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Autore: Marinaoceano    29/01/2015    8 recensioni
Una storia inusuale, che vede Klaus e Caroline scontrarsi, avvicinarsi e cercare di comprendersi nella prima giovinezza.
Due ragazzini - tra liti e scontri, minacce e sfide - e un grave avvenimento che segnerà entrambi, ma che sarà percepito, affrontato e superato dai due in modo molto diverso.

– Te l’ho già detto. Volevo dirti...
– Sì, sì. Hai imparato a nuotare. E io ti ho detto che lo sapevo già. E tu sapevi che io lo sapevo. Quindi, cosa ci fai qui?
Caroline distolse lo sguardo. Lui aveva alzato la voce, come un milione di altre volte, eppure in un modo completamente diverso. Tutto era diverso.
Forse quasi peggiore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline\Klaus, Klaus
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Avvertenze:
 
In questa storia, le differenze sostanziali dei personaggi rispetto agli originali riguardano: età , parentele , lavoro, storia ed in parte carattere (questo adattandolo a quello che i personaggi, secondo me, potrebbero avere da giovanissimi se cresciuti in condizioni familiari, economiche e sociali differenti da TVD). Il modello scolastico (vacanze, disposizione degli studenti nello stesso distretto scolastico -elementari/medie+liceo- ecc...) è quello di molte scuole americane.
AU in tutti i sensi: non solo i vampiri non esistono, ma non siamo neppure a Mystic Falls.
 
Vi auguro una buona lettura e spero che questa storia, in tutto e per tutto diversa da quelle che ho scritto e che sto scrivendo, vi possa piacere: il Klaroline non ha limiti di prospettiva!
 
Marina
 
Ps. gli sms sono indicati dal segno “ > ”
 
 
 
 
 
N. M.
 
 
Giugno 2005, Hartford, Connecticut.
 
– Cristo santo, Caroline. Non puoi fare sul serio.
La ragazzina continuò a tamponarsi il naso. Non voleva smetterla di sanguinare. Sembrava un vulcano a rovescio.
– Prendi un altro fazzoletto... Tieni.
– Si dice “grazie”.
Grazie – scimmiottò lei.
– Cristo santo, Caroline – ripeté l’uomo dietro al bancone del bar. Stringeva uno strofinaccio in una mano, nell’altra un prodotto da supermercato che prometteva in lettere cubitali “Nutre e lucida i vostri mobili”. Menava lo strofinaccio sul bancone di legno, spruzzava il prodotto, di nuovo lo strofinaccio, prodotto, strofinaccio, dai la cera, togli la cera. Ogni tanto ci infilava un “Cristo santo, Caroline”, che sembrava farlo strofinare ancora più forte. Come ora.
– Cristo santo, Caroline.
– Che ore sono?
– Quando ti compri un orologio? Un quarto all’una.
– La mamma mi ammazza – si lamentò Caroline scivolando giù dallo sgabello malfermo e atterrando a piedi uniti. Appoggiò il fazzoletto macchiato di sangue sul bancone, si piegò in ginocchio e si sfilò le scarpe. C’era terra dappertutto. La mamma l’avrebbe ammazzata davvero se avesse sporcato il pavimento di sopra con quello schifo. Addio campeggio, addio granite alla fragola, addio cinema ogni martedì sera.
Era strano come tutta la sua famiglia fosse fissata con la pulizia. Come tutta la gente del mondo avesse il tic del pulire le cose. Sua madre il pavimento di casa, suo zio Stefan quel dannato bancone. A lei un po’ piaceva la polvere, e il fango sotto le suole delle scarpe, e la goccia d’acido sul legno del bancone che Stefan non avrebbe mandato via neanche con tutti i prodotti della sezione Igiene del supermercato all’angolo, ma che avrebbe sempre ricordato loro, con puntualità quasi sfrontata, il giorno in cui il padre di Caroline, nel tentativo di dare un effetto invecchiato al legno, aveva sbagliato i dosaggi d’acido muriatico e poi, quando se n’era uscito con la scusa “Vado da quelli del negozio, che mi sentono”, non aveva più trovato il coraggio di tornare a casa.
– Dici che questa volta mi ammazza?
Caroline nascose le scarpe sporche sotto il bancone, di fianco al refrigeratore arrugginito della birra. Ecco, quello non lo puliva mai nessuno. Ci passava tutta la birra della città, ma era sempre e comunque abbandonato a se stesso. Forse il fatto che nessuno dei clienti potesse vederlo lo salvava dagli smacchiatori di Stefan.
– Dico che ti ammazzo io, se non sali subito a letto.
– Da quanto è arrivata? – insistette. – Eh, Stef?
– Mezz’ora. Forse un’ora.
Caroline osservò la scala ripida che, dal fondo del bar, portava al piano di sopra in cui sua madre si stava probabilmente facendo la doccia. Tornava sempre tardi. E si faceva la doccia. Era sempre ordinata e pulita, anche se lavorava soltanto come cameriera in una pizzeria in cui le mosche superavano i clienti.
– Le hai detto qualcosa?
Stefan sospirò, lasciando perdere strofinaccio e smacchiatore. Appoggiò i gomiti sul bancone e si passò una mano tra i capelli, pettinandoli. Erano folti e dorati come quelli dei modelli nelle pubblicità degli shampoo.
– Che sei andata con Ivy a prendere un gelato per me.
Ivy era la ragazza di Stefan. Nell’universo che circondava e inglobava la vita di Caroline Ivy, Lord Voldemort e gli spinaci surgelati del mercoledì sera si contendevano aspramente il titolo di Male Supremo, con conseguenze più o meno catastrofiche. La ragazzina era abbastanza oltraggiata dalla relazione che lo zio aveva intrapreso con la donna da ripeterglielo più volte di quante non gli dicesse di odiare N.M.
N.M. era il ragazzo che poche ore prima le aveva dato un pugno sul naso.
– Potevi trovare una scusa migliore. Io con quella non ci esco – bofonchiò.
– Smettila di comportarti così. Ivy ti adora.
– Che cosa centra.
Caroline scrollò le spalle e salì le scale. Doveva essere grata a Stefan per non aver abbandonato lei e sua madre. Lo sapeva bene, che Ivy viveva in un appartamento - un monolocale - da sola e che aveva invitato più volte Stefan a trasferirvisi.
Come poteva non odiare una donna del genere? Vivere sopra ad un bar non era forse la cosa più bella del mondo?
– Dormi? – chiese piano, affacciandosi alla camera da letto di sua madre. Le giunse un russare indistinto come risposta.
– ...‘Notte.
Attraversò il soggiorno minuscolo che separava le stanze. La carta da parati verde chiaro appariva quasi blu nel buio della notte e la boccia con le alghe fosforescenti in cui i suoi pesci saettavano rapidi come tante splendenti scaglie lunari era l’unico segnale luminoso presente. Andò in bagno e scelse il pigiama con scritto “Ho dieci anni” che le aveva regalato Stefan tre anni prima. Le andava ancora bene, perché era magra come un chiodo e di tette neanche l’ombra.
Lei e lo zio avevano diviso la stanza fino a quando Stefan non l’aveva informata della proposta di Ivy per una possibile convivenza: da allora Caroline aveva campeggiato sul divano in soggiorno, come i pesci nella boccia fosforescente. Odiava che a Stefan non dispiacesse più di tanto.
N.M. un giorno le aveva detto che lei era una piaga per Stefan, perché dormendo con lui gli impediva di fare “cose da uomini”. Poi l’aveva accusata d’incesto.
Caroline gli aveva sabotato il progetto di Storia per ripicca, ma non era riuscita ad esimersi dalla curiosità di chiedergli cosa intendesse con “cose da uomini”. N.M. le aveva dato appuntamento in palestra dopo scuola. Quando aveva fatto per sbottonarsi i jeans, il coach della squadra di atletica era apparso da dietro un angolo con tanto di fischietto e registro già pronto in mano. N.M. si era beccato una sospensione, periodo in cui aveva dato vita al progetto - per nulla machiavellico - con cui  avrebbe rotto il naso a Matt Donovan, il miglior amico di Caroline che aveva anticipatamente avvertito il coach di quell’incontro pomeridiano.
Superfluo dire che N.M. ci fosse riuscito perfettamente, a rompergli il naso.
Caroline si stese sul divano. La sveglia digitale a forma di Mickey Mouse che Stefan aveva vinto per lei al luna park segnava l’una e trentacinque di notte. I numeri si riflettevano in ciascuno degli occhi del topo, che alle sette precise avrebbe emesso una musichetta dalla punta del naso nero.
Dopo un breve rimuginare, la ragazzina si decise a sfilare il cellulare nascosto sotto il divano, altro posto in cui generalmente non si puliva mai. Nessuno sapeva che mesi prima era stata sfidata da N.M. in una gara di corsa, che aveva inspiegabilmente vinto e che il premio consisteva nel cellulare che N.M. aveva rubato dalla scatola Detenzione a scuola. Era un vecchio modello con i tasti ingialliti in plastica, ma sul retro qualcuno aveva appiccicato un adesivo morbido a forma di pinguino che non era niente male.
Aprì la rubrica. C’erano solo tre numeri: quello di Matt Donovan, il suo in caso se lo fosse dimenticata e quello di N.M. per eventuali messaggi minatori.
 
> Anche oggi ho vinto io. Dovresti iniziare a pensare di ritirarti, pezzente.
 
La chiamava sempre pezzente, nana o lattante, benché a dividerli ci fossero soltanto tre anni, venti centimetri e qualche cifra a quadruplo zero sul conto dei genitori di N.M.
Il messaggio era di un’ora prima. Caroline si chiese cosa ci facesse ancora sveglio. Credeva che le famiglie perbene imponessero un rigido coprifuoco ai propri figli.
Mentre stava ragionando su una risposta abbastanza sprezzante con cui metterlo a tacere, le arrivò un messaggio da Matt, impegnato come lei nell’utilizzo clandestino del cellulare sotto le coperte.
 
> Ti fa molto male il naso?
> No. Non quanto il piede di N.M.!
> Potresti denunciarlo. Mia mamma dice che nessuno può picchiare le ragazze.
> L’HAI DETTO A TUA MAMMA?
> NO! Dicevo a caso, scema.
> Mmm. Comunque l’ho calciato io per prima. Non so se vale.
> Che calcio, però.
 
In quel momento si ricordò del messaggio di N.M. Matt l’aveva distratta ed erano già passati dieci minuti. Doveva inventarsi qualcosa.
Rilesse il messaggio.
 
> Anche oggi ho vinto io. Dovresti iniziare a pensare di ritirarti, pezzente.
> Hai barato. Tu bari sempre. Mi hai dato una spallata a metà corsa.
 
Non passò neanche un minuto.
 
> Eri sulla mia scia. Sanguina ancora il naso?
> No. E non ero sulla tua scia, ti stavo superando.
> Credici. Se osi ancora darmi un calcio, la prossima volta chiedo a Rudy di sistemarti.
> Quello scimmione mi fa meno paura di Godzilla.
 
Aveva mentito. Se c’era un ragazzo con cui non avrebbe mai voluto litigare, quello era Rudy, detto Buffet con pronuncia alla francese, guardia personale di N.M., nonché ameba dall’elettroencefalogramma piatto con lo spiacevole peso specifico di novanta chili.
Come ogni sera in cui si sentivano - e ciò accadeva spesso, date le frequenti dispute che li ponevano in fazioni opposte -, fu N.M. a smettere di risponderle.
Caroline guardò di nuovo Mickey Mouse. Quasi le due di notte. Per fortuna, quella sarebbe stata l’ultima settimana di scuola prima dell’estate. Se si fosse appisolata in classe nessuno avrebbe fatto troppe storie.
Chiuse gli occhi, faticando a prendere sonno. Da un po’ la disturbava un pensiero che non avrebbe saputo definire se non davvero triste e tranquillizzante insieme. Allora riagguantò il cellulare e digitò un messaggio.
 
> Il prossimo sarà il tuo ultimo anno. Che sollievo!
 
Ma, proprio come prima, non ricevette alcuna risposta.
 
 
*
 
 
Agosto 2005, Hartford, Connecticut.
 
– Sono due dollari.
Caroline portò gli occhi sulla cassiera.
– Due dollari? Ma fino a ieri non era ad un dollaro e venti?
La donna alzò le spalle con indifferenza. Aveva le unghie arancione brillante. Tutto, quell’estate, era arancione brillante. I calzoncini di Caroline, il nuovo ornamento nella boccia dei pesci rossi in soggiorno, la macchina con cui N.M. andava a prendere la sua ragazza. Il sole a mezzogiorno. Il cheddar cheese negli hamburger che Stefan serviva al bar. Anche la finta abbronzatura di Ivy era arancione brillante.
Caroline fissò la bottiglia da un litro di coca-cola. In mano aveva soltanto un dollaro e ottantacinque centesimi. L’orologio che si era finalmente comprata segnava già cinque minuti di ritardo per l’appuntamento con Matt. Non poteva tornare al bar per fare rifornimento di coca-cola, e la paghetta che le passava Stefan ogni giorno era quella.
Perché due dollari possono esaltare, uno solo deprimere, uno e ottantacinque dare speranza.
– Non fa niente, allora. Grazie lo stesso.
– Rimetti la coca-cola a posto – borbottò la donna.
Caroline si avviò verso lo scaffale refrigerato delle bevande e dei gelati. Non c’era quasi nessuno nella piccola bottega. Da giorni ormai aveva eletto ogni frigorifero della città al ruolo onorifico di finestra su un mondo migliore, tanto faceva caldo quell’estate.
– Ma guarda chi si vede.
– Nessun piacere – rispose piccata Caroline, appoggiando la bottiglia e fingendo di guardare i gelati con un’indecisione inquisitoria, degna dell’inventore stesso del gelato confezionato.
– Devo prendere un barattolo di Ben & Jerry’s. Spostati.
– Ah, quello al caramello... La tua ragazza non teme per la sua linea?
N.M. le sventolò davanti al naso un secondo barattolino allo yogurt.
– Non badi a spese – disse lei, dandogli la schiena e andandosene.
Le sembrava di avere gli occhi famelici dell’intero quartiere puntati addosso. Un dollaro e ottantacinque non aveva mai dato meno speranza.
Fuori adocchiò la macchina arancione di N.M., parcheggiata all’angolo. Era un pugno negli occhi, doveva ammetterlo, ma le avevano detto che correva parecchio. O che lui sapeva guidare da dio, ma poco le importava. Trovò molto più interessante osservare la ragazza che si aggiustava i capelli al suo interno. Era una dell’ultimo anno. Olivia qualcosa. Cheerleader. Naso da maialino. Una quarta di reggiseno, però.
– Pezzente, che fai?
– Pensavo. Tu lo sai fare?
N.M. reggeva la borsina con gli acquisti in una mano, nell’altra splendevano già le chiavi dell’auto.
– Non hai preso niente.
– Non c’era nulla che mi piacesse.
– Nik! – chiamò la ragazza, sventolando un braccio pallido e ossuto oltre il finestrino.
Caroline fece una mezza smorfia. N.M. le lanciò una di quelle occhiate che sembravano parlare.
– Quanto ti manca? Ho cinque dollari.
– Non ci pensare nemmeno. Ti prenderei in giro per tutta la vita, sappilo.
– E io racconterei che non hai nemmeno i soldi per comprare la coca-cola, pezzente.
Gli tirò un gancio sul braccio. Lui bestemmiò, sfilò cinque dollari dalla tasca dei jeans e li lanciò addosso a Caroline.
La ragazzina li raccolse solo quando ebbe la certezza che la macchina arancione fosse lontana. Glieli avrebbe ridati. Oppure lo avrebbe sfidato in qualcosa e ne avrebbe vinti altri.
Tornò dentro, comprò coca-cola e Ben & Jerry’s al caramello.
 
 
*
 
Novembre 2005, Hartford, Connecticut.
 
– Io ti odio!
Le azioni si susseguirono rapidamente, come in ognuno dei loro litigi.
Caroline scaraventò il vassoio col pranzo di N.M. sul pavimento stinto della mensa, l’uniforme scolastica di Olivia-qualcosa si macchiò di succo di pomodoro e il sedicenne si caricò sulla schiena la giovane terrorista. Qualcuno gridò. Forse ridevano. Caroline sentiva l’aria sulle cosce, e i pugni che batteva contro le scapole di N.M. non erano mai stati più deboli di così. Il ragazzo la portò in spalla fino in piscina, mentre qualcuno correva ad avvertire gli insegnanti.
– Io ti odio! Non avresti dovuto sfidarlo. Lo sapevi, che era asmatico.
Intendeva Matt, che si era barricato per la vergogna in un’aula vuota con l’inalatore sparato in bocca.
– Io ti odio! Hai capito? Ti odio! Cosa ti aveva fatto, eh? Non sei altro che uno stupido idiota!
– Bene!
L’acqua della piscina puzzava di cloro. Caroline non aveva mai fatto il bagno vestita. Sapeva che si andava a fondo più in fretta. Sapeva anche di non saper nuotare, per quanto non l’avesse ancora mai ammesso con N.M.
Dopo un minuto, il ragazzo dovette arrivarci da solo a quell’assurda conclusione, non vedendola riemergere dal fondo.
Quando gli insegnanti accorsero, Caroline sembrava rimpicciolita tra le braccia di N.M.
Lui aveva dipinta sul viso l’immagine irreparabile di uno strappo, e stringeva convulsamente il tessuto dei jeans tra le dita. Era come... - e in futuro s’interrogò spesso sulla vera origine di quella sensazione, quando era nata e come e perché proprio non c’era riuscito, a sradicarsela via -; ...era come se l’acqua tiepida della piscina da cui aveva salvato Caroline si fosse trasferita sulle piastrelle giallognole del pavimento, era come se si fosse spalmata su tutti i pavimenti che avrebbe calpestato in ogni attimo di vita.
Ci fu l’acqua, sotto di lui, e gli parve per sempre.


 
*
 
Dicembre 2005, Hartford, Connecticut
 
Caroline era sopravvissuta grazie alla manovra di Heimlich praticatale da N.M., ed il preside aveva intravisto in quella tragedia sventata l’occasione propizia per fare pubblicità alla scuola, che offriva da anni ottimi corsi preparatori sponsorizzati dall’ospedale locale. In accordo con ciò non aveva espulso il ragazzo, considerando più che sufficiente un colloquio con la famiglia ed una generosa ma anonima donazione all’istituto. 
La settimana successiva, N.M. si era però inspiegabilmente ritirato da ogni gruppo sportivo, limitandosi da quel momento ad una piatta frequentazione delle lezioni. Il brusio da corridoio sospettava che fossero tempi duri per lui, da quell’incidente.
Comprovava tale teoria la sofferta sparizione del bolide arancione guidato quell’estate e le parole di Olivia-qualcosa: rischiava di dover rompere con il ragazzo perché i genitori non gli concedevano neppure di uscire per una passeggiata e una coca.
 
> Lo so, che non volevi farmi male. 
 
Erano passate quattro settimane dall’ultima parola che N.M. aveva urlato a Caroline. La ragazzina aveva ripreso a dormire con Stefan e si era iscritta con una compagna di classe ad un corso di nuoto, venendo immediatamente declassata a quello per bambini. Alla prima lezione non aveva avuto neppure il coraggio di entrare in acqua.
 
> È un peccato che tu ti sia ritirato. Non vedranno mai più un trofeo, quelli di atletica. 
 
Poco prima di Natale, Caroline stava già a galla senza problemi. Il venti dicembre, l’ultima lezione del corso, Stefan venne a vederla con un pesciolino rosso che nuotava in un sacchetto di plastica. Quella notte la ragazzina dormì volutamente sul divano. Guardava il pesciolino confondersi con gli altri nella boccia, mentre stringeva il cellulare tra le mani.
L’avviso Nessun messaggio l’accecava come la luce bianca di un faro nel buio della notte.
 
> Ho imparato a nuotare.
 
Quando Mickey Mouse annunciò che era ormai ora di svegliarsi, la ragazzina si era già alzata da un pezzo. Camminava sul ghiaccio dei marciapiedi, infagottata in modo quasi ridicolo, perché non aveva voluto accendere la luce e vestirsi. Il giaccone azzurro avrebbe dovuto smorzare un po’ la comicità del pigiama “Ho dieci anni”, ma Caroline comprese che non era così quando lesse il disgusto divertito sul viso di N.M., affacciato alla finestra di camera sua. Fuori era penombra, un’alba azzurrina più che gialla.
Lui le fece un segno, come per zittirla, e chiuse i vetri della finestra. La sua era una di quelle case che hanno l’apparenza di una dichiarazione per chi non vi abita: due piani più mansarda, veranda e quella tinteggiatura tipica, bianco splendente. Erano i nuovi villini e il mondo ne andava matto, perché alzavano il valore dell’intero quartiere.
N.M. uscì dal retro e le venne incontro in pigiama. Azzurro. Completamente azzurro, e non meno comico di quello di Caroline nel risultare così terribilmente sformato e vecchio stile.
– Potevi rompermi il vetro. I miei sono in casa.
Le consegnò l’ultimo sassolino che Caroline aveva tirato contro la finestra e che lui aveva preso al volo.
– Cosa ci fai qui?
– Volevo dirti che ho imparato a nuotare. – Caroline aggrottò la fronte. – Non mi hai chiamata pezzente.
N.M. stette in silenzio per un paio di secondi. S’incamminò verso il capanno degli attrezzi, bagnandosi le ciabatte con la neve ghiacciata del giardino. Caroline gli trotterellò dietro, indecisa sul da farsi.
Dentro al capanno faceva più caldo. Lui le disse di togliersi quell’assurda giacca, e la ragazzina ubbidì, sapendo che N.M. avrebbe preso in giro il pigiama. Era un po’ più normale, così.
– Ho imparato a nuotare – Pausa. – Te lo avevo scritto ieri sera.
– Bene.
– Ho sentito dire dalla tua ragazza che ti premettono ancora di usare il cellulare. Lo sapevi già.
– Lo sapevo già – ammise lui scrollando le spalle, in un modo che Caroline non capì. N.M. sembrava triste, ma non come si può essere tristi per aver fallito in qualcosa o per aver commesso un errore. Non era proprio tristezza quella sul suo viso, ma qualcos’altro. Forse quasi peggiore.
– Non vai a sciare per le feste?
– Non lo so... – N.M. prese in mano un martello. – No, quest’anno immagino che resteremo qui.
– Perché non corri più?
– Caroline...
– No. Tu non mi chiami proprio mai Caroline.
N.M. rimise il martello al suo posto con un po’ troppa foga. Non era proprio tristezza, ma qualcos’altro. Forse quasi peggiore.
– Cosa ci fai qui?
– Te l’ho già detto. Volevo dirti...
– Sì, sì. Hai imparato a nuotare. E io ti ho detto che lo sapevo già. E tu sapevi che io lo sapevo. Quindi, cosa ci fai qui?
Caroline distolse lo sguardo. Lui aveva alzato la voce, come un milione di altre volte, eppure in un modo completamente diverso. Tutto era diverso. Forse quasi peggiore.
– Io...
– Non voglio metterti in difficoltà – l’interruppe nuovamente lui. – Forse è meglio che te ne torni a casa.
Caroline si mordicchiò l’interno della guancia.
– Non capisco.
– Cosa?
– Te! Non capisco te. Che cavolo ti succede?
N.M. rispose con uno sbuffo, facendole intendere di voler tornare a letto. Allora Caroline uscì dal capanno degli attrezzi e, senza voltarsi a controllare se N.M. si fosse attardato a guardarla dal giardino, s’incamminò verso casa, immersa in quell’alba azzurrina più che gialla.
Ad un certo punto, dalle parti del parco, scivolò sulla lastra di ghiaccio di un marciapiede, ritrovandosi a gambe all’aria come non le capitava da anni. Allora capì ciò che poco prima non era riuscita a comprendere e ne fu atterrita, poi spaventata ed infine delusa: per tutta la durata della conversazione con N.M., lei si era sentita proprio come si sentiva in quel momento. Una bambina. E lui diverso.
Forse quasi peggiore.
La prima cosa che fece, una volta a casa, dopo aver depistato l’interrogatorio di Stefan, fu cambiare il nome di N.M. sulla rubrica del cellulare.
Niklaus Mikaelson sostituì l’infantile N.M. con la stessa rapidità traumatica ed incontrollabile della crescita.

 
 
 
 
 
 
Note:
 
Vorrebbe essere solo una one-shot, un racconto breve con una Caroline ed un Klaus immersi nei loro soliti litigi e in un problema più grande di loro, alla Peter Pan ma senza consapevolezza (e senza Isola, ovviamente).
 
Lo so che quella ragazzina scalmanata non è la Caroline reginetta di bellezza: è ciò che c’è prima come mi piace immaginarlo in una realtà parallela in cui i due personaggi si scontrano da giovanissimi. E nella mia testa la storia prosegue, dopo anni di distacco, e da lì va avanti e... Mah!
Dopotutto volevo solo scrivere una storia su quanto, a volte, sia inaspettato lo “strappo”, il cambiamento.
 
Ammetto di essermi lasciata andare: descrizioni a più non posso, digressioni, similitudini senza senso e colori (molti colori, anche il più odioso di tutti, il temibile arancione) che spesso se ne fregano delle leggi della natura – vi sfido ad averla vista, un’alba azzurrina più che gialla. Non so se tutto questo vi sarà piaciuto, se l’acqua sui pavimenti della vita vi sarà risultata ridicola o originale, ma oggi pubblico senza rimpianti!
 
Per la prima volta in una storia non mi sono ispirata a nulla (almeno non consciamente!) e questo mi fa venire voglia di chiedervi che ne pensate.
 
Un bacio,
Marina 
   
 
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