Hiems alma
- tempesta che infonde vita -
15
giugno 1189, castello di Koromogawa
Ricordi?
L'avevamo
promesso quella mattina d'estate di tanti anni fa; il fulgore delle
stelle che allora sanciva la nostra alleanza è opaco, se
messo a
confronto con lo scintillare delle armature che adesso brutalmente mi
sottrae a voi – a te, a lei.
"Mai
per amore, nella morte per sempre", recitavano le nostre labbra
da ragazzi, mentre le voci all'unisono si fondevano in un patto, reo
dell'unico peccato d'eccessiva innocenza.
Mai
divisi da una donna, avremmo scelto una morte che ci avrebbe colti
nello stesso istante – perché nessuno si riteneva
degno di vivere
nemmeno un secondo in più dell'altro; questo ci eravamo
giurati, gli
astri ne erano testimoni.
Ma del
sincero tremolio che un tempo colorava i nostri giuramenti non rimane
che un torvo fragore di spade. La pelle candida delle mani, unite
l'una nell'altra in un atto di tenera devozione, si è
macchiata del
rosso che sgorga – dal corpo, dal petto.
La mano
si attarda – sulla piuma o sulla spada? –
perché non riesce a
decidere quali saranno le ultime parole vergate dal suo tratto.
Forse
parole d'odio, Hashirama? E per chi, se non per me stesso?
Non sono
stato io a violare il sacro patto che ci univa, tradendo la fiducia
dell'unico uomo che in me la riponeva ciecamente?
La
stretta sull'elsa si fa più energica; è l'Uchiha
che freme per
porre fine a Madara – l'Uchiha che trabocca d'orgoglio e non
sopporta d'essere accostato al debole e umano Madara.
Non t'odio, Hashirama, come potrei?
Forse
parole d'amore?
Ah, empio
peccatore! Un nome tanto puro non dovrebbe più sfiorare la
tua
bocca, già profanata da troppi baci illegittimi!
La
stretta sull'elsa si fa più energica; è Madara
che si batte per
pugnalare l'Uchiha – Madara che vorrebbe saper amare, pur con
il
cuore troppo angusto dell'Uchiha.
T'amo, Hashirama, come non potrei?
Se le più
profonde passioni umane non spiegano fino in fondo il tormento che
affligge il mio cuore, allora di quali sfumature, di quali
sentimenti, si è tinta la nostra tragedia?
Se non
riesco neppure a odiarti e continuo ad amarti, a che è valso
l'ardore che provavo per lei?
Tutto è
stato vano, dunque?
Non
parole, allora, ma silenzio: silenzio cala sulla dipartita
dell'antieroe.
Perché
stupirsi? La mia sconfitta era già segnata nelle stelle di
una volta
– quelle a mio favore non risplendevano della stessa luce che
faceva brillare le tue.
* * *
12
gennaio 1179, Heian-kyo, residenza dei Senju
«L'esercito
prepara il suo
ritorno, Hashirama-dono. È
tutto pronto per la nuova guerra».
Il
capostipite del clan Senju non si preoccupò di distogliere
l'attenzione dalla tazza di pregiato gyokuro
che
stringeva tra le mani, annegando lo sguardo nella miscela di
colore verde chiaro.
Rimase in silenzio a lungo,
lasciando che le parole del suo generale si disperdessero nell'aria,
fuse insieme alla nota vellutata del tè; parole di guerra
che
s'infrangevano contro pareti di fumosa bellezza.
«Le
cerimonie dei nostri antenati non ci salveranno dalla furia dei
Taira»,
schernì la voce cupa che risiedeva nell'uomo inginocchiato
davanti
al capo clan, irrigidito nella seduta in seiza.
Hashirama levò la mano destra e
le proteste del generale si spensero all'istante, messe a tacere
dalla potenza di quelle cinque dita elegantemente distese –
quasi a
fermare il tempo.
«Non prima del prossimo anno,
Madara», si decise a proferire il Senju, sollevando
finalmente il
capo verso il suo fedele sottoposto. Si sfidarono a lungo, impedendo
a qualunque suono di intromettersi in quel tacito duello, in cui
ognuno tentava di convincere l'altro della fermezza delle proprie
posizioni.
«Il prossimo anno?» capitolò
sconfitto l'Uchiha, non senza colorare l'inflessione delle sue parole
di un vago scetticismo, estremo residuo di diffidenza.
«Il prossimo
anno», ribadì Hashirama, accompagnando la sua
vittoria con un lieve
movimento affermativo del capo. «
Ora, finisci il tuo tè. Potrai tornare dai tuoi uomini solo
dopo
aver esaudito le sciocche richieste di un uomo nostalgico».
«Siete troppo all'antica,
Hashirama-dono», sbuffò Madara, costretto a
riprendere in mano la
sua tazza di tè nero, lievemente seccato dall'influenza che
l'autorità di Hashirama esercitava su di lui.
«Probabile»,
concesse il
capoclan.
«Ah,
Madara? Non riferirti mai più a me con quel suffisso. Non
trovi sia fuori luogo per rivolgersi
a un
fratello?»
Il generale
sorrise, chinando il capo con deferenza – e affetto
– quando l'altro si alzò in piedi, dirigendosi
verso la porta
scorrevole.
«Sì, Hashirama».
* * *
23 marzo 1179, Heian-kyo, residenza degli Uzumaki
«Come fai a
non essere emozionata per il giorno del tuo miai,
oneesan?»
protestò la voce infantile di Nanami
Uzumaki, mentre si apprestava a pettinare con devozione i capelli
della sorella maggiore.
Mito si
sciolse in una risata composta, quasi temesse d'infrangere i limiti
di rigore che ella stessa si era imposta. «È solo
un tentativo,
Nanami-chan.
Non è affatto detto che oggi incontrerò l'uomo
della mia vita!»,
pronunciò quell'apostrofe con scherno; lei, regina di divina
intransigenza, non poteva concedersi di credere a qualcosa di
effimero come l'amore eterno.
«Oneesan,
sei scorbutica!» le fece il verso la sorella minore, roteando
gli
occhi con sufficienza. «Ad Hashirama-sama non piacerai
nemmeno un
pochino!»
Mito Uzumaki
si permise uno sguardo fugace al proprio
riflesso
nello specchio, prima di lasciare il suo rifugio all'interno della
casa paterna. Nonostante i suoi
genitori
avessero insistito affinché acconciasse i capelli in un
pettinatura
ordinata, degna di una futura moglie, lei aveva ribattuto
irremovibile
che li avrebbe lasciati sciolti, sulle spalle. Non ammetteva
restrizioni da nessuno, se non da se stessa.
Lasciò
scorrere una mano sulle pieghe del kimono
che aveva scelto per quel primo incontro con colui che la sua
famiglia sperava sposasse; le dita scivolano veloci sulla seta, non
incontrando alcuna grinza a fermare il loro irrequieto affanno.
Posò un bacio
sulla fronte di Nanami,
sebbene quest'ultima ancora non l'avesse perdonata per la leggerezza
con cui si era preparata al giorno del miai,
e si accinse a raggiungere l'uomo che l'attendeva nei giardini.
«Non mi avrai mai, Hashirama».
Nanami non ne era certa, eppure giurò di aver percepito la presenza di quelle parole, scura e minacciosa, ad affollare la stanza da letto in cui di Mito non rimaneva altro che la scia del suo profumo di pesco.
* * *
23 marzo 1179, Heian-kyo, residenza dei Senju
Hashirama si
muoveva concitato, disegnando linee frenetiche sul
pavimento di cedro dell'engawa,
mentre un fiume di parole, quasi prive di connessione logica tra
loro, investiva il suo interlocutore.
Madara lo
fissava stranito, non riconoscendo il suo
vecchio amico, da sempre munito di proverbiale pacatezza, in
quell'atteggiamento inquieto. Si risolse a intervenire, posando le
mani salde sulle sue spalle, costringendolo così a fermare
la folle
danza in cui si era lanciato.
«...oh, ed
era così bella.
Più
bella di qualunque cosa i miei occhi abbiano mai incontrato»,
continuò a vaneggiare il Senju, rivolgendosi al subordinato.
«Non credevo
che una donna potesse stordirti tanto», lo derise l'Uchiha,
appena
nauseato dalla nuance
languida e melensa che avevano assunto gli occhi, un tempo saldi, del
futuro sposo.
«Non è una
donna qualsiasi, affatto», ribatté
Hashirama, svincolandosi dalla stretta. «Sai, mi ricorda te,
in un
certo senso».
Madara alzò un sopracciglio,
incuriosito dalla piega che aveva preso il discorso. «Che
intendi?»
«Per
tutta la durata del nostro appuntamento, non ha mai abbassato la
guardia con me. Sceglieva ogni parola con cura e soppesava le mie, si
moderava nei gesti e pretendeva che il mio comportamento si adeguasse
al suo», Hashirama lasciò vagare lo sguardo sulle
increspature
dello stagno, riconoscendo in un'ognuna le asperità del
carattere di
Mito Uzumaki.
«Come biasimarla? È saggio
essere prudenti, in amore come in battaglia».
«Ora lo vedi perché siete
simili?» rise il capo clan. «Adesso capisco come ho
vinto la sua
resistenza, portandola ad accettare un nuovo incontro. Anche se non
credo che voi due potreste mai andare d'accordo».
Hashirama
incrociò le braccia dietro la schiena e prese a passeggiare
sull'engawa,
ritrovando la consueta moderazione; toccava a Madara mostrarsi
impaziente di proseguire il dialogo.
«Hai intenzione di spiegarti?»,
chiese visibilmente seccato, seguendolo a ruota.
«Siete fiamme
che hanno
bisogno che il legno le accolga per ardere. Ma, bruciando con la
stessa intensità,
l'incendio
è l'unico esito possibile».
* * *
8 maggio 1179, Heian-kyo, residenza dei Senju
Le lanterne illuminavano il sentiero lastricato di ciottoli e ghiaia su cui i passi di Mito rimbombavano sicuri, dirigendosi verso la figura di spalle al centro del giardino.
Gli astanti si strinsero in un religioso silenzio, mentre la futura sposa li superava decisa, avvolta nel tradizionale shiromuku bianco, e raggiungeva Hashirama, rischiarato appena dai riverberi dorati dei lumi.
I due si riconobbero con una delicata stretta di mano, troppo intima perché qualcuno dei presenti osasse violarla con uno sguardo di troppo.
Gli occhi di tutti i partecipanti alla cerimonia erano catalizzati dall'alchimia vibrante tra gli sposi e brillavano dei colori tenui degli alberi di albicocche che incorniciavano le nozze.
Un solo paio di occhi – più tetri di un cielo senza stelle – non condivideva l'euforia generale, incapace di andare oltre quel viso che per la prima volta scorgeva.
Il Fuoco riconobbe il suo simile e la combustione non lasciò altro che braci spente.
~
«Credo di aver già conosciuto
tutti, Hashirama!», protestò Mito, stremata dal
giro di
presentazioni con il clan Senju in cui suo marito l'aveva trascinata.
«Non tutti», sorrise di rimando
il novello sposo, mentre scandagliava ogni angolo del giardino alla
ricerca dell'ultimo invitato che mancava all'appello. «Cerca
di
essere gentile», la ammonì bonario, una volta
incontrato lo sguardo
del suo fido secondo, più distante di quanto si aspettasse
di
trovarlo.
La coppia gli fu accanto in pochi
passi, troppo pochi perché Madara
potesse sottrarsi alla loro
intrusione.
«Non sei un tipo da cerimonia,
avrei dovuto aspettarmelo», lo derise Hashirama, indicando
con un
gesto della mano l'ingresso del tempio shintoista in cui l'Uchiha si
era rifugiato.
«Nemmeno un tipo da preghiere»,
replicò con un ghigno Madara, «dubito che possano
davvero fare
qualcosa per me».
«Chi può, allora?»
Mito s'intromise nella
discussione, leggera e pungente allo stesso tempo, sfidando l'uomo
appena incontrato con uno sguardo fermo e autoritario. «Gli
uomini,
forse?», obiettò, inarcando un sopracciglio.
«Una divinità inesistente,
forse?», rilanciò ombroso il generale, drizzando
la schiena.
«Farò finta di non aver
sentito», ridacchiò Hashirama, il cui buonumore
era incrollabile
quella sera. «Potrei incarcerarti per blasfemia,
lo sai».
«Sì, certo», Madara si unì
alla risata spensierata del suo migliore amico, rimanendo
però
guardingo per esaminare il comportamento austero della donna.
«Non devi essere per forza un
tipo da preghiere», continuò Mito e in un attimo
il suo tono di
voce schiarì ogni velo di scherno. «Ma credere in
una giustizia
divina è l'unica difesa che abbiamo per i mali
terreni».
«Preferisco fare affidamento
sulla mia giustizia», rispose l'Uchiha,
facendo correre la
mano sull'elsa della spada, riposta nella custodia al suo fianco.
«È
di gran lunga più efficace per i mali terreni, principessa».
Mito
abbozzò un sorriso, avvicinandosi ancora di più
alla figura che gli
stava davanti. Madara, di contro, s'irrigidì ulteriormente,
osservandola circospetto.
«Il
tuo metro di giudizio è fallace. Ne rimarrai ucciso»,
gli sussurrò all'orecchio in un sibilo, prima di accostarsi
nuovamente a suo marito.
Madara
la fissò inebetito – il profumo della sua pelle
gli stordì i
sensi, le sue parole gli pugnalarono il cuore.
«E
io non sono la tua principessa».
* * *
18 settembre 1179, Heian-kyo, residenza dei Senju
Mito sorseggiò senza
fretta il
primo tè del mattino, mentre passeggiava nei dintorni della
villa
dei Senju, sua nuova casa da ormai qualche mese.
Il vagare senza meta dei suoi
passi la condusse alle porte delle stanze riservate all'esercito che
Madara Uchiha aveva insistito per adibire a campo di addestramento
per le reclute e di allenamento per i veterani.
Il sole era sorto da poco e si
contendeva lo stesso frammento di cielo roseo con una pallida luna,
prossima a sbiadirsi; Mito adorava quel momento del giorno, le faceva
credere che tutto fosse possibile.
«Cosa ci fai qui, principessa?». Sebbene la donna odiasse il soprannome, Madara non aveva smesso di
riferirsi a lei con quell'apostrofe, quando Hashirama non era nei
paraggi per rimproverarlo.
«Devo forse rendere conto a te
dei miei spostamenti?», lo interrogò fiera
l'altra, distogliendo lo
sguardo dal cielo per puntarlo sull'uomo che le stava venendo
incontro. Non senza imbarazzo, notò la muscolatura ben
definita del
samurai che, privo di indumenti, iniziava i suoi allenamenti
mattutini.
«Qualcosa ti turba?», la derise
Madara, notando il lieve rossore di cui si erano imporporate le
guance della donna, solitamente riluttante a scomporsi per qualunque
motivo.
«Affatto», rispose Mito,
scrollando il capo e riappropriandosi della propria dignità.
«Questo non è posto per te.
Torna in casa», tagliò corto Madara, decisamente
restio all'idea
che Hashirama potesse attribuirgli la colpa per quella gita
fuori
porta della moglie.
«La guerra non è posto per
nessuno. Nemmeno per uno come te».
«Io sono nato per questo
destino», ribadì il generale, brandendo con presa
più salda la
spada.
«Ti sbagli. Tu non sei un
portatore di morte, per quanto ti sforzi di dimostrare il
contrario».
* * *
11 ottobre 1179, Heian-kyo, mercato est
«Ripetimi ancora una volta
perché sei qui».
«Perché si dà il caso che tuo
marito abbia un certo potere su di me e possa costringermi anche a
questo», sbuffò annoiato
Madara, indicando con un gesto
eloquente della mano il mercato in cui essere la scorta di Mito
l'aveva condotto. «E i Taira hanno già colpito
qualcuno dei nostri
in momenti simili, non gli è parso il caso di
rischiare», aggiunse
più serio, aguzzando la vista tra la folla che si accalcava
tra le
bancarelle variopinte.
«E tu sei d'accordo con lui,
vedo», annuì Mito, accennando con uno sguardo
discreto ai samurai
in incognito, scelti personalmente da Madara per quell'incarico di
sorveglianza. «Non sarà che ti preoccupi per la
mia incolumità,
dopotutto?»
«Sinceramente, non credo che una
spada possa ucciderti», le rispose, fissandola accigliato.
«Cosa, allora?», domandò
l'Uzumaki, interessata al parere dell'altro. Non poteva negare di
trovare stimolante – attraente
– quella continua sfida
verbale con l'Uchiha.
Madara sorrise appena nel capire
di avere il coltello dalla parte del manico e approfittò
della calca
per farsi un passo più vicino; le sfiorò appena
la mano, per
convincersi di avere la sua più completa attenzione.
«Un amore che ti costringa a
rivalutare te stessa e quello in cui credi. Ne rimarrai uccisa»,
le sue parole non furono più che un soffio nel lobo di Mito,
ma lei
rabbrividì all'istante nel riconoscere la stessa perifrasi
che aveva
utilizzato il giorno del loro prima incontro.
Madara non credeva nelle
preghiere, ma quella notte provò sul serio ad appellarsi a
un aiuto
divino; sapeva di essersi spinto oltre quel
confine che
nessuno dei due era mai riuscito a definire con chiarezza.
Da lì, non potevano più fare
ritorno.
* * *
22 dicembre 1179, Heian-kyo, residenza dei Senju
«Ora basta temporeggiare,
Hashirama. Il nuovo anno è alle porte, così come
l'esercito dei
Taira. I tuoi uomini sono impazienti di prendersi la loro
vendetta».
La consueta passeggiata mattutina
tra i sentieri del giardino innevato aveva fatto presto a
trasformarsi in un consiglio di guerra, sebbene Hashirama avesse
tentato di posticipare quel momento il più possibile.
Madara aveva ragione, lo sapeva,
ma era forse da stolti desiderare che la felicità da poco
raggiunta
durasse in eterno?
«Perché fremi tanto
dall'impazienza di versare il sangue di altre vite umane?»
chiese,
ma il suo tono non era di accusa, piuttosto animato da sincera
curiosità.
L'Uchiha si trattenne dal
rispondere, distratto dalla figura inginocchiata, oltre il vetro
della finestra, che sistemava i fiori appena recisi secondo l'arte
dell'ikebana. La osservò per pochi
secondi; infondeva
vita, con i gesti sapienti delle mani, in creature ormai
morte.
«Perché spero di versare il
mio».
Perché
sono pronto a subire qualunque tormento, ma non questo.
* * *
15 giugno 1189, castello di Koromogawa
Dal
giorno in cui la vidi, il mio animo non conobbe pace.
Ogni
anno, in me si accese un fuoco diverso – quanto a lungo
può durare
lo strazio di un cuore lacerato?
* * *
7 febbraio 1180, battaglia di Uji
Il stanco
incedere di Madara si trascinava in quel cimitero di cenere e ossa,
alla ricerca di un paio di occhi – era utopico sperare di
trovarne
di più – in cui si riflettesse un barlume di vita.
Il suo sguardo,
ancora accecato dalla polvere sollevata nel campo di battaglia,
soppesava amaramente i corpi dilaniati e scomposti degli uomini
–
dei ragazzi – trapassati dal ferro nemico.
Alla sua
destra scorse suo fratello minore Izuna, accovacciato accanto a un
giovane soldato cui non restavano che pochi istanti, prima di
naufragare nel silenzio eterno.
I due
fratelli si scambiarono un'occhiata fugace; “Allora?”
-
“Non sopravviverà alla notte.”
Il maggiore
degli Uchiha annuì cupo e passò oltre, tornando
ad affogare nel
mare spettrale della morte.
Non
riconobbe l'esatto momento in cui desiderò esserne parte
– non
spettatore – ma avvertì l'oscura e ingombrante
esistenza di quel
pensiero funereo.
Qualunque
tormento, ma
non quello che lo
attendeva al suo ritorno a casa.
* * *
16 febbraio 1180, Heian-kyo, residenza dei Senju
«Nonostante
la sconfitta, sei ancora vivo, vedo».
«Sì ed è
la mia colpa».
«Anche la
mia».
Mito non lo
guardava, sebbene sentisse gli occhi dell'Uchiha profanarle la pelle
– scavavano sotto la stoffa – e
contaminarle il cuore col
desiderio. Teneva il viso rivolto verso il riflesso della luna nello
specchio d'acqua turchese; si rifugiava in fittizi ologrammi per
scampare alla vivida realtà del tradimento.
«So a cosa
stai pensando», Madara prese l'iniziativa, prendendole il
volto tra
le mani – purezza che s'incrinava al contatto con la
bestia.
«Le mie labbra non hanno mai conosciuto le tue, Mito. Tu non
hai
peccato».
«Vorrei
che fosse vero», sorrise amaramente l'Uzumaki, «ma
il mio petto ti
ha già accolto da tempo e non esiste, per noi mortali, forma
di
tradimento più imperitura».
* * *
2 giugno 1181, Ohara, tempio Sanzenin
«Quando?»
«Tra due
settimane».
L'estate colorava le foglie d'acero di venature castane; la natura effimera del tempo bussò alle porte degli amanti infelici.
«Cerca di
non tornare».
«Ci provo
ogni volta».
Il muschio
umido rinfrescava il marmo – già gelido
– delle statue di Jizo;
la sposa del vento(**) fu senza pietà.
«Questo è
il nostro ultimo incontro».
«Permettimi
di dirti addio, allora».
I raggi dorati filtravano tra le fronde degli alberi; le bocche si saggiavano per la prima volta e le lingue si esploravano avide, le mani s'intrecciavano ai capelli e i bacini aderivano con foga.
«Addio».
L'ultimo sospiro contro la pelle dell'altro; poi, più nulla.
* * *
5 agosto 1183, Heian-kyo, residenza degli Uzumaki
Nanami
Uzumaki aveva sognato, sin da bambina, il momento del suo miai;
non passava giorno senza che lei controllasse meticolosamente il
vestito che avrebbe indossato, cui era stato riservato un posto
d'onore all'interno dell'armadio.
Ma
tutti quei riti infantili perdevano di colpo la loro importanza,
quando Nanami
osservava il sorriso spento di sua sorella maggiore, l'unica che
aveva voluto al suo fianco nella cerimonia di preparazione.
«Se
con me non ha funzionato, non vuol dire che anche il tuo matrimonio
debba finire allo stesso modo», cercò
d'incoraggiarla Mito, ma
nulla riusciva a placare il tremolio spaventato delle mani della
più
piccola delle Uzumaki.
«Quando
hai capito di esserti innamorata del suo migliore amico,
oneesan?»
* * *
21 febbraio 1184, Ōtsu, battaglia di Awazu
Il
corpo della donna samurai troneggiava tra i cadaveri dei nemici, la
freccia scagliata da Izuna piantata nel cuore.
«Ho...ucciso
una donna», continuava a balbettare l'Uchiha, sorretto a
fatica dal
braccio saldo di suo fratello.
«Non
potevamo aspettarci che Tobirama ci avrebbe traditi»,
sentenziò
impassibile Hashirama, mentre esaminava con un'espressione
imperscrutabile il volto della donna che aveva da sempre considerato
parte della famiglia. «Dopo aver finalmente sconfitto i
Taira, non
credevo che mio fratello
mi si sarebbe rivolto contro».
«Nessuno
poteva saperlo», tentò Madara, ma il Senju non
rispose, mentre
chiudeva le palpebre del suo otouto,
donando
loro il sonno eterno.
Hashirama
lasciò il campo e si ritirò nelle sue tende, con
l'unico desiderio
nel cuore di fare presto ritorno a Heian-kyo per abbracciare sua
moglie.
Madara,
al contrario, si attardò ancora qualche minuto a contemplare
i resti
delle due persone con cui aveva combattuto fianco a fianco la maggior
parte delle battaglie, in quegli ultimi anni.
Tomoe
e Tobirama, insieme, erano invincibili; di una precisione letale
negli attacchi combinati, rappresentavano la loro arma offensiva
più
potente.
Quel
giorno, Madara invidiò la loro morte – a lui non
sarebbe mai
toccata la fortuna di condividere il riposo celeste con la donna di
cui s'era infatuato.
Quel giorno, Madara desiderò che al posto del corpo esangue di Tomoe Gozen ci fosse quello di Mito Uzumaki.
* * *
25 aprile 1185, Shimonoseki, battaglia di Dan-no-ura
La
guerra quinquennale era finita.
Aveva
causato innumerevoli ferite – alcune più visibili
di altre – e
lacerato più vite di quante avrebbero annoverato i libri di
storia,
ma era finita.
Madara
era crollato in ginocchio davanti al
suo
signore,
il sapore amaro della confessione ancora pungeva le labbra tremanti.
La
postura diritta di Hashirama non lasciava trapelare alcuna emozione,
per quanto Madara avrebbe preferito di gran lunga essere giustiziato
sul posto, piuttosto che condannato a una vita di espiazione e
vergogna.
«Torna e dille addio. Poi fuggi, il più lontano che puoi, e spera che io non ti trovi mai».
3 maggio 1185, Heian- kyo, Residenza dei Senju
«Dimmi,
sei forse immortale?»
«Sarebbe
la mia paura più grande».
«Dov'è
Hashirama?»
«Mi
ha detto che sarebbe rientrato un giorno più
tardi».
Mito
annuì, riponendo ordinatamente il futon
nell'armadio; tutto, pur di non incrociare quello sguardo.
«Gliel'hai
detto, non è così?», non
intendeva incolparlo, ma soltanto conoscere la verità.
«Che
ho baciato sua moglie? Sì», rispose l'altro senza
battere ciglio.
«Che lei ha risposto al mio bacio? No»,
confessò infine.
«So
difendermi da sola, Madara», ribatté la donna con
una punta di
orgoglio.
«Credimi,
lo so bene».
In
tutti quegli anni, nessuno dei due aveva mai versato una lacrima
–
né per il senso di colpa, né per il sentimento
che provavano l'uno
per l'altra. Entrambi etichettavano le lacrime come umane debolezze,
per loro che non appartenevano alla sfera terrena; un
demone
e una
divinità,
sebbene ciascuno si rivolgesse a se stesso con il primo appellativo.
Ma
in quel momento, Mito desiderò essere semplicemente ordinaria,
una mortale come tante capace di piangere. E, neppure allora, le sue
guance s'imbrattarono di gocce diamantine.
«Ogni
volta che ti ho detto addio, non ho mai creduto che tu potessi non
tornare», dichiarò, alzando il viso verso il
compagno. «Ma ora è
davvero per sempre».
Madara
desiderò abbracciarla – farla
sua
una prima e ultima volta – ma rispettò la sua
distanza e si limitò
a restare in silenzio, annuendo a quelle
parole.
«Neanche
adesso mi dirai che mi ami, vero?», Mito sorrise del
suono
puerile della sua richiesta, ma non se ne vergognò.
«Io
non ti amo», replicò Madara, stizzito che la donna
potesse pensare
il contrario.
«Oh,
io sì, invece», ammise lei, tentando un primo
passo nella direzione
dell'altro. «E credimi, mi strapperei volentieri il cuore dal
petto,
se tanto bastasse per smettere».
L'uomo
non aspettò un ulteriore avvicinamento; le si accostò
bruscamente e la baciò con irruenza, sorprendendosi di
trovare le
labbra di
lei
già pronte per accogliere le proprie. Le schiusero entrambi
nello
stesso istante, permettendo alle loro lingue d'intrecciarsi con foga,
mentre con una mano svestivano l'altro – o
se stessi?
– degli indumenti; il cotone soccombeva alla carne con
arrendevolezza.
Il
pavimento li accolse con livore, restio a ospitare chiunque non
riconoscesse come padrone, ma
gli amanti infedeli non si curarono della superficie gelida e
inospitale che considerarono solo una minima parte della meritata
punizione.
Con
quella
bocca sottile che
non conosceva gentilezza,
Madara reprimeva sul nascere i gemiti impastati di Mito e li
canalizzava nel proprio corpo, dove essi si condensavano in un unico
e immenso piacere.
I
muscoli – effimera
e apparente facciata del proprio animo
– erano tesi, mentre la sovrastava e la possedeva, ma
la mente –
più profonda espressione del suo sentimento –
era sgombra da qualunque pensiero.
Tennero
gli occhi aperti per tutto il tempo, per timore di perdere anche una
sola espressione di estasi dell'altro; assassini
spietati
che godevano nel lacerare l'unità
indissolubile di
un corpo sotto
i colpi brutali del proprio basso
ventre.
Le
unghie di entrambi squarciavano l'epidermide, desiderando intaccarne
l'integrità per raggiungere al più presto la meta
tanto ambita;
il
muscolo cardiaco di
Mito palpitò
furiosamente
quando Madara esplorò con la lingua i suoi seni torniti e un
nuovo
lamento si fece strada tra i suoi denti serrati.
Questa
volta, l'uomo lasciò che l'orgasmo esplodesse in lei e lo
accompagnò
involontariamente con un fremito d'eccitazione che non
riuscì a
placare.
Mito
si morse il labbro inferiore, nel tentativo – fallito
– di porre
un freno al suo appagamento; persino in quei momenti non rinunciava
al
contegno che la caratterizzava.
I
primi raggi del sole schiarirono i loro corpi nudi e la
contemplazione di quella nuova alba concesse loro di riprendere
fiato.
«Quando
ti troverà, lui ti ucciderà».
«So
bene anche questo».
«Adesso
vorrei che tu fossi immortale».
«Sarebbe
la mia paura più grande».
15 giugno 1189, castello di Koromogawa
Non
ho mai messo in discussione l'amore che provavo per te, Hashirama;
amarti era facile, veniva naturale a chiunque incrociasse il tuo
cammino.
Eppure,
mi sono sempre chiesto: “Chissà
se l’amo?”
Era
forse possibile, amare qualcuno all'infuori di te? Qualcuno che fosse
te e me insieme, qualcuno che sapevo di detestare con tutto me
stesso, qualcuno che ci comprendesse e ci dividesse allo stesso
tempo?
È
un dubbio che m’accompagnò per tutta la vita e
oggidì posso
pensare che l’amore accompagnato da tanto dubbio sia il vero
amore.
(***)
A
te dono ciò che resta della mia anima; è qui,
nera come
l'inchiostro di cui mi sono servito per raccontarla.
E
ora che anche Izuna è caduto – estremo baluardo,
ultima roccia a
cui aggrapparmi – il mio epilogo deve fare il suo corso; la
lama
brama di scavare la carne.
“Resterai ucciso dal tuo senso di giustizia”, mi disse il giorno che la incontrai; forse solo ora capisco che mai ci fu anima più affine alla mia.
Se puoi, perdonami.
Madara Uchiha
5 agosto 1183, Heian-kyo, residenza degli Uzumaki
«È stato nel giorno del mio matrimonio. Il Fuoco riconobbe il suo simile e la combustione non lasciò altro che braci spente».
Sopra
livide rupi
precipita
ebbra di morte
l’ardente
sposa del vento.
(****)
* * *
Note dell'Autrice:
La storia partecipa all' "Abnormalize - crack pairing multifandom contest" indetto da Amens Ophelia sul Forum di EFP.
Mi scuso già da ora per questa note piuttosto prolise e dettagliate, ma, trattadondosi di un'AU storica, ho ritenuto necessario fornire ai potenziali lettori tutte le informazioni necessarie per inquadrare contesto storico e protagonisti. Siete liberissimi di saltare in toto quanto segue - tanto più che non credo la mancata lettura delle note infici in qualche modo la comprensione del testo; ci tenevo soltanto a sottlineare che ogni personaggio di questa fanfiction prende ispirazione da personaggi storici realmente esisiti.
-
Rapido glossario dei termini giapponesi presenti nel testo:
-
gyokuro:
pregiata varietà di tè verde giapponese.
-
seiza:
tradizionale posizione in ginocchio.
-
miai:
giorno del primo appuntamento ufficiale tra i due futuri sposi,
secondo l'antica usanza del matrimonio combinato.
-
engawa:
veranda.
-
shiromuku:
tradizionale abito da sposa.
-
ikebana:
arte giapponese della disposizione dei fiori recisi secondo i
principi dello zen.
-
futon:
materasso tradizionale giapponese.
-
Contesto storico:
La storia s'interseca con la storia del clan Minamoto, seguendo gli sviluppi della Guerra Genpei (1180-1185); nella mia fanfiction, ho semplicemente modificato i nomi di personaggi storici realmente esistiti, servendomi della caratterizzazione dei personaggi dell'opera di Naruto.
Passo a presentare brevemente i protagonisti delle vicende:
Yoritomo
Minamoto [Hashirama Senju]: capofamiglia
del clan Minamoto e capo dell'esercito nella lunga
guerra civile contro il clan Taira. Dopo aver vinto trionfalmente
nella battaglia conclusiva a Dan-no-ura, prende il titolo di shōgun
nel 1192 e fonda lo shogunato di Kamakura.
Yoshitune
Minamoto[Madara Uchiha]: fratellastro
(nella storia: amico fidato e “fratello” non di sangue)
di Yoritomo e
generale del clan Minamoto. Ė passato alla storia per le eccezionali
abilità militari e strategiche – fu lui a ideare
la tattica
vincente a Dan-no-ura – e per l'altrettanto famosa morte
cruenta.
Dopo aver ingaggiato una guerra fratricida con Yoritomo (nella
storia: causata dal suo rapporto con Mito), viene costretto al
seppoku nel castello di Koromogawa.
Masako
Hōjō [Mito Uzumaki]: sposò
Yoritomo nel 1179. Il loro matrimonio aveva chiara valenza politica,
per garantire ai Minamoto l'appoggio del clan Hōjō.
Saitō
Benkei [Izuna Uchiha]: leale
sottoposto (nella
storia: fratello) di
Yoshitune, ha collezionato innumerevoli imprese al suo fianco. Muore
mentre il suo signore sta praticando seppoku all'interno del
castello, colpito da mille frecce mentre difende il ponte d'ingresso
dai nemici.
Yoshinaka
Minamoto
[Tobirama Senju]: cugino (nella
storia: fratello) di
Yoritomo e marito di Tomoe, sfida (e
tradisce) Yoritomo
per il titolo di shōgun.
La morte lo coglie il 21 febbraio 1184, nella battaglia di Awazu.
Tomoe Gozen [Tomoe Gozen]:
coraggiosa e leggendaria donna samurai che ha
combattuto al fianco di suo marito nella Guerra del Genpei,
rivelandosi un'abile spadaccina. Non
si hanno notizie certe sulla morte, dunque mi sono attenuta a una
delle tante versioni possibili, secondo la quale ella sarebbe morta
nella battaglia di Awazu.
Ho fatto ricerche su milioni di altri siti, dunque non mi pare il caso di elencarli – e linkarli -tutti xD
Tutte le date e i luoghi delle battaglie – così come quelli del seppoku di Yoshitune e della morte di Benkei– sono storicamente esatti; le date e i luoghi relativi alla – fittizia – storia d'amore clandestina tra Masako Hōjō e Yoshitune Minamoto sono di mia invenzione, così come il personaggio di Nanami Uzumaki.
-
Spiegazione del titolo e riferimenti al dipinto “La sposa del vento”:
Perché
Hiems
alma;
tempesta che infonde vita?
L'ossimoro
del titolo è voluto per due ragioni fondamentali:
1-
è riflesso della nevrosi e della psiche scissa –
tra ragione e
sentimento, passione e colpa – di Madara Uchiha (e di Zeno,
le cui
parole si ritrovano nella lettera che il protagonista scrive ad
Hashirama).
2-
"Ecco
la sposa del vento, matrice e culla elementare, grembo
d’energia
perpetua che in eterno distrugge e rigenera."
Ho riportato un estratto significativo di questo
articolo
che propone un'analisi davvero interessante del dipinto "La
sposa del vento" di Oskar Kokoschka, ispirazione dell'intera
storia. La
sposa del vento è Mito che infonde vita in anime morte
– i fiori,
Madara – e al contempo è foriera di guerra e
distruzione – il
conflitto tra Hashirama e Madara, il senso di colpa di quest'ultimo e
il suo seppoku.
Ho
scelto questo titolo per altri due motivi:
1-
Alma è il nome della donna amata dal pittore, rappresentata
appunto
ne “La sposa del vento”.
2-
“La tempesta” era il titolo provvisorio scelto da
Kokoschka per
il dipinto.
-
Citazioni:
* : Parte dell'elegia funebre composta dalla poetessa araba al-Hansā', in memoria della morte di uno dei suoi fratelli.
**: Riferimento al dipinto “La sposa del vento”.
***: Riporto la citazione senza interruzioni, tratta da “La coscienza di Zeno” (I. Svevo): “Chissà se l’amo? È un dubbio che m’accompagnò per tutta la vita e oggidì posso pensare che l’amore accompagnato da tanto dubbio sia il vero amore.”
****: Parte della poesia “La notte”, composta di getto dal poeta Georg Trakl davanti al dipinto di Kokoschka e ispirazione per il titolo dello stesso.
Vi saluto con affetto e vi lascio un link a un'altra versione possibile di questo triangolo (MadaHashi, 'stavolta!), sperando che possa incuriosirvi (Eucrasia).
Ayumu