in cielo.
Belle punta lo sguardo verso l’alto, chiedendosi di quale colore avrebbe
potuto rivestire l’enorme abitazione.
Ricorda bene la prima volta che vi entrò, le era addirittura sfuggita una
risata, era davvero troppo… rosa. Pensò che fosse davvero ironico, poiché
il Castello Oscuro nella terra delle favole era chiamato così per un motivo ben
preciso – e, invece, eccola lì, la casa più sgargiante dell’intero isolato.
La prima volta che Belle vide quell’abitazione gli fece notare quanto fosse
così poco coerente con la sua stessa natura, attendendo una risposta
sarcastica, ma tutto quel che uscì dalle labbra di Rumplestiltskin fu un
semplice: «Se non qualcuno, qualcosa doveva pur ricordarmelo».
Buffe le cose che si ricordano a distanza di tempo, curiose le piccolezze alle
quali la nostra memoria si aggrappa: Belle leva ancora lo sguardo verso l’alto,
pensando al colore che avrebbero dovuto scegliere insieme – dopo la
maledizione, perché ce n’era sempre una da disinfestare, tutto il tempo del
mondo per portare a termine noiosi progetti coniugali e… pitturare interni,
esterni, magari costruire un recinto solo per sfruttare la vernice avanzata –, giungendo
alla conclusione che magari avrebbe potuto mentirle anche riguardo la
nuance da utilizzare.
E ora… ora non l’avrebbe mai saputo, magari avrebbe lasciato decidere a lei o
magari sarebbero stati d’accordo, chissà.
In fondo, non si erano mai ritrovati sulla stessa pagina: stesso libro, forse,
ma in capitoli diversi. Belle aveva saltato interi capitoli pur di andargli
incontro, si era persa pagine che non avrebbe mai tralasciato per raggiungerlo
e tendere un’ancora in sua direzione, sperando che sarebbe tornato indietro, al
punto di partenza, solo per lei. Solo per procedere insieme, mano nella mano,
leggendo le stesse parole e rispettando le stesse pause e, infine, chiudendo il
medesimo libro nell’esatto momento.
Un sospiro affranto, seguito da una rapida falcata e poi un’altra, ancora, sino
ad arrivare alla soglia: sette giorni dovrebbero bastare per evitare di
aggirarsi nell’isolato, anche se si avverte il bisogno di vestiti puliti, dovrebbero
essere abbastanza anche per eludere le domande dei cittadini di Storybrooke circa
“quel che sarà d’ora in poi”.
Chi decide quando sarà giusto dire dopo, in fondo?
Chi, esattamente, può affermare che sette giorni bastino e, d’ora in poi, tornerà
a essere Belle, il topo da biblioteca, con i suoi turni di lavoro prefissati da
chissà quale maledizione e la sua pausa pranzo, solitamente da Granny’s – venti
minuti di pura insofferenza, preferirebbe una battuta sardonica da parte di
Leroy piuttosto che la persistenza di quegli sguardi indagatori.
Eppure Belle continua a inoltrarvisi, prima o poi quell’aria d’indignazione
dovrà sparire dai loro volti, conscia del fatto che non avrà un esterno
verniciato o un recinto edificato a dovere o, in un sol giro di parole, la vita
che non avrebbe mai dovuto volere.
Quindici giorni dopo, 23:00.
Belle
non ha mai avuto problemi di insonnia, nemmeno in passato (quando le ragioni
non sarebbero certo mancate), ma l’appartamento al di sopra della biblioteca è
un monolocale in pieno centro, a pochi passi dal Rabbit Hole e dagli
schiamazzi derivanti dallo stesso. Quindi, dopo essersi rigirata nel letto per
l’ennesima volta, si alza in piedi e indossa un paio di stivaletti.
Non si cura molto del suo aspetto esteriore, si osserva per qualche momento
allo specchio e decide che una treccia è quanto di più promettente può offrire
la sua immagine quella sera.
L’aria di Storybrooke è pungente, le arriva sin nelle ossa, eppure è quanto di
più vivo in quei giorni sente sulla pelle: ora che la monotonia
contraddistingue la sua vita, ben quindici giorni dopo, ogni cosa le
appare futile, vana, condita di un pizzico di pura inconsistenza.
Quindi oltrepassa la soglia del Rabbit Hole e, per una volta, gli
sguardi non si posano su di lei come se fosse la vittima sacrificale di
un’offerta mai elargita e la musica sembra un buon sottofondo per evitare
chiacchierate inopportune.
O, almeno, quasi tutti gli sguardi: Belle tira un sospiro di sollievo nel
momento stesso in cui i suoi occhi incontrano quelli di Regina, la quale ha un indiscreto
ovale di stupore stampato sulle labbra.
«L’ultima persona che mi sarei aspettata di trovare qui», esordisce Regina,
osservandola.
«Potrei dire la stessa cosa», denota Belle, mentre la sua interlocutrice la invita
a occupare un posto.
«Ne ho abbastanza dei discorsi speranzosi da parte dei Charmings,
immagino. Attendo che lo scotch faccia il suo effetto, ma son passati pur
sempre gli stessi giorni».
«Quindici giorni», afferma Belle, risoluta.
«Quindici giorni, sì», ripete Regina, alzando il suo bicchiere a mo’ di
brindisi. «Quale differenza potrebbe fare, a questo punto?».
«Quindici giorni oggi, sedici domani. Tra poco, voglio dire. E poi altri
quindici e ancora e… Perché tenerne il conto, in fondo».
Belle fa un cenno al barista, indicando il drink della sua improbabile compagna
di bevute; quest’ultimo carpisce al volo e, senza neppur accorgersene, si
ritrova con un bicchiere sotto il naso e l’odore dello scotch nella gola. Così,
tutto d’un fiato, come se sentisse la gola riarsa e l’ultima goccia fosse a
portata di mano.
Persino Regina sembra colpita da tale gesto, ma si tratta di un breve momento:
quando Belle tossisce sonoramente, sembra ritornare sulle sue posizioni e
preferisce bere a piccoli sorsi il suo drink.
«Se ti può esser d’aiuto, non ho smesso di contare i giorni. Forse domani,
chissà», esordisce, accennando un sorriso amaro. «Oh, in momenti come
questi quasi mi mancano le maledizioni di una volta. Certo, magari eviterei uno
specchio. Troppo prevedibile».
Belle ricollega solo qualche attimo dopo, ripercorrendo nella memoria la storia
di Biancaneve e della sua matrigna, arrivando a cogliere l’ironia di fondo in
ritardo.
«Lo specchio magico… si è infranto, no?».
«In mille pezzi. Per fortuna non siamo superstiziosi, nel nostro mondo. Ora è
un comunissimo specchio, seppure…».
«Cosa?».
«La magia non si distrugge, si trasforma. Qualcosa di magico resta pur sempre
nello specchio, anche per una millesima parte».
«Oh», esordisce semplicemente Belle, curiosa come nelle ultime settimane non lo
era mai stata. «Beh, la tranquillità ormai sembra essere all’ordine del giorno.
Niente più sorprese, d’ora in poi».
Ancora, senza averlo davvero ordinato, arriva un altro bicchiere sotto il suo
naso e stavolta ha imparato la lezione, per cui ne beve un sorso per volta.
«D’ora in poi», ripete Belle, apostrofando ironicamente sillaba per sillaba.
«È difficile vivere in un mondo nel quale i cattivi non ottengono il lieto
fine», rimugina Regina, sospirando. «E nemmeno le loro dolci metà, pare».
Belle alza il capo, abbozzando un sorriso distorto: «Almeno Robin Hood ti ama,
questo lo sai per certo. E, credimi, è più facile dormirci la notte».
Venti giorni, minuto più o minuto meno, all’alba di quel che si preannuncia
un mattino soleggiato.
È incredibile come il silenzio, con il passare del tempo, sia divenuto un
fedele compagno di avventure: inizialmente era fastidioso, persino ridondante;
ora, invece, a venti giorni (minuto più, minuto meno) di distanza lo trova
confortante.
O almeno questi son stati i suoi pensieri lungo il tragitto, al fine di
giungere al rifugio della Regina delle Nevi, laddove tutto era iniziato qualche
tempo prima.
Belle varca l’entrata, notando come ogni cosa sia permeata da una patina di
ghiaccio, sentendo solamente l’eco dei propri passi; poi, esattamente come lo
ricordava, lo specchio appartenuto a Ingrid. Belle vi si avvicina, notando come
la cornice sia intatta, ma l’involucro sia vuoto.
Eppure alcuni frammenti sono ancora sparsi a terra, alcuni infinitesimali e
altri più compatti, resistenti sino alla fine all’urto: Belle ne afferra una
scheggia, lunga e deformata, eppure regolare quanto basta per potersi
specchiare. La stringe tra le mani per un momento, poi la scosta a qualche
centimetro di distanza e… il nulla, assolutamente e ineluttabilmente nulla.
«Ti prego», si ritrova a sperare tra sé e sé, rivolgendosi all’inesistente.
Solo qualche tempo prima aveva avuto gli incubi, per qualche giorno non si era
addormentata senza la lampada accesa e riflettersi era stata un’esperienza a
dir poco terrificante. Col senno di poi, colui che l’aveva tanto aiutata a
superare tali incubi, avrebbe potuto persino volere che gli stessi accadessero.
Con quale certezza Belle poteva affermare cosa facesse o meno parte del suo
piano?
Tutto quel che Belle desidera dallo specchio, in quell’esatto momento, è l’innesco
incredibile qual era stato ai tempi il terrore: nelle sue vene era corsa pura
linfa vitale e, conseguentemente, un incredibile rabbia. Cosa darebbe per
riavere quelle sensazioni, per sentirsi un po’… viva, pur odiandosi e
pur affliggendo sé stessa, solamente per sentir rinascere la frenesia del
momento.
Tutto quel che Belle sente è l’enorme, ineguagliabile e distinguibile vuoto:
ancora conta i giorni, ancora attende il momento in cui smetterà di farlo.
Trenta giorni, ore 16:00 di un pomeriggio un po’ troppo festoso.
Non ha davvero voglia di celebrare l’ineluttabile vincolo del matrimonio
insieme all’intera Storybrooke, ma apparentemente Belle è stata così gentile da
badare a Neal nei mesi trascorsi da meritarsi un invito.
«La maledizione ancora ci crea qualche problema… Voglio dire, stiamo
festeggiando il terzo anniversario oppure il trentesimo?», esordisce David,
interrompendo un brindisi.
La folla scoppia a ridere fragorosamente e anche Belle accenna un sorriso,
seppur disinteressato; dal canto suo, d’altronde, ancora non ha deciso cosa
farne di quel cerchietto.
C’erano voluti ben dieci giorni per sfilarlo dall’anulare – tante le volte in
cui l’aveva poggiato sul tavolo, prima di uscire, per poi tornare a riprenderlo
–, altri dieci per decidere cosa farne e, infine, era giunta alla conclusione
che la cosa più indicata fosse quella di portarlo come un ciondolo.
Quasi come un oggetto ornamentale, con una sostanziale differenza: Belle non ne
aveva mai fatto a meno, quasi fosse cucito col corpo stesso, pensando
scioccamente che privarsene potesse limitarle una funzione vitale.
La tavola calda è così gremita che nessuno si accorgerà della sua assenza, per
cui Belle si muove con agilità e discrezione, sino ad oltrepassare la soglia.
Poi tira un sospiro di sollievo, non fosse altro per il braccio che sembra
avere tutta l’intenzione di rimaner avvinghiato al suo.
«Perdonami, non ci conosciamo. O meglio, sì, indirettamente. Nel caso ti
chiedessi chi sia stato il colpevole di un secondo drink offerto dalla casa».
Belle appare evidentemente attonita dall’accaduto, vorrebbe potergli dire
quanto confusi siano i suoi ricordi, ma teme di urtare la sensibilità
dell’individuo che ha di fronte.
«Oh, grazie. Avrei voluto accorgermene. Quella sera ero un po’…».
«Bellissima», esordisce il suo interlocutore e Belle, d’un tratto,
arrossisce, non ricordando nemmeno che fosse possibile. «Scusami, davvero.
Semmai volessi tornare ancora lì…».
Tira fuori un foglietto a righe, qualche numero impresso sopra, lo infila nella
sua tasca e si defila immediatamente, come un fuggitivo.
Belle non ha nemmeno il tempo di elaborare, ma pensa che non percepisce
qualcosa dal sapore diverso dell’indifferenza da molto tempo e non ricorda
quante gradazioni possa assumere il suo volto.
Quaranta – quaranta, davvero? – giorni dopo. Febbraio.
Per una volta Belle non ha idea di che ora sia, buon segno. Per una volta le
ore non si confondono con i giorni e nella sua mente non si avviano un’infinità
di calcoli – che, in effetti, non portano a nulla.
Non che la sua mente abbia smesso di rimuginare circa l’accaduto, ma il dolore
si è trasformato in una sorta di lama a doppio taglio: il pianto ha sovrastato
ogni cosa, ma non è più il momento delle lacrime. Belle ha ceduto ad una certa
indifferenza di fondo, vivendo la sua vita con l’usuale monotonia e aiutando i
residenti di Storybrooke, per quanto possibile. Nessun cedimento, tanto fisico
quanto emotivo, nessun attimo di panico: indifferenza, perlopiù, seguita da
impassibile accettazione.
Un foglietto spiegazzato tra le sue mani, ormai anche l’inchiostro ha sbavato,
numeri e lettere che potrebbero voler dir tutto come niente.
È questo che dovrebbe fare, dunque?
Dovrebbe alzare la cornetta del telefono, invitare un tale abbastanza generoso
da offrirle un bicchiere di scotch e… uscire, forse persino per una
seconda volta o magari una terza?
E tutto quel che è successo in passato sarà accantonato, quel ridondante e
pressante senso di vuoto scomparirà per sempre e quel che ne rimarrà sarà solo
un agrodolce ricordo – vai avanti, continua a ripeterle Moe French, vai
avanti e ricostruisciti una vita.
Immagina che quello sia il consiglio più spassionato che suo padre possa
darle, perlomeno è stato abbastanza discreto da non esordire con un: “Te
l’avevo detto”.
O forse l’ha fatto, Belle non lo ricorda davvero, quel giorno tanto i
moniti quante le parole compassionevoli degli abitanti di Storybrooke le son
sembrate ovattate, chiusa com’era nella sua bolla fatta di rimpianti. Insomma,
se solo lo avesse capito prima, Belle avrebbe potuto porre rimedio e
magari avrebbe avuto l’occasione di rivedere Anna, magari sarebbe stata
l’eroina della sua storia per una volta e non la vittima.
O magari non sarebbe cambiato proprio nulla, l’Oscuro era un passo avanti a
chiunque e raramente a corto di assi nella manica – tranne per una volta… per
una volta Belle ha condotto lo stesso gioco della Bestia, salvando l’intera
città.
E, in ogni caso, si sente molto più vittima che eroina.
Quarantadue giorni dopo, un mattino apparentemente tranquillo.
Belle si è svegliata con una strana sensazione, una forte fitta interiore e
un mal di testa lancinante: non che gli incubi siano una novità, ma che si
ripercuotano addirittura nella realtà le sembra davvero il colmo.
Decide di ignorare quella sgradevole sensazione, preparandosi per quel che sarà
un’ordinaria mattinata; eppure, stavolta in maniera più forte, avverte l’ennesima
fitta al petto e una dolceamara percezione mentale, travolgente come uno
scossone.
Quarantadue giorni, dodici ore, quarantacinque minuti.
È proprio in quel momento, Belle si cura addirittura di cronometrarlo, che una
serie di proiezioni si fanno vive nella sua mente e sono una miscela di ricordi,
sorrisi, lacrime, sobbalzi e ogni forma si riavvolge come un nastro in una
pellicola cinematografica, solo che la fine è ancora l’inizio e ogni pezzo si
distacca e si assesta dentro un tassello di memoria, mentre l’immagine di un
grammofono si fa spazio in mezzo a tutti gli altri e suona, decanta e glorifica
una sola storia. Una storia vecchia come il tempo.
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Anzitutto:
grazie a tutti coloro che sono arrivati alla fine di questa introspezione, era
da tempo che l’avevo in mente e sul mio pc ne son venute fuori ben sette
pagine.
Dunque, volevo concentrare questa storia su alcune parole chiave, non è un caso
che ricorrano e questa fan fiction vuol essere anche una sorta di diario, quel
che Belle sente e quel che mostra. Ah, sì, mi son fatta un conto (e io sono
pessima in matematica. XD), considerando che trascorreranno sei settimane,
dovrebbero essere circa quarantadue giorni.
Ultima cosa: il fatto che il nome di Rumple ricorra una sola volta non è un
caso, l’ho oscurato proprio perché penso (è sempre una mia ipotesi, ovviamente)
che Belle stessa proverà dei sentimenti contrastanti, cercando di essere forte
e di non avere cedimenti fisici ed emotivi (come nella 04x06) e tenterà di
oscurarlo dalla sua stessa memoria.
Kì.