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Autore: Targaryen    26/01/2015    10 recensioni
Sorridi e rivolgi lo sguardo verso la tua lontana dimora. Sai che questa volta non potrai tenere i silvani lontani dal conflitto che si profila all’orizzonte, ma per ora la neve cade e pare che nel suo abbraccio il mondo si addormenti, buoni, malvagi, eroi e codardi, i vivi e i morti e coloro che non possono morire ma che non sanno più vivere.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Thranduil
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Premessa:
L’intera fiction segue il punto di vista di Thranduil e rappresenta un’interpretazione ed estensione, con chiari accenni al libro Lo Hobbit di J. R. R. Tolkien, di una delle scene conclusive del film “Lo Hobbit – La battaglia delle Cinque Armate” di P. Jackson, da cui sono tratti gran parte dei dialoghi. La decisione di non utilizzare mai in questo scritto il nome di Tauriel deriva unicamente dal fatto che ho trovato il personaggio, introdotto da P. Jackson e non presente nell’universo creato da J. R. R. Tolkien, fuori luogo al pari della sua relazione con Kili. Mi scuso sin da ora con tutti coloro che la pensano diversamente e ringrazio chiunque legga.



 
Il bosco d’inverno
 
Non amo la spada per la sua lama tagliente,
né la freccia per la sua rapidità,
né il guerriero per la sua gloria.
Amo solo ciò che difendo.
(J. R. R.  Tolkien)
 


Non c’è vento tra le rovine annerite di Dale. L’aria è immobile, pesante, quasi un gelido manto gettato sui morti da una mano pietosa. Il tuo sguardo scivola su di loro, uomini ed elfi, e per un istante hai la sensazione che essi condividano il medesimo destino. Non è così, ma la morte sembra per tutti la stessa, rossa e densa come il sangue mescolato alla nera putredine che abbandona i cadaveri degli orchi, e la terra divora la carne degli uni e degli altri, mortali ed immortali. Nella Terra di Mezzo muore anche chi non può morire e nel cuore dei vivi il confine tra le due stirpi si assottiglia. Lo hai imparato da tempo, ormai.
I primi fiocchi di neve scendono lenti dal cielo plumbeo e si sciolgono sulla tua pelle, portandoti la fredda carezza di chi non c’è più e l’eco di ricordi mai sopiti. Nevicava anche quel giorno, e i morti erano ovunque, come ora.
“Richiama la compagnia”, ordini.
La tua voce ti raggiunge da lontane distanze ed il corno che raduna i silvani, sebbene a pochi passi da te, pare squillare oltre l’orizzonte. Perché hai indugiato in questa follia? Perché hai permesso che la tua gente morisse di nuovo? Per quanto prezioso possa essere, un cimelio vale una vita?
Avverti i passi concitati di Gandalf che si avvicina ansimante.
“Mio signore, invia questa forza a Collecorvo. I nani stanno per essere sopraffatti. Thorin deve essere avvertito.”
Parla con urgenza e il tono è colmo di apprensione. Distogli lo sguardo dai corpi che ricoprono il suolo e lo fissi su di lui. Lo vedi mutare espressione e quasi provi dispiacere quando i suoi occhi gentili si riempiono di rammarico. Egli ha capito ancor prima che tu proferisca parola.
“Avvertilo tu se vuoi”, ribatti con durezza, oltrepassandolo, “Ho speso sufficiente sangue elfico in difesa di questa maledetta terra. Ora non più.”
Ti allontani con passo deciso celando a malapena la rabbia, incurante di quella parte di te che aborrisce la fuga e che vorrebbe impedirti di andare. Non ti volgi e fingi di non sentire i lamenti degli uomini mescolati al suono del nome che Gandalf tristemente pronuncia.
“Thranduil …”
Una preghiera delusa, nessun astio, nessuna condanna. Dispiacere e null’altro, non sai se per te o se per loro, e ti costringi a non pensare mentre la figura dello stregone rimpicciolisce alle tue spalle.
Continui a camminare lesto sotto la neve che scende sempre più copiosa, i tuoi guerrieri al seguito e il silenzio dei vicoli deserti che finalmente spegne il clangore della battaglia. Un’ombra lascia la protezione del suo angolo buio e incrocia i tuoi passi. Non la guardi neppure e non ti fermi. Il tuo braccio si muove d’istinto, veloce e preciso, e il metallo della spada la apre in due. L’orco cade alla tua destra, sporcando il candore che si sta posando su Dale.
Lanci uno sguardo fugace a quella massa deforme, e quando anzi gli occhi la vedi. Colei che fu capitano delle tue guardie e che poi fu da te bandita ora posa immobile e ti sbarra il cammino.
Non procederai oltre. Non volterai le spalle. Non questa volta!”, intima.
La fissi per un attimo, incredulo dinanzi a tanto ardire.
“Togliti di mezzo.”
La giovane donna elfo non vacilla e non desiste.
“I nani saranno massacrati”, continua imperterrita.
Ora quasi sorridi, un sorriso tutt’altro che benevolo. Sai perché sta facendo questo.
“Sì, moriranno”, sentenzi, “Oggi, domani, fra un anno, fra cento anni da ora. Che differenza fa? Sono mortali.”
Le parole che pronunci sono brutali e tu lo sai, ma la reazione dell’ex capitano ti lascia di stucco. Con un gesto fulmineo impugna l’arco e lo punta verso di te, la corda tesa e il dardo pronto a scoccare. Giovane, ingenua, ma audace. E anche per questo che tuo figlio è attratto da lei. La collera increspa per un istante la superficie del tuo mare di dolore. Guardi lei, ma vedi i cadaveri freddi e senza vita della tua gente che attraversano le ere e che sono sempre uguali, sempre innocenti ai tuoi occhi e sempre troppi per sopportarne il peso. E non importa se è giusta la ragione per cui li hai mandati a morire. La rossa piana di Dagorlad, il nero suolo intorno a Barad-dur, gli orrori di Angmar e il nome di lei che non sei riuscito più a pronunciare.
“Tu credi che la tua vita valga più della loro, quando in essa non c’è amore?”, insiste.
Parla a denti stretti, la voce rabbiosa e il disprezzo che cola dalle sue labbra e che vince la consapevolezza del disonore di quel gesto. Tu l’hai protetta, tu l’hai cresciuta, tu sei il suo Re. Ti deve obbedienza e invece tende l’arco e ti minaccia, calpestando il passato e mettendo a tacere il suo spirito che grida oltraggiato attraverso i suoi occhi. Ma l’amore che ella crede di provare per il nano è più forte.
L’amore. La sua sciocca supponenza accende la tua ira e quella sofferenza che hai eletto a tua compagna, profonda come le nere caverne in cui hai seppellito la tua anima e antica come il suolo che odora di sangue e di morte, si infrange su di te con la forza della marea. Che ne sa lei dell’amore? Che ne sa lei della lenta agonia che brucia più del fuoco del drago? Come pretende un germoglio di conoscere le stagioni vissute dall’albero?
Avanzi, le spade tra le mani e la furia che ha sostituito il ghiaccio che solitamente abita il tuo sguardo.
Ella sussulta, ma non indietreggia, e tu agisci ancor prima di pensare.
Un baluginio di metallo, l’aria che si muove intorno a te e il suo arco che si apre in due. Ora ti guarda con le lacrime agli occhi, incapace di nascondere il tremore, incapace di parlare. Forse non è pronta a morire, dopotutto. Senti l’odore della sua paura, ma non te ne fai un vanto. Alzi la spada e accarezzi la sua gola. Potresti esercitare una lieve pressione e recidere il germoglio, ma qualcosa tra le ceneri del tuo cuore ti ferma. Quel nome che non puoi pronunciare sembra prendere vita nel sussurro del vento, e per un istante le dita di un ricordo sfiorano il tuo volto. Come ogni notte da allora, nella solitudine delle tue aule e nella desolazione che è diventata la tua vita.
“Che ne sai tu dell’amore?”, ruggisci, “Niente! Ciò che provi per il nano credi sia amore? Sei pronta a morire per lui?”
Forse lo faresti, forse affonderesti la lama nel suo collo gentile, o forse no. La spada di Legolas che allontana la tua non ti permette di conoscere la risposta.
“Se le farai del male, dovrai uccidermi”, sentenzia gelido tuo figlio.
Non ti opponi al suo gesto e abbassi l’arma, riguadagnando il controllo ed evitando di guardarlo in viso. Provi un improvviso senso di colpa per aver perduto la calma e per averlo costretto a mancarti di rispetto, ma lui non ti concede il tempo di proferir parola.
Ti volge le spalle e se ne va insieme a lei, lasciandoti solo con il tuo tormento, il capo chino e il respiro affannato come se avessi camminato per giorni. Socchiudi le palpebre per un istante. Sono millenni che cammini e la tua anima è stanca, sottile come quel confine che separa chi muore da chi non può morire.
La neve scende quasi gentile e ti sorprendi di come le vostre voci possano non disturbarla. La guardi appoggiarsi sui corpi di elfi e di uomini, come volesse coprire misericordiosa i mali di quella terra crudele che ti ha tolto tutto. O quasi. Legolas. Tutto ciò che ti resta di lei e l’unico motivo per cui hai rinunciato a coltivarne la memoria. La ragione dell’apparente insensibilità in cui hai affogato il tuo dolore. Perché quel dolore doveva essere solo il tuo, perché lui non meritava di dover crescere con il fantasma di giorni passati che non riuscivi a scacciare. Un re freddo e scostante può sempre guidarlo nel cammino della vita, mentre un padre distrutto non può che aprire voragini laddove la giovinezza deve seminare sogni e speranze.
Avresti dovuto parlargli di lei, avresti voluto parlargli di lei, di colei che te lo ha donato e che ami più della vita. Ancora, dopo secoli, anche se ormai frequenta le tue stanze in guisa di mero ricordo. Ma ogni volta che hai tentato le parole sono morte come la tua voce quel giorno, dinanzi al fuoco che tramutava il suo corpo in cenere per non lasciarti neppure una pietra su cui piangere, e sei tornato indietro alla fortezza di Gundabad e ai suoi orrori.
Sei tornato agli anni della guerra contro Angmar e contro il male che ribolliva sotto la terra, hai attraversato di nuovo le lande aride e hai camminato nel fango impastato col sangue, hai respirato polvere e disperazione e hai visto le file del tuo esercito ridursi sempre più. Anno dopo anno, sino ad una vittoria che è durata il tempo di un respiro. Come la vostra felicità, come lei.
Improvviso cala di nuovo il silenzio, ma ora non ti reca pace e sembra quasi soffocante. 
“Thranduil …”
La voce di Gandalf precede la sua apparizione. Sapevi che ti avrebbe raggiunto. Lo stregone è ostinato, soprattutto quando ha ragione. Hai avvertito i suoi passi fermarsi a rispettosa distanza quando la giovane silvana ha incoccato la freccia. Ha visto tutto, ma stranamente non ti importa se per un istante la tua maschera di ghiaccio è caduta.
Fissi l’orizzonte tormentato che sembra aver perduto i suoi colori, e segui il cammino disseminato di rocce e di rovine che conduce a Collecorvo. Volevi andartene e hai scelto quella via per lasciare Dale, una coincidenza che in altre circostanze ti avrebbe fatto sorridere.  
Gandalf tace, perché è cocciuto ma saggio e la tua esitazione ha parlato per te.
Stringi l’elsa delle spade con tale forza da farti quasi male, quindi comandi ai tuoi guerrieri di seguirti e attraversi la porta diroccata, la stessa che tuo figlio ha varcato pochi istanti prima.
 
***

Di nuovo la brutalità della battaglia, di nuovo il sangue che scorre e il metallo che taglia la carne e le ossa. I ruggiti degli orchi feriscono l’udito, rari dapprima e poi sempre più numerosi. Più avanzi e più i nemici si infittiscono, ma non te ne curi.
Hai dato ordine alle tue forze di dividersi in piccoli gruppi e di proseguire su diversi sentieri, perché lo spazio di manovra è poco e non puoi far avanzare un fronte compatto su quel terreno. Gli arcieri hanno conquistato le posizioni più alte e intorno a te piovono frecce dalle verdi piume, veloci come il fulmine e sempre a segno. Procedi, un passo dopo l’altro, roteando le spade in una danza mortale, lame d’argento che dilaniano tutto ciò che si muove, improvvise, letali e mai sazie.
I più coraggiosi, i più bravi tra i silvani sono alle tue spalle, una scorta che mai ti abbandona.
La neve continua a scendere, gentile come a Dale e incurante della follia che dilaga. Siete in alto ormai e per un breve istante non incontrate resistenza.
In lontananza, sulla piana dove le forze di Dain ancora combattono, la terra oltraggiata continua a vomitare il suo nero miasma e nuovi orchi sostituiscono quelli caduti. Osservi e per un attimo ti sorprendi di quanto piccoli, alleati e nemici, possano sembrare da lassù. Forse anche ad alcuni re del passato sono parsi più piccoli di quanto in verità non fossero? Curiosi pensieri per il figlio di Oropher. Li scacci mentre affondi la spada nel ventre di una delle immonde creature che sono tornate a tormentarvi.
Avanzate rapidi, e tu preghi che il giorno sia pietoso e che non prenda la vita di tuo figlio. Non ti fai illusioni di vittoria, perché troppe volte hai combattuto e guidato eserciti e sai riconoscere una situazione disperata.
La forza in arrivo da Gundabad schiaccerà i nani ai piedi della Montagna Solitaria e vi taglierà fuori, infrangendosi su Collecorvo come un fetido torrente. Siete in pochi e perderete, ma forse non morirete.
Gundabad, e di nuovo il dolore si ravviva e alimenta l’odio, cacciando la stanchezza e accendendo i tuoi occhi. Anche quel giorno percorrevi sentieri mozzando arti, ma non sei arrivato in tempo. Questa volta devi farlo, perché semplicemente non puoi sopportare di perdere anche lui.
Una svolta e il percorso penetra in una stretta gola. Ti guardi intorno in cerca di una via alternativa, ma non ve ne sono.
“Veloci”, sussurri ai tuoi uomini, e li precedi.
Vi muovete in silenzio, scrutando ogni anfratto con le armi pronte a colpire, ma sei tu che noti per primo la manciata di schegge di ghiaccio che rotolano lungo la parete di destra. Ti fermi e alzi lo sguardo fulmineo. Serri le labbra alla vista di un troll delle nevi che ti fissa dall’alto. Ne hai incontrati altri in passato, nel Nord delle Montagne Nebbiose, e sai che non sono draghi.
Scatti in avanti e ti inerpichi sulla parete verticale, balzando da una sporgenza all’altra e usando le spade come sostegni laddove non ve ne sono. Lo raggiungi ancor prima che lui abbia capito ciò che sta accadendo e saluti la sua gola col taglio della lama, atterrando sul ciglio del dirupo. Il suo corpo precipita con la testa mozzata sotto gli sguardi esterrefatti dei silvani.
“Uscite dalla gola e procedete”, ordini con voce ferma, “Ci ritroveremo in cima.”
Non attendi che il tuo comandante risponda. Sai che eseguirà esattamente i tuoi ordini e volgi le spalle, allontanandoti dalla parete con passo deciso. Forse ci sono altri troll desiderosi di condividere lo stesso destino del loro simile.
Il piccolo altopiano è tagliato in due da un braccio secondario del fiume che ora si staglia dinnanzi a te sotto forma di una colata di ghiaccio. Lo superi con poche falcate e conquisti il pendio sulla sponda. Sopra di te intravvedi l’ingresso di alcune brevi cunicoli. Li raggiungi e vi entri, i sensi tesi al massimo e le spade sguainate e ancora gocciolanti del nero sangue della tua ultima vittima.
Sbucano alla tua sinistra, ma il silenzio non accompagna mai i loro passi e la loro morte è veloce ed inaspettata. Cadono uno dopo l’altro senza riuscire a sfiorarti. Ti accerti che restino a terra e scruti i dintorni. Le gallerie sono troppo strette e non ti permettono di muoverti come vorresti. Non è un buon posto in cui affrontare il nemico e ti dirigi verso l’uscita senza indugiare, mozzando altre teste e prendendo altre vite lungo il cammino.
Lo spiazzo su cui ti ritrovi sovrasta il campo di battaglia, ma non è lo scontro che sta imperversando in basso ad attirare la tua attenzione. E’ il cielo che la cattura, insieme alle sagome scure che lo solcano per un istante. Trattieni il fiato e le segui mentre si tuffano nella valle e piombano sugli orchi, stridendo e scavando scie nelle loro file. Le vedi dilaniare le loro carni, afferrarli, salire e lasciarli cadere sulle retrovie in un’orrida danza.
Rilasci il respiro e chini il capo, ringraziandole in silenzio, perché le sorti dello scontro ora si sono equilibrate e grazie a loro forse vincerete. Un’ultima occhiata e imbocchi l’ingresso che si apre al livello superiore, lasciando le aquile a banchettare con le loro prede.
Intorno a te il pavimento è coperto di corpi dalle nere armature, chiaro segno che qualcuno ti ha preceduto. Un brivido ti attraversa alla vista delle frecce dalle verdi piume infisse nelle carni.
Cerchi tra i cadaveri nella semioscurità, scorrendo ogni più piccolo dettaglio. Ti muovi svelto dall’uno all’altro per accertarti che tuo figlio non sia tra loro e ti lasci sfuggire un sospiro di sollievo quando arrivi all’ultimo di essi. Da breve distanza giunge alle tue orecchie l’eco soffocato di un pianto quasi trattenuto, e subito riconosci colei che si è arresa ad esso. La riconosci, e una morsa gelida ti blocca il fiato in gola. Ti dirigi verso l’ingresso da cui proviene il lamento con la paura nel cuore, e trattieni a stento le lacrime quando scorgi colui che stai cercando attraversarlo e fermarsi a pochi passi da te. Almeno questa volta la terra non ha preteso il suo tributo.
“Io non posso tornare”, dice.
Ti guarda per un fuggevole istante, la sofferenza che traspare dalla sua voce incrinata e che offusca l’azzurro dei suoi occhi. Le prime volte, dopo la perdita di sua madre, non riuscivi a fissare quegli occhi, perché troppo simili a quelli di lei. Poi hai imparato a farlo di nuovo e a sopportare la memoria dei suoi ultimi istanti di vita, riflessi in quelle pozze in cui il cielo d’estate si è fatto acqua mantenendo il suo colore. Sorridi, un sorriso che si esprime con una nuova luce nel tuo sguardo e che solo lei era in grado di cogliere. Un sorriso che tuo figlio non vede. Siete sempre stati così, tu e sua madre, l’inverno e l’estate, necessari l’uno all’altra e tessitori di un’unica melodia, e come l’inverno e l’estate vi siete amati.
“Dove andrai?”, domandi con tono insolitamente gentile.
Legolas pare non notarlo. La sua mente è altrove, lontana dalla sua casa e forse lontana da te.
“Non lo so”, confessa.
E’ smarrito, confuso, ma comprendi la ragione per cui non può tornare e non gliene fai una colpa. Né a lui né a colei che ancora versa lacrime sul corpo di cui intuisci ora l’identità.
“Vai a Nord. Trova i Dunedain. C’è un giovane ramingo tra loro. Dovresti incontrarlo. Suo padre Arathorn era un brav’uomo. Suo figlio potrebbe crescere e diventare un grande uomo.”
Legolas ti guarda lievemente sorpreso. Non si aspettava un consiglio da te.
“Come si chiama?”, chiede.
“Nelle Terre Selvagge lo chiamano Granpasso. Il suo vero nome lo devi scoprire tu stesso.”
Ti scruta per un istante, incerto, e scorre la tua figura come per accertarsi che sia proprio tu colui che ha di fronte. La tua improvvisa cordialità lo mette a disagio. Non l’ha mai vista in te e non sa che secoli addietro, quando le braccia di sua madre se lo portavano al seno, tu eri sempre così con loro. Gentile come la neve che cade per proteggere gli alberi dal gelo. Perché anche lui è un germoglio e anche lui non sa nulla delle stagioni dell’albero, nonostante ne rappresenti il seme.
Sai che le lacrime stanno per vincere la loro sfida e lotti per tenerle a bada. Non vuoi che sia il ricordo del tuo dolore ad accompagnare i suoi giorni futuri. Hai sacrificato troppo per non farne anche il suo tormento, ma qualcosa glielo devi. Almeno questo glielo devi.
“Legolas … Tua madre ti amava, più di chiunque altro, più della vita.”
E io amavo lei, più della vita, aggiungi solo per te.
Egli si ferma, esita e ti cerca di nuovo. Vorresti parlargli di lei, raccontargli del vostro incontro, dell’estate che ha abbracciato l’inverno, dei vostri giorni felici sotto gli alberi parlanti di Boscoverde il Grande, degli animali che intagliavi per lui nel legno che la foresta ti offriva, quando lui non capiva e quando tu e sua madre non sapevate che non ci sarebbero stati per voi millenni di sussurri e sorrisi, ma solo giorni brevi come un sospiro.  
Vorresti pregarlo di seguirti e di far ritorno nelle aule sotterranee in cui dimora la vostra gente, vorresti sedere accanto a lui, porgli domande e fornirgli risposte, ma non lo fai perché il tempo non torna indietro e la tua volontà di nascondergli l’agonia che perseguita le tue notti ti ha privato per sempre di una parte di lui. E ha privato lui della parte migliore di te.
Pieghi il capo in segno di rispetto, i tuoi occhi per un istante caldi come quelli che solo lei ha conosciuto e parole di scusa sussurrate dal silenzio. Lo saluti con la mano sul petto, come faresti con un signore tuo pari, e lo vedi fare altrettanto, impacciato e sorpreso. Lo segui con lo sguardo mentre ti volge le spalle e si allontana senza esitare, lasciandoti ancora solo in compagnia di ricordi e rimpianti.
Cosa ne sa un germoglio delle stagioni dell’albero?
 
***

Nevica sulle piane intorno alla Montagna Solitaria, sulle rovine di Dale e sulle ceneri di Pontelagolungo. E nevica su Bosco Atro e Dol Guldur, da cui senti l’ombra ritirarsi, sconfitta ma non domata. Sauron, nella cui scomparsa non hai mai creduto, reclamerà ancora la Terra di Mezzo e ancora sarà guerra. Te lo dice l’aria pungente dell’inverno che avanza e lo leggi nei candidi petali che il cielo piange su di te.
Stringi tra le dita la collana d’argento e le sue gemme di luce. Bilbo Baggins … amico degli elfi lo hai proclamato. Cosa ho mai fatto per meritare un tale dono? (*), gli hai chiesto dopo aver posato Orcrist sulla tomba di Thorin Re sotto la Montagna. Lui ti ha parlato di vino, di pane e di ospitalità, e tu hai capito che la grandezza a volte risiede nelle persone più impensate e che non ha bisogno di grandi gesta per rivelarsi, ma solo della generosità racchiusa nelle piccole azioni.
Sorridi e rivolgi lo sguardo verso la tua lontana dimora. Sai che questa volta non potrai tenere i silvani lontani dal conflitto che si profila all’orizzonte, ma per ora la neve cade e pare che nel suo abbraccio il mondo si addormenti, buoni, malvagi, eroi e codardi, i vivi e i morti e coloro che non possono morire ma che non sanno più vivere. Attraverso il mare tornerai da lei un giorno, ma per ora il bosco ti aspetta con i suoi tanti inverni di solitudine e di attesa. Più lunghi di prima, più freddi di prima, perché tuo figlio è lontano e lontano da te ha scelto la sua strada.
 
_________

(*) Cit. da "Lo Hobbit" di J.R.R. Tolkien.


 
  
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