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Autore: Elissa_    14/02/2015    5 recensioni
Il fatto è che John Watson, ex medico militare drogato di adrenalina, è abituato a relazioni normali. Alle cene a lume di candela, ai fiori, ai ti amo e a tutti quei segni che, convenzionalmente, indicano una relazione. Perciò, anche il festeggiamento di San Valentino.
E Sherlock, assurdamente, contro ogni previsione, si ritrova a volergli dare tutto questo, e oltre.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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San Valentino non ha mai occupato molto spazio nella sua mente. 
“In percentuale,” lo informa Molly nel suo laboratorio nel mind palace “è circa lo 0,00003% della memoria occupata. Natale e Capodanno occupano il triplo dello spazio.”
Lo spazio si modifica attorno a lui e immediatamente si trova nella libreria; consulta il volume -le misere tre pagine di informazioni- su San Valentino: la vicenda dietro cui si cela la festività è sanguinosa e poco interessante, l’abitudine di scambiarsi regali e dolci liquidata in due righe. Ci sono un paio di accenni a crimini compiuti in questa data, ed è terribilmente tentato di andare a cercare la documentazione, ma Molly gli ricompare davanti, picchiettando con due dita sulla superficie in noce dell’ampio tavolo. 
La sua mente è così noiosa, certi giorni. Anche John preferirebbe parlare di crimini piuttosto che pensare a regalini e nuvole rosa, ne è certo. È tentato di dirlo a Molly, così forse lo lascerà in pace, quando nota con la coda dell’occhio l’oggetto dei suoi pensieri sgusciare via dalla libreria, totalmente a suo agio, come sempre da quando gli ha dato libero accesso ad ogni stanza del mind palace.
Basta quello, la proiezione di John Watson, a farlo sospirare e dimenticare omicidi seriali in stanze chiuse.
Il fatto è che John Watson, ex medico militare drogato di adrenalina, è abituato a relazioni normali. Alle cene a lume di candela, ai fiori, ai ti amo e a tutti quei segni che, convenzionalmente, indicano una relazione. Perciò, anche il festeggiamento di San Valentino.
E Sherlock, assurdamente, contro ogni previsione, si ritrova a volergli dare tutto questo, e oltre.
John non deve pentirsi di averlo scelto, solo perché Sherlock è un po’ meno convenzionale di tutte le sue ex.
Perciò chiude gli occhi, ed eccola lì, la porta rosa. Janine gli apre con un sorrisetto furbo, invitandolo ad entrare. La sua stanza è ariosa, dipinta di una sfumatura fiori di ciliegio, e una tenda di tulle che copre una finta finestra. Ci sono diverse mensole, piene di chincaglierie varie, una raccolta di vecchi ricordi del portagioie di donne che ha conosciuto: sua madre, Molly, la Donna, Mary. C’è una televisione spenta, e un tavolino da caffè proprio davanti, al centro della camera. L’atmosfera si spezza nell’angolo opposto alla televisione, dove si trova un tavolo nero con una macchina da scrivere. Sulla superficie ordinata luccica, pericoloso, un fermacarte d’onice a forma di coltello.
Janine si siede sul divano, un tre posti magenta che fa pendant col vestito lilla del matrimonio, e gli fa cenno di avvicinarsi. Lui resta sulla soglia, le braccia incrociate, inamovibile. "Lo sai che non c'è tempo per i convenevoli" le ricorda.
Lei mette il broncio, annoiata. "È la tua testa, puoi far durare tutto questo meno di tre secondi."
"Non è così semplice."
"Certo che lo è, sei solo troppo nervoso per pensarci. Oh, povero Sherly!" sospira, trattenendo l'ilarità a stento. 
Vorrebbe mentire, ma immagina sarebbe estremamente controproducente farlo nella sua stessa mente, perciò si limita a scrollare le spalle. "Ho bisogno di quelle informazioni al più presto, Janine."
“Non sei stato un fidanzato così bravo da imparare certe cose, Sherl” lo informa. “Ma se lo fossi stato, probabilmente non avresti avuto bisogno di me, quindi lo saprai già.”
“Janine” sbuffa, spazientito.
“Oooh, ma come siamo ansiosi!” batte le mani, estasiata. Poi indica nuovamente il divano. “Forza, Sherl, oggi ti insegnerò quello che il tuo subconscio ha colto mentre tu giocavi al detective.”
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Quando ritorna al mondo reale, John è via. “Sono a fare la spesa” dice il post-it attaccato alla sua fronte.
Non è mai stato più felice di avere John fuori di casa. Afferra il cellulare, che penzola pericolosamente dalla tasca della vestaglia, e cerca rapidamente tra i contatti. Lancia uno sguardo a quello di Lestrade: oggi dovrebbe avere la serata libera, probabilmente lo userà per intrattenere John nel pomeriggio.
Ma, ora, preme il contatto di Billy. “Hai ancora la mia carta di credito? -SH” scrive.
Il gioco è cominciato.
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Per quando John torna a casa, lui ha già organizzato la giornata di entrambi fin nei minimi dettagli, e si è rimesso nella stessa posa indolente di qualche ora prima. 
“Tornato dal viaggetto nel mind palace?” chiede John, dopo aver poggiato le buste su una delle poche sedie rimaste sgombre. Sherlock nemmeno pensava di possederla, una sedia libera.
Annuisce, fingendo di darsi da fare al telefono, mentre è da dieci minuti che aspetta una risposta di Lestrade -sta cercando di convincerlo che la sua testimonianza per l’ultimo caso non è assolutamente necessaria, ma il DI sembra abbastanza sicuro del contrario.
La sua messinscena dura fin quando non sente la mano di John tra i suoi capelli, una carezza distratta che si prolunga sulla mascella e parte del collo. Quando con un dito gli sfiora la clavicola, lui ha già perso ogni speranza di fingersi disinteressato, e solleva il busto, abbastanza perché le labbra di John possano fermarsi sulla sua fronte senza che quest’ultimo si debba abbassare. Un bacio sul naso, e poi uno sulle labbra. 
Baciare John è … bello, suppone. Memorabile, forse sarebbe un aggettivo più adatto. E ce ne sarebbero a milioni, miliardi. Potrebbe inventare parole per la sensazione delle labbra di John sulle proprie. Potrebbe comporre melodie di ore ed ore. (Potrebbe averne già iniziate una o due, addirittura.) Ma per trovare le parole adeguate a descrivere John Watson che si impegna nell’arte del baciare, Sherlock dovrebbe avere accesso al mind palace, e assolutamente non è possibile, per quanto lo desideri ardentemente. L’ultima volta che è finito nel mind palace mentre baciava John, l’altro uomo si è preoccupato così tanto che non l’ha baciato per il resto della giornata. 
Sherlock suppone che avere un partner che si immobilizza nel bel mezzo del bacio non sia una bella esperienza, perciò non lo incolpa eccessivamente.
“Hai bruciato qualcosa?” domanda John, dopo che si sono separati.
Sherlock fa un cenno di diniego, confuso.
“Sicuro? Hai l’aria di uno che ha combinato qualcosa.”
Ovviamente, John Watson decide di diventare misteriosamente perspicace proprio quando è meno preferibile.
“Sciocchezze, John; andiamo a sistemare la spesa, vedo le confezioni da mettere in frigo da qui” dice, e in un balzo è giù dal divano, dando la schiena a John.
Lo sente borbottare un “questo non mi rassicura”, ma sceglie di ignorarlo.
 
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Pranzano sulle poltrone perché il tavolo è ingombro dai resti di un esperimento della scorsa settimana -deve ricordarsi anche di ripulire almeno la cucina: forse gli toccherà mandare via John prima del previsto, considerando l’accumulo di provette, block notes e scartoffie varie.
Mangiano in silenzio, ma senza imbarazzo. I loro piedi riposano vicini, l’unico punto di contatto tra i loro corpi; talvolta alzano lo sguardo dal piatto -fish’n’chips presi da John sulla strada di casa- per trovare quello dell’altro ad attenderli. Si sorridono con semplicità, rilassati. Negli occhi di John aleggia ancora il sospetto, ma non dice nulla, limitandosi a scuotere la testa tra sé di tanto in tanto. Probabilmente pensa che lui abbia rovinato qualche vestito o bruciato le tende o una di quelle cose insignificanti che continua a considerare degne di nota. Non abbastanza da impegnarsi per sapere di che si tratta, in ogni modo. Non più, almeno. Ora John si limita a considerarle parte del loro vivere quotidiano, come per qualcuno potrebbero essere i turni per lavare i piatti o buttare la spazzatura.
Sherlock non avrebbe mai immaginato che sarebbe potuto essere così semplice e naturale. Non solo la convivenza, ma anche… questo. John che dà un colpetto al suo piede, quando non mangia, e gli sorride. Lo sfiorarsi casuale ma costante, la mano dell’altro uomo alla base della sua schiena quando devono entrare in qualche edificio. Cenare da Angelo e lasciare che accenda la candela. È tutto così nuovo che Sherlock si stupisce ogni volta di quanto bene riescano ad incastrarsi, in ogni cosa.
Il desiderio di dare a John ciò che desidera, ciò di cui ha bisogno, c’è sempre stato -‘pressure point’, riecheggia la voce di Magnussen nella sua mente-, ma ora è come potenziato, come se avesse rotto una diga.
E va bene, perché John lo conosce, John lo guida senza che lui abbia bisogno di chiederlo e gli passa un sandwich quando sono fuori per un caso da più di 12 ore prima ancora che apra bocca. Va bene perché forse è una cosa reciproca, forse John vuole prendersi cura di lui tanto quanto lui vuole prendersi cura di John. E quando si siede sul divano, mentre l’uomo al suo fianco cerca di mettere per iscritto le loro avventure insieme -dal modo in cui trattiene le risate è certo che si tratti della Lega dei Capelli Rossi- si ripromette che renderà questa serata indimenticabile. 
 
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Sono passati esattamente 100 minuti da quando è uscito di casa, e Sherlock ancora non ha trovato un regalo per John. Ha vagliato ogni tipo di possibilità: dall’utile al desiderato al pacchiano, ma nulla gli sembra abbastanza. Nulla riesce a veicolare il messaggio che vuole esprimere.
È così che si sente la gente normale quando fa queste cose?, vorrebbe chiedere a John. Ma lui non è lì, è con Lestrade a compilare scartoffie in centrale per un vecchio caso, e non può rispondergli. Ormai ha nuovamente fatto l’abitudine ad averlo costantemente intorno, tanto che la sua assenza lo turba più di quanto gli piaccia ammettere a voce alta.
Billy lo informa tramite messaggio che tutti gli ingredienti sono stati portati senza alcun problema al 221B, e un piccolo gruppo di Irregolari -un paio di ragazzini abbastanza spaventati da lui da non frugare da nessuna parte- stanno sistemando le stanze, dopo che lui ha messo via tutto ciò che si può rompere facilmente e trovato posto ai fogli di vitale importanza. 
Sta andando tutto secondo i piani, tranne che per il regalo. È con una smorfia e un sospiro che chiede l’aiuto di sua madre.
“Cosa si regala generalmente per San Valentino? -SH”
Come si sarebbe dovuto aspettare, tre secondi dopo il suo cellulare squilla con l’avviso di chiamata. Mycroft ha preso il suo essere irritante da qualcuno.
La telefonata, fortunatamente, arriva subito al dunque.
“Cosa vuoi che significhi?” gli chiede sua madre, senza sprecare tempo. Questa settimana dovrebbero essere ancora in Europa, quindi il tono sbrigativo non è legato al jet lag o alla differenza di fuso orario.
Forse capisce la reticenza di Sherlock su questo argomento non vuole prolungare la sofferenza. O forse era solo impegnata in qualche analisi e lui l’ha distratta. Non si può mai sapere, con lei.
Rimane in silenzio per qualche minuto, mentre si perde nella calca di Londra. I caffè sono tutti sommersi da coppie; metà delle quali hanno uno dei due partner adulteri. Sta deducendo il numero di gatti dell’amante della coppia sulla davanti alla vetrina, quando sua madre decide di prendere la parola.
“Vuoi dire ‘ti amo’? Vuoi dire ‘sei la persona con cui voglio passare il resto dei miei giorni’? ‘Mi piaci molto’? ‘E’ solo sesso ma mi stai simpatico’?”
All’ultima opzione, Sherlock si ritrova a fare un verso disgustato.
“Che c’è? Solo perché tu e Myke siete così riservati, non vuol dire che io e vostro padre non sappiamo che avete anche voi una vita sessuale” si interrompe, con una mezza risata. “Ma stiamo parlando di John, giusto? Quindi vuoi dirgli che è qualcosa di stabile e duraturo. Ma senza i diamanti, per quelli è ancora troppo presto.” Sembra dire qualcosa a bassa voce. Probabilmente parla con suo padre, e Sherlock riprende a camminare, lo sguardo fisso sulle vetrine. Un negozio di stoffe, un orologiaio, un antiquariato … nulla che possa servirgli.
Finché, all’angolo della strada-
“D’accordo, Mamma, la telefonata è stata molto utile, ci sentiamo!” chiude la chiamata in un baleno, prima ancora di sentire sua madre che ride.
 
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Dopo due ore e -sorprendentemente- solo un piatto bruciato, Sherlock può dirsi soddisfatto: la tavola è apparecchiata per due, le candele accese, la musica è regolata su un volume ottimale e il cibo è commestibile e quasi pronto.
John dovrebbe arrivare in pochi minuti: è tutto perfettamente in orario. Non ha dovuto mettere in atto nessuno dei suoi piani nell’eventualità qualcosa andasse storto, per il momento. Li ripassa velocemente, in ogni caso. 
Farsi cogliere impreparati non è contemplabile.
La porta si apre mentre lui sta scolando gli spaghetti. Inspira bruscamente, mentre John passa dal panico –“Sherlock?!”- alla confusione –“che razza di esperimento stai-?”- allo stupore vero e proprio –“Oh. Perché hai-?”
“Mi dicono che è tradizione festeggiare San Valentino con una cena” afferma, ma sembra più una domanda. Continua a fissare la nuvola di vapore bollente attorno a sé, come se questa avesse tutte le risposte. Non le ha, ma la preferisce di gran lunga al guardare John. Improvvisamente si sente colto in fallo, quasi avesse sbagliato tutto. Il silenzio dell’altro uomo, che osserva tutto il suo operato della serata con aria circospetta, certamente contribuisce alla sensazione.
È fisicamente impossibile, ma il suo stomaco sembra essersi ridotto di tre taglie, e avverte come uno strano pizzicore sulla pelle, un desiderio di scappare che non provava dai tempi dell’adolescenza.
“Non va bene?” si lascia sfuggire, quando il silenzio si è prolungato per troppo tempo. Mentre appoggia il tegame sul fornello spento, coglie con la coda dell’occhio John che si appoggia al muro con un sorriso. “Va più che bene, Sherlock” mormora. Sembra senza fiato.
“Quindi non hai per caso bruciato il letto, vero?” aggiunge.
Si volta per lanciargli un’occhiata, ma John sta già ridendo. 
“Stavo semplicemente verificando!” spiega, avvicinandosi. Ha le braccia conserte, ma la postura è rilassata. Lo sguardo è sereno, forse un po’ sorpreso. “Non credevo sapessi cucinare” dice. Agli angoli delle labbra spunta un sorriso, appena accennato.
“Nemmeno io, ma dopotutto è abbastanza semplice. Basta seguire le istruzioni, un po’ come una reazione chimica.”
John ride tra sé, una battuta che solo lui può capire. “Semplice come una reazione chimica” mormora. “Sei incredibile” dice, poggiandogli una mano sulla scapola.
“Spero in senso buono.”
“Sempre e solo in senso buono” risponde John, e Sherlock si sente sorridere, un calore che si diffonde nel petto come al solito quando il suo blogger gli fa un complimento. È più forte di lui: i suoi complimenti valgono più di ogni onorificenza, più della stretta di mano della Regina.
John si sporge in avanti, baciandolo all’angolo delle labbra. Si scambiano una risatina, guardandosi di sottecchi. Si sente stordito, come se tutto il resto non contasse. Solo lui e John, solo questo momento. (Capita più spesso di quanto non gli faccia piacere ammettere.) Condisce gli spaghetti di fretta, prestando loro fin troppo poca attenzione, perché ha la mano di John sulla schiena, la sua risata nell’orecchio e i suoi occhi addosso, e pensare è veramente difficile in momenti come questi.
Riescono, in qualche modo inspiegabile, ad arrivare al tavolo con due piatti commestibili, nonostante nessuno dei due stia prestando attenzione a quello che stanno facendo.
“Quindi, Greg mi ha tenuto a New Scotland Yard fino a venti minuti fa perché tu potessi organizzare tutto questo?” chiede John, ilare.
“Greg- ah, Gavin? Ho promesso che in cambio non gli avrei preso il portafogli per due mesi. A quanto pare è cattiva pubblicità per gli Yarder o qualcosa del genere.”
“Be’, un ispettore di polizia che viene derubato ogni settimana non può certamente essere un buon biglietto da visita” spiega John, con un sorriso che gli arriccia le labbra. È il primo ad assaggiare il piatto, la schiena rigida e lo sguardo vigile di chi si aspetta di dover ingoiare un boccone amaro.
Si rilassa immediatamente, e Sherlock smette di trattenere di respiro. “E’ buonissima!” esclama, gli occhi spalancati, la sorpresa evidente nel suo tono.
China il capo e finge di togliersi il cappello, al che John ride un po’ più forte e stappa la bottiglia di vino rosso preventivamente messa in tavola, versando nel calice di entrambi.
“Non abbiamo nemmeno iniziato a mangiare” obietta.
“Sherlock Holmes,” dice John, con aria solenne “stanotte ho intenzione di farti ubriacare e di provarci con te per l’intera durata della cena.”
Scoppiano entrambi a ridere, un suono improvviso come lo scoppio di un petardo nella notte, e se la mano libera di John si poggia sulla sua, non c’è molto di strano, dopotutto.
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Nonostante le previsioni di John, riescono ad arrivare a fine cena più vicini alla sobrietà che all’ubriachezza. Sono in quel limbo in cui tutto è piacevole: Sherlock sente un tepore avvolgerlo, nonostante fuori abbia iniziato a piovere qualche ora fa; la sensazione di calore è accentuata ogni volta che il suo corpo entra in contatto con quello di John, i piedi che cozzano sotto il tavolo e le mani strette, lì sopra.
Stanno finendo il dolce -opera di Mrs Hudson che, in un moto di pietà, gli ha proposto di cucinare almeno quello al suo posto- quando si sente uno schianto fragoroso provenire dalla loro camera da letto. Il suo sguardo corre dalla porta della stanza a John, in attesa. Questi non fa in tempo ad alzarsi dalla sedia, che dalla porta socchiusa sbuca fuori il cagnolino, il fiocco rosso al collo tutto stropicciato.
John fissa sbigottito l’apparizione, che, avendo sentito l’odore del cibo, si dirige a passo sempre più spedito verso di loro. Poi si volta verso di lui, una domanda chiara nello sguardo. 
“Sorpresa?” prova a dire, con un mezzo sorriso.
Il cucciolo, mostrandosi terribilmente intelligente, caracolla fino alla sedia di John e poi si mette in equilibrio sulle zampe posteriori, aggrappandosi ai suoi pantaloni. Quando è entrato nel negozio di animali non avrebbe mai pensato di uscire di lì con un labrador nero grande quanto il suo braccio, ma il cagnolino gli si è gettato addosso non appena ha aperto la porta del negozio, girandogli attorno per tutto il tempo. E, dopotutto, Sherlock ha sempre preferito i cani. Per John sembra essere lo stesso: dopo i primi secondi di diffidenza, sta già grattando la testa del cucciolo, il quale si allunga per prolungare la carezza.
“Sei sicuro di non aver rubato nulla?” domanda, senza distogliere lo sguardo dal cane. Non c’è rabbia o vero sospetto, nelle sue parole.
“Per un regalo e una cena?”
John solleva un sopracciglio, scettico. “Sherlock, sappiamo entrambi che non sei un tipo da San Valentino.”
“Ma tu lo sei” ribatte, scrollando le spalle.
Lo sguardo del suo blogger va da lui, ai piatti, al cane più e più volte. Infine, lo fissa dritto negli occhi. Non sa a quali deduzioni giunga, ma lo osserva mentre con delicatezza lascia che il botolo rotoli lontano dai suoi jeans. Si alza, e in un passo è di fronte a lui, le mani aperte sul tavolo. Si abbassa, abbastanza perché i loro volti siano a pochi centimetri di distanza.
“Fammi capire” scandisce “tu hai organizzato tutto questo solo perché pensavi che a me piacesse festeggiare San Valentino?”
Annuisce, ipnotizzato dalla vicinanza dell’altro uomo.
John deglutisce una, due, tre volte in successione. Poi gli prende il viso tra le mani e lo bacia a lungo, con forza. Si potrebbe scrivere un libro su quanto bene baci John Watson, ex medico militare drogato di adrenalina, e un giorno Sherlock lo farà. Ma, per ora, si accontenta di assaporare la sensazione delle sue labbra sulle proprie, il modo in cui tutto si annulla tranne loro due. Quando ad entrambi manca l’aria, si separano, giusto la distanza necessaria perché le loro fronti si tocchino. Gli dà un altro bacio a fior di labbra, con un sorriso enorme.
“Tu. Grandissimo. Idiota.” Sottolinea ogni parola con un bacio. “Forza, vieni sul divano” gli dice, facendo scivolare una delle mani che fino a poco prima gli accarezzavano il viso sopra la sua.
Il tragitto dalla cucina al soggiorno è lo stesso di sempre, una decina di passi esatti, ma il tempo rallenta quando una mano della persona per cui daresti la vita è sulla tua nuca e l’altra stringe la tua.
“Perché non possiamo camminare normalmente?” domanda, perplesso.
“Zitto” lo redarguisce John, con un altro bacio. “Zitto, sto pensando.”
“Un bizzarro rovesciamento di ruoli” borbotta tra sé, ma John sembra trovarlo un buon motivo per zittirlo di nuovo. E di nuovo. E ancora una volta.
Così, naturalmente, finiscono per cadere. Fortunatamente, il divano attutisce la loro caduta, ma il bacio si interrompe e si trovano a ridere, uno sopra l’altro, ebbri di felicità. Come la gioia potesse essere paragonabile all’alcol, è sempre stato un mistero, per lui. Poi ha incontrato John Watson. (Buona parte della sua esistenza potrebbe riassumersi in questo modo.)
“Sherlock, non penso che tu voglia dover chiamare Lestrade nella prossima mezz’ora” dice John, dopo qualche minuto passato a ridere.
“Mh?”
“Mi stai soffocando” spiega, con una mezza risata.
“Oh. In effetti.” Rotola giù dal divano e fa per avvicinare la sedia, ma John è più veloce: si siede con le ginocchia al petto e lo afferra per un polso, facendolo cadere nuovamente sul divano, davanti a lui. “Dove pensavi di andare? Ho ancora un discorso da fare” gli dice. La mano non ha lasciato il suo polso; col pollice ne accarezza l’interno, in un movimento lento e incredibilmente sensuale.
John chiude gli occhi e prende un respiro, come per prepararsi ad un salto nel vuoto.
“Sai bene che non sono bravo con queste cose, okay? Quindi lasciami finire.”
Un altro respiro profondo.
“Quando ho scelto di stare con te, sapevo quello a cui andavo incontro. Non mi aspettavo che tu cambiassi per me. Anzi, non voglio. Voglio che tu… resti sempre te stesso. Ho scelto te, Sherlock. Non un’imitazione o un’idea che mi sono fatto di te. E non voglio che tu ti senta costretto a fare cose che non faresti normalmente solo per questo. Per… noi.”
“Questo include fare i piatti?”
John alza gli occhi al cielo. “No, quello è essere un coinquilino decente, e non ha nulla a che fare col resto. Ma buon tentativo” ride, sporgendosi per un bacio a fior di labbra.
Il cucciolo riesce a salire sul divano proprio in quel momento, incuneandosi nello spazio irrisorio tra loro. “A proposito, perché un cane? Non che mi stia lamentando, ma non pensavo fossi particolarmente interessato agli animali domestici.”
Un giorno, Sherlock gli parlerà di Redbeard e delle due settimane in cui non ha aperto bocca. Ma ora, mentre lo guarda fare smorfie al cucciolo, pensa che non sia il momento adatto. “È un impegno” spiega. John solleva lo sguardo su di lui, interrogativo. “Qualcosa di stabile e duraturo. Spesso quando si parla di pianificare a lungo termine diventi sfuggente e vago. Ma non è un problema che riguarda te, sei reduce da un matrimonio e hai sempre cercato la persona con cui ‘sistemarti’, perciò non possono essere dubbi che riguardano la tua capacità di mantenere un impegno. Cosa, allora? L’unica variabile modificata degli ultimi tempi è la nostra relazione. Ergo, è qualcosa in essa che ti sembra instabile. Il tuo coinvolgimento? No, quello l’hai messo in chiaro da principio. L’unica altra possibilità è che abbia a che fare con me. Una delle prime paure che hai espresso, e cito testualmente, è che io ‘mi stancassi di tutto questo’. Illogico, ma soprassederò. Le rassicurazioni verbali non sembrano sortire effetti, perciò solo la dimostrazione di un impegno costante potrà convincerti della realtà. Quindi, un animale domestico, di cui è necessario prendersi cura ogni giorno e per il quale non ci sono date di scadenza.”
Quando termina ha appena il tempo di inspirare che John lo placca, facendolo finire semi-disteso sul divano. “Messaggio ricevuto” mormora, prima di avventarsi sulle sue labbra. 
Sherlock è ben felice di lasciarlo fare.


Note: Queste tremilanovecentoqualcosa parole sono state scritte sulla base di un prompt ricevuto sul mio profilo ask da parte di un anonimo che, certamente, non si aspettava una risposta tanto lunga.
(Il prompt era, per chiunque fosse interessato: "
Dunque immagina Johnlock, in una cenetta romantica, probabilmente la farebbero nel loro appartamento tutti soli con un atmosfera poco luminosa. E Sherlock ha fatto un regalo a John...")
Ringrazio Bembo, ovvero il migliore vicino di banco dell'universo, per avermi guidata nel plottare questa storia, e Chiara e Francesca per averla letta e avermi dato preziosi suggerimenti (oltre ad un paio di calci nel sedere quando avevo bisogno di essere spronata). Ogni errore che trovate qui sopra, comunque, è e rimane mia responsabilità. 

Il titolo è l'ennesimo esempio di 'titolo ad minchiam', preso dalla canzone di Chiara a Sanremo -che, a mio parere, ben si adatta a John e Sherlock.
Concludo come al solito dicendo che siete liberissimi di commentare anche solo per dirmi di darmi all'ippica. Vi ringrazio per aver letto!

 
  
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