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Autore: Calliope49    02/02/2015    3 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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I
 La nipote del capitano
 
 
Il baule sembrava un grosso rospo che la fissava con aria ebete, un lembo di sottoveste usciva dal coperchio come una lingua a penzoloni.
Diane lo guardava spazientita, mani ai fianchi ed espressione torva, come se sperasse di intimorirlo e convincerlo a chiudersi.
La sua roba era stata tutta accuratamente impacchettata, ma il suo guardaroba era diventato più ingombrante da quando era a Parigi - colpa forse di quell’abito che suo zio le aveva regalato per quando l’avrebbe portata a corte, giorno che comunque non era ancora arrivato.
Il capitano Treville era un uomo molto impegnato e Diane non si era azzardata a pretendere da lui niente di più dell’affetto un po’ goffo con cui aveva cercato di accudirla in quel primo mese trascorso da quando era tornata.
Un aspetto della faccenda che sembrava sfuggire all’integerrimo capitano dei moschettieri era che la sua giovane nipote non aveva bisogno di essere accudita e che non era nemmeno tanto giovane come a lui piaceva pensare. Ma in quel mese zio e nipote erano giunti per vie diverse alla medesima conclusione: erano, l’uno per l’altra, la sola famiglia che rimanesse loro.
Eppure Diane aveva deciso di lasciare quella casa. Aveva le sue ragioni e doveva tenerle per sé.
Sarebbe stato tutto più facile, comunque, se il baule le avesse fatto la cortesia di essere collaborativo.
Sbuffò e si lanciò di peso sul coperchio, ottenendo di farlo chiudere a dovere con un tonfo secco. Rimase a pancia in giù sul baule, cercò a tentoni le chiusure di metallo sul davanti e con molta fatica le riuscì di farle scattare.
Sorrise soddisfatta del suo operato, ma il coperchio non restò chiuso a lungo. Qualche attimo dopo si aprì di colpo, sollevandosi bruscamente e facendo cadere la ragazza come se fosse stata sbalzata di sella da un cavallo imbizzarrito.
Diane rovinò sul pavimento, la gonna dell’abito si sollevò e le si ripiegò sulla faccia.
«Ehm… mademoiselle?».
Il sangue le salì alla testa quando realizzò che l’incidente non era stato privo di testimoni.
Dannazione!
Si tolse la stoffa del vestito dalla faccia e guardò verso la porta.
Lo sconosciuto si era voltato, ostentando educata noncuranza per il penoso spettacolo. Sbirciò con discrezione per assicurarsi che la ragazza si fosse ricomposta e le si avvicinò tendendole la mano per aiutarla a rialzarsi.
Era un bel ragazzo poco più giovane di lei, alto, dalla carnagione scura della Francia del sud; portava appuntato alla giubba di cuoio uno spallaccio nuovo da moschettiere.
«Perdonate l’intrusione, mademoiselle. Stavo cercando il capitano Treville, ho un messaggio da consegnargli» disse.
Diane si lisciò la stoffa della gonna per togliersi di dosso la polvere e tentò di darsi un contegno di grazia femminile - per quel poco che fosse ormai possibile.
«Mio zio non è in casa, ma tornerà a breve» spiegò. «Lasciate pure il vostro messaggio, glielo farò avere appena rientra».
Il ragazzo estrasse una piccola pergamena dalla tasca interna della giubba. «Grazie, mademoiselle».
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Mio zio vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».
Il giovane fece una risatina bassa e nasale. Aveva il contegno di un moschettiere e la faccia pulita di un ragazzino.
 «Vi serve aiuto con quello?» chiese adocchiando il baule  spalancato in mezzo alla stanza.
«Se mi aiutate a chiuderlo, avrete la mia eterna gratitudine. I facchini saranno qui a momenti e non sono ancora pronta»
«State per sposarvi?».
Diane sollevò un sopracciglio con aria vagamente torva. «No».
«Ah, perdonate, pensavo steste cambiando casa per…»
«Sto cambiando casa, in effetti, ed è già una rogna senza che ci si metta di mezzo anche il matrimonio. Al momento preferisco perseverare nella mia condizione di vecchia zitella».
D’Artagnan la guardò come un bambino colto in fallo.
«No, no. Voi non lo siete affatto… vecchia, intendo. E neppure zitella» farfugliò, agitando le mani come a tentare di cancellare da una lavagna invisibile le sue parole inopportune.
«Sì, immagino che la lingua francese contempli termini più delicati per le donne non maritate» replicò Diane, poi rise, sollevando d’Artagnan dall’imbarazzo. Lo guardò con una punta di indulgenza: era un bravo giovane e lei si era divertita abbastanza.
Lui si decise a dedicarsi al baule. Ne smosse il contenuto e liberò le cerniere interne da lembi di stoffa che le bloccavano. Alla fine, con una buona dose di pazienza e un certo quantitativo di forza bruta, il coperchio si chiuse e chiuso rimase.
Nonostante Diane lo avesse invitato a tornare alle sue mansioni, d’Artagnan si prese comunque la briga di portare bauli e scatole al piano di sotto, con la scusa che avrebbe atteso il capitano nel mentre. A lavoro ultimato, però, Treville non aveva ancora fatto ritorno.
«Siete stato molto gentile, d’Artagnan».
Il giovane si passò una mano tra i capelli neri. «È stata una cosa da nulla, mademoiselle» disse. «Vi auguro di avere fortuna nella vostra nuova casa». Fece un leggero inchino alla ragazza, sulla soglia.
Lei gli aprì la porta e lo guardò mentre si allontanava, inghiottito dalla folla riversa in strada e diretta al mercato.
Vista da rue du Vieux-Colombier, Parigi somigliava a un termitaio.
«Mi viene da pensare che l’avvenenza sia un requisito basilare per entrare nel reggimento dei moschettieri…» mormorò tra sé e sé Diane, rientrando in casa.
Il capitano Treville fu di ritorno qualche minuto dopo. Trovò sua nipote seduta al tavolo della sala da pranzo, intenta a ultimare il ricamo su un fazzoletto, un giglio di Francia in cotone azzurro.
L’uomo scostò una sedia e si sedette di fronte a lei.
«Insomma, hai proprio deciso» sospirò.
Diane lasciò cadere il ricamo in grembo con un cenno affermativo.
Dalle finestre filtrava una luce plumbea. Da quando era tornata a Parigi non c’era stata una singola giornata di sole e il vento freddo che spazzava la città aveva già odore di neve.
«Mi dispiace non essere stato molto presente da quando sei tornata» aggiunse Treville.
Diane gli prese le mani nelle sue. Sentì la ruvidezza dei calli e il solco sottile di qualche piccola cicatrice.
«Zio, mi sono sentita più a casa questo mese che negli ultimi dieci anni» gli assicurò, e non era una menzogna per addolcire la medicina.
«Eppure hai scelto di trovarti un’altra casa. E a me non piace l’idea di mia nipote che vive da sola, e lavora, e… ah, Diane, sei una giovane meravigliosa con un’istruzione impeccabile, potresti avere molto di più».  
Come uomo abituato al comando, il capitano Treville trovava certo frustrante vedere disattese le proprie aspettative e la condizione di impotenza rispetto a qualcosa che non stava andando secondo i suoi desideri. Diane aveva anche il sospetto che si sentisse in colpa per i dieci anni che la ragazza aveva trascorso lontano da casa. Quando i suoi genitori erano morti, lei era troppo giovane e Treville era un soldato che non aveva il tempo, i mezzi e le capacità per rimettere insieme i pezzi di un’adolescente dal cuore distrutto. L’aveva lasciata andare suo malgrado e probabilmente lo aveva sempre rimpianto.
Diane sentì una morsa allo stomaco. Avrebbe voluto sollevare suo zio da qualsiasi rimorso, da qualsiasi accusa che lui stesso si imputava. Avrebbe voluto dirgli che quella di cercarsi un’altra casa non era una scelta, ma una necessità.
«Non si tratta di quello che potrei avere, zio. Si tratta di quello che voglio» disse.
«Ah, voi giovani donne d’oggi…». Treville la guardò con rassegnazione.
Diane strinse un po’ di più le mani dell’uomo nelle sue e gli sorrise con dolcezza. «Mi sto trasferendo solo qualche strada più in là. E inoltre ti prometto che verrò a trovarti tutti i giorni, alla guarnigione»
«Alla guarnigione?»
«Mi piace il panorama».
Treville gettò all’indietro la testa e sbuffò, enfatizzando un’aria scandalizzata. Lanciò una breve occhiata ai bagagli che si intravedevano dalla porta, prima di alzarsi. Sulla soglia della stanza, si voltò verso Diane.
«Ad ogni modo, se domani tu non fossi troppo impegnata a svuotare bauli nella tua nuova casa, mi piacerebbe portarti a corte» le disse.
«Uhm, sì, immagino che potrei trovare il tempo».
 
***
 
Nella sala delle udienze era stata accesa una moltitudine di candele, il cielo nuvoloso non faceva filtrare abbastanza luce in quella stanza solitamente tanto ariosa. Il tempo cupo e le troppe candele rendevano l’aria irrespirabile, pesante.
Neppure i sovrani sembravano a loro agio. La regina in particolare aveva un colorito poco salutare e sembrava stesse combattendo contro una nuova ondata di nausea, come quella che poco prima l’aveva costretta ad allontanarsi.
Athos lo aveva notato, quell’accenno di passo con cui Aramis si era sporto verso di lei come se volesse seguirla. Pregava sempre di essere il solo a cogliere certi dettagli.
Il cardinale Richelieu, in piedi accanto al re, tossì con discrezione nel fazzoletto. Nell’ultimo mese sembrava invecchiato di cent’anni; forse era stato per il brutto colpo subito con la sua sconfitta, un attentato al suo orgoglio e al suo potere, forse la sorte della Francia stava optando per una strada diversa, forse Dio aveva finalmente deciso di metterci del suo.  L’unica cosa certa era che da settimane i moschettieri non si erano più trovati in condizione di dover sventare complotti, incastrare assassini e altre imprese del genere.
Porthos si lamentava che presto si sarebbero ritrovati ubriachi e grassi - come se riguardo all’essere ubriachi non facessero già costanti passi avanti. Ma di tutte le possibili declinazioni della noia, quella giornata sembrava rappresentare un vero e proprio monumento al tedio.
Il conte Legrand, un omaccione avvolto in pizzi inamidati, stava ciarlando da un’ora buona del suo ospedale e persino il re, che lo teneva in gran conto, sembrava sul punto di ordinare la sua decapitazione.
Il conte era noto per le sue opere caritatevoli e quella di far costruire un ospedale per i poveri di Parigi era senz’altro un’impresa lodevole. Se solo il buon uomo non si fosse messo a spiegare al re e ai malcapitati presenti tutti i dettagli del progetto e della cerimonia di inaugurazione della prossima settimana!
«… e infine, avremo delle colombe» dichiarò il gentiluomo, terminando finalmente il suo sproloquio.
«Colombe» ripeté il re, meccanicamente. «Magnifico. Davvero magnifico».
Il conte si esibì in un profondo inchino, poi si allontanò verso un angolo della sala, confondendosi in una selva di merletti, sete e crinoline.
Gli occhi del sovrano erano già puntati altrove per vedere chi altri lo avrebbe annoiato quella mattina. Lo sguardo di re Luigi si rasserenò quando scorse il capitano Treville che teneva sottobraccio una ragazza. Athos la riconobbe come la giovane donna che era arrivata alla guarnigione di prima mattina, settimane fa - anche se quella al braccio del capitano sembrava la sua gemella aristocratica.
«Chi è?» bisbigliò Aramis, abituato a conoscere l’identità di ogni bella ragazza che orbitasse attorno alla guarnigione o a corte. Abitudine che non aveva smesso, malgrado tutto.
«La nipote del capitano» sussurrò d’Artagnan in risposta, soddisfatto di essere quello meglio informato. «L’ho conosciuta ieri, a casa sua»
«Questo significa che non possiamo farle la corte?» domandò Porthos.
Athos gli rivolse uno sguardo ammonitore. «Direi proprio di no».
Si udì qualche tuono in lontananza. Le fiamme delle candele tremolarono rimescolando i chiaroscuri contro gli stucchi.
Treville fece un inchino alla volta dei sovrani, la ragazza accanto a lui si esibì in una riverenza un po’ rigida.
«Vostre maestà, permettetemi di presentarvi mia nipote, Diane Leroux» disse il capitano.
Re Luigi si sporse in avanti sul suo scranno. «Dove tenevate nascosta una giovane tanto graziosa, Treville?».
«Non ero nascosta, maestà. Ho vissuto in Italia negli ultimi anni» spiegò la ragazza.
«Siete forse imparentata con il duca de Leroux?» interloquì il cardinale. Anche la sua voce, di solito tanto ferma, ora suonava spenta e roca.
«Il duca è il fratello di mio padre, Eminenza. Sono andata da lui in Italia dopo la morte dei miei genitori».
«In che parte dell’Italia avete vissuto, Diane?» chiese ancora il re. Sembrava contento per una volta di avere a che fare con una persona giovane e con qualcosa da raccontare, invece dei soliti nobili che lo tediavano con noiose questioni di stato.
«A Roma, sire».
«Roma» fece la regina con la sua voce sottile e gentile. «Ci sono stata in visita con la mia famiglia quando ero bambina. Una città affascinante. Un giorno mi dovrete raccontare della vostra permanenza»
«Quando vostra maestà lo desidera. Sarà un onore».
Il re intrattenne a lungo la nipote di Treville con chiacchiere e domande. La giornata non accennava in alcun modo a prendere una piega più vivace.
«Chi sarebbe il duca de Leroux?» chiese d’Artagnan con un filo di voce.
«L’ambasciatore francese presso lo Stato Pontificio» spiegò Aramis. «Un fedelissimo del cardinale»
«La ragazza ha delle parentele dai gusti non proprio affini» osservò Porthos con un ghigno. «Sai che armonia ai pranzi di Natale!».
La regina invitò mademoiselle Diane ad accompagnare lei e il re nella biblioteca di palazzo. La giovane guardò incerta verso suo zio poi accettò l’invito chinando il capo.
Se non altro, le udienze erano finite.
«Usciamo da qui, si soffoca» suggerì Porthos quando i sovrani se ne furono andati, accompagnati dagli inchini dei presenti.
Fuori il freddo appannava i vetri alle finestre, ma era di certo meglio di quell’aria opprimente e viziata.
I moschettieri si fermarono sotto al colonnato che delimitava la parte anteriore del giardino. Tra le siepi, le foglie cadute disegnavano sentieri scivolosi; l’autunno aveva derubato il parco della reggia dei suoi colori, l’inverno li aveva soffocati del tutto.
«Devi aggiornarci sulla tua situazione, d’Artagnan» disse Aramis.
Il giovane si strinse nelle spalle. «Non vedo Constance da settimane» disse. Cercava di dissimulare il dispiacere, inutilmente.
«Povero il mio giovanotto dal cuore spezzato! Io parlavo dell’alloggio, se hai trovato dove stare».
D’Artagnan si era trovato in un solo colpo senza una donna e senza un tetto sulla testa. Sembrava essere la dimostrazione che la fortuna non aiuta affatto gli audaci e un’ulteriore prova di quanto l’amore possa essere ingiusto e crudele.
In effetti di recente c’era stato un notevole aumento generale delle quantità di vino ingurgitate in una sola sera, ed era fin troppo facile dare la colpa alla noia e all’inattività.
Eccoli lì, i valorosi moschettieri del re, un ammasso di cuori spezzati e anime logore!
«Non ho ancora trovato dove stare» disse d’Artagnan. «Se devo dirla tutta, un sacco di gente pensa che i moschettieri non siano un buon affare come inquilini».
Nell’ultimo periodo d’Artagnan occupava uno stanzino nella guarnigione, come tutti gli apprendisti moschettieri avevano fatto prima di lui, ma la sistemazione non sembrava di suo gradimento e in qualche modo andava a turbare il suo orgoglio di Guascone.
«Ma tu sei giovane, non ti abbiamo ancora traviato a dovere» esclamò Porthos.
«È una valida argomentazione, la userò la prossima volta che faranno storie per darmi una camera in affitto».
Videro un valletto venire verso di loro, un giovane dall’aria un po’ macilenta.
«Il capitano Treville ha bisogno di un moschettiere» annunciò. «È nell’atrio».
Athos si cacciò il cappello in testa. «Vado io».
Nell’atrio c’era la stessa aria plumbea che regnava nelle altre stanze. Sembrava quasi presagio di qualcosa di tremendo in arrivo o forse si trattava solo di un temporale.
Il capitano dei moschettieri, in fondo alla scala di marmo che conduceva agli appartamenti del re, stava leggendo dei documenti. A giudicare dalla sua espressione, non dovevano essere molto interessanti.
«Ah, Athos abbiamo una certa urgenza» disse, agitando i fogli in una mano. «La prossima settimana verrà inaugurato l’ospedale fatto costruire dal conte Legrand»
«Ne ero al corrente». Non avevano sentito parlare d’altro per quasi tutta la mattina.
«Il re, per compiacere il conte, gli ha promesso che i moschettieri si occuperanno del servizio d’ordine»
«Il conte si aspetta di avere problemi?».
Treville allargò le braccia. «Forse il suo è solo un eccesso di zelo. Ci sarà molta gente all’inaugurazione. Ad ogni modo, gli ho assicurato che terrete d’occhio i lavori per l’allestimento del palco e supervisionerete alla cerimonia. Ho promesso che non ci saranno guai»
«Non ce ne saranno» assicurò Athos. Si congedò dal capitano e fece il giro lungo per tornare dai suoi compagni a riferire gli ordini. Immaginava già i loro commenti su quanto ingrata e sciocca fosse quella missione.
Vide un lembo di abito spuntare oltre un muricciolo coperto di edera e si sporse a controllare.
«Mademoiselle Diane?».
La nipote di Treville era appoggiata con la schiena alla parete di foglie, sembrava turbata e respirava prendendo grandi boccate d’aria. Possibile che il re si fosse già stancato della sua compagnia?
Ebbe un sussulto quando si sentì chiamare. Sollevò la testa di scatto e guardò Athos con una punta di fastidio.
«Vi divertite a prendere di sorpresa la gente?» borbottò, seccata. Lo sguardo acido ricordava incredibilmente il capitano Treville nei suoi giorni peggiori.
«No, non particolarmente».
Diane prese un lungo respiro portandosi una mano alla guancia. «Vi prego, scusatemi. Non volevo essere sgarbata».
La giovane accompagnò le scuse con un sorriso affabile. Aveva un bel viso, l’avvenenza di una donna mischiata alla semplicità della ragazzina che forse era ancora.
«Voi dovete essere Athos, suppongo».
Il moschettiere annuì. «Vi sentite bene?»
«Sapete mantenere un segreto? Non sono abituata al corsetto e credo che questo abito mi ucciderà»
«Ma cosa stavate facendo qui?»
«Ero uscita a prendere una boccata d’aria e mi sono persa. Temo che una corte reale non sia il mio posto preferito al mondo».
Eppure sembrava avere l’educazione necessaria a sopravvivere in certi posti.
«Venite. Vi riaccompagno dentro» disse Athos. Le sue parole suonarono quasi come un ordine secco. 
La ragazza gli sorrise ancora, più incerta stavolta, e gli prese il braccio.
Ora, era risaputo che i moschettieri possedessero certi pregi ma era anche convinzione comune che fossero degli spacconi piantagrane. Eppure poche cose creavano scompiglio tra loro come trovare un compagno al braccio di una signorina.
Li vide da lontano, venirgli incontro lungo il vialetto delimitato da siepi perfettamente potate. Anche senza guardarli in faccia, indovinò i loro sorrisetti smaliziati.
«Messieurs» salutò Diane.
Aramis si sfiorò con le dita la falda del cappello e sfoderò il migliore dei suoi sorrisi - quello che conteneva al contempo una lusinga e un  tacito invito a spaccargli il muso. 
«Sembrate stravolta, mademoiselle» disse subito Porthos. Le lezioni di Aramis sulle donne non dovevano essere state proprio un successo.
Diane non sembrò averla a male. «Sto bene, è solo che dentro mi mancava l’aria» rispose. «Fatemi indovinare… Porthos? E Aramis»
«Il capitano Treville ha reso edotta mademoiselle su, be’, sul suo reggimento» spiegò d’Artagnan.
«Oh, e vi ha anche detto di stare in guardia?» aggiunse Porthos, sornione.
Ma ti prego, lascia perdere…
Alle sue spalle, Aramis strabuzzò gli occhi. «Non eravate con sua maestà e la regina?» tentò di cambiare argomento.
«Sua maestà è stato richiamato da questioni importanti e la regina si è ritirata perché non si sentiva troppo bene» disse lei.
«Da come lo dite sembrate sollevata»
«Oh, no. È solo che il re è… come dire?»
«Un adorabile bambinone viziato» suggerì Aramis.
Diane fece un’espressione furba. «Siete stato voi a dirlo, non io».
«Mi dispiace interrompere il momento ricreativo, signori» intervenne Athos. Realizzò che la ragazza gli era ancora attaccata al braccio e si ritrasse con il fare più gentile che gli riuscì. «Ma dobbiamo tornare in città, il capitano ci ha affidato un lavoro». 
Gli occhi di Porthos si accesero di entusiasmo. «È una cosa interessante, almeno?»
«Da morire. Dobbiamo supervisionare l’allestimento del palco per l’inaugurazione dell’ospedale del conte Legrand e occuparci del servizio d’ordine dell’evento»
«Tanto vale andare in pensione subito!».
Mentre Porthos sciolinava lagnanze e imprecazioni, Athos si voltò verso Diane e le indicò la fine del vialetto, dove terminava la siepe. «L’ingresso del palazzo è sulla destra, non potete sbagliare» le disse.
«Grazie, monsieur. Signori, chiedo scusa se vi ho trattenuto, è stato un piacere fare la vostra conoscenza».
I moschettieri chinarono il capo in cenno di saluto e si voltarono per tornare ai loro affari.
Quando furono abbastanza lontani, Aramis afferrò il braccio di Porthos e lo strinse. «Se ti volti a guardarla, ti do un pugno».
«Pensavo che me ne avrebbe dato uno lui» rispose l’altro e indicò con il pollice teso Athos che, da parte sua, si limitò a stirare le labbra in un’espressione enfatica di sopportazione. 
 
***
 
La carrozza depositò Diane davanti alla sua nuova casa.
Era un edificio a due piani dalla facciata dipinta di giallo con l’intonaco scrostato in più punti che lasciava scoperti i mattoni erosi dalle intemperie. Il secondo piano era disabitato, le avevano spiegato che una grandinata aveva fatto crollare il tetto e il proprietario non era mai riuscito a risistemarlo a dovere. Ma al pian terreno c’erano finestre con inferriate di ferro battuto e fioriere piene di gerani sorprendentemente floridi malgrado il freddo. I fiori erano un’idea di Marie, la ragazza che avrebbe condiviso la casa con Diane.
Si erano conosciute al mercato, settimane prima. L’incontro era stato tutt’altro che fortuito.
Marie era una sarta, si guadagnava da vivere decorosamente con i lavori di taglio e cucito; era bella e stupida, parlava troppo e quasi sempre a sproposito, ma sembrava una brava ragazza con un buon cuore. Nel complesso, era esattamente ciò di cui Diane aveva bisogno.
La testolina dorata di Marie comparve oltre il vetro appannato della finestra. Aveva dei bellissimi capelli biondi che Diane le invidiava con genuina gelosia femminile. Quella giovane avrebbe potuto avere ai suoi piedi parecchi signori a modo, se avesse voluto, ma aveva già il suo amante e gli era fedele - almeno così aveva raccontato a Diane: «Non è un nobile, ma è tanto bello e tanto caro, e guadagna bene. Un giorno ci sposeremo e gli riempirò la casa di bambini!».
Marie uscì dalla porta, agitando la mano in segno di saluto e quasi inciampando in una pozzanghera. Si fermò, guardando ora la carrozza, ora Diane.
«Da dove vieni, conciata come una signora?» le chiese stupita.
Tanto valeva dirle la verità, del resto lo avrebbe saputo comunque. «Mio zio è il capitano dei moschettieri, oggi mi ha portata a corte».
Marie spalancò la bocca in una O precisa di stupore. Poi serrò le mascelle con aria seria. «E ti picchia?»
«Chi?»
«Tuo zio»
«Santo cielo, no» esclamò Diane. «Andiamo in casa, ti va? Fa freddo qui fuori».
Marie la prese sottobraccio e la trascinò dentro. Pestò la pozzanghera che prima aveva evitato e schizzò l’orlo dei loro abiti di fango. Diane finse di non farci caso.
«Lo chiedevo perché mi sembrava strano che tu sia venuta via di casa con uno zio così importante che ti porta a corte. Ho sempre voluto andare a corte» continuò Marie, facendo sedere Diane al tavolo della cucina.
La casa comprendeva due camere, una cucina con un camino, abbastanza spaziosa da fungere anche da salotto, e una stanza da bagno. Era una sistemazione più che decorosa.
«Sono stata in collegio per tanti anni, avevo voglia di un po’ di libertà» si limitò a dire Diane. E, a proposito di libertà, non vedeva l’ora di liberarsi di quel vestito e sciogliersi i capelli: non aveva mentito quando aveva detto ad Athos che non era abituata ai corsetti, anche se non era quello il vero motivo della sua agitazione.
«Hai già conosciuto qualche moschettiere?». Marie si sporse verso la sua coinquilina con una scintilla di interesse negli occhi da cerbiatto. 
«Qualcuno»
«A volte sono stata alla guarnigione perché uno degli attendenti mi aveva chiesto dei rammendi per le uniformi»
«Ma non mi dire…»
«Ci sono alcuni uomini assai interessanti in quel reggimento. Non so se hai avuto la fortuna di incontrare un certo Aramis… ah, se non fossi una donna impegnata!»
«Sì, ho conosciuto Aramis. Notevole. E anche i suoi amici»
Diane e Marie si guardarono in viso e ridacchiarono.
Forse, pensò la nipote del capitano, la sua permanenza in quella casa sarebbe stata meglio del previsto.  
  
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