“È
già passato un mese.”
Penso,
con la testa appoggiata al
finestrino del solito autobus delle otto e cinquantotto. Mi
riferisco alla mia laurea o più in
particolare, alla sua proclamazione. Ci ho messo veramente tanto tempo,
troppo,
per laurearmi e non ho scuse né faccio sforzi per
inventarmene perché la verità
è che sono pigra, incredibilmente, stupidamente e
assurdamente pigra. Va bene,
qualche volta dei professori mi hanno volutamente messo i bastoni tra
le ruote
e mi hanno rimandata a casa con un sorrisino beffardo e la loro
canonica frase:
“Fossi in lei mi ripresenterei.” Ma nella maggior
parte dei casi sono stata io
stessa a mettermi i bastoni tra le ruote non studiando, evitando di
aprire
libri lunghi e tediosi solo per antipatia o noia oppure preferendo
altre
inutili attività quali: scrivere una delle mie insensate
fanfiction su Glee
oppure fare una partita di sei
ore
filate a The
Sims. Partita che, tra
parentesi, veniva interrotta solo dall’ennesimo errore di
insufficienza di
memoria ram del mio ormai obsoleto pc.
Sì,
è passato un mese dal quel
giorno atteso per anni e poi rivelatosi talmente breve ed
insignificante. Ho
indossato giusto ieri la maglietta blu ordinata da un negozio online
con la
scritta: “Trust me, I’m the Doctor” e il
disegno stilizzato della famosissima
cabina blu, in quel caso bianca, riferimento al telefilm Doctor Who
e comprata appositamente per essere sfoggiata una volta
ottenuto il diploma di laurea. Ovviamente nessuno aveva capito il
riferimento e
non avevo dubbi che fosse così insomma, la gente
là fuori ha una vita che
comporta amici, uscite sociali frequenti e feste, nessuno ha realmente
tempo
per incollarsi davanti ad uno schermo del pc e lasciarsi rapire da
storie su
alieni umanoidi e buffi ometti che viaggiano nello spazio a bordo di
una
gigantesca cabina della polizia! Nessuno a parte me e una schiera di
nerd
asociali, si intende.
Avendo
impiegato così tanto tempo
a laurearmi, credevo che la ricerca del lavoro sarebbe stata stancante,
interminabile e per diverso tempo infruttuosa: mi sbagliavo. Il giorno
successivo alla proclamazione della laurea, mi è stato
proposto un lavoro come
traduttrice da una piccola casa editrice emergente, a Milano. A quanto
pare le
nottate trascorse a tradurre capitoli di romanzi americani mai tradotti
in
Italia da pubblicare gratuitamente ma illegalmente sul web, avevano
attirato
attenzioni favorevoli, offrendomi questa meravigliosa
opportunità. Pare
che queste persone seguissero
assiduamente il mio
blog, conoscendo
anche il più irrilevante dettaglio della mia vita
perché si dà il caso che io
sia una di quelle persone che si fanno ben pochi scrupoli a scrivere
anche il
più patetico dettaglio della propria vita sul web. Sanno che
sono figlia unica
e fiera di esserlo, che ho un bouledogue francese di sei anni di nome
K-9 (sì,
sempre Doctor
Who, lo so!), che sono
amante del rosa, dei peluche, che ho un’insana ossessione per
gli uomini over
cinquanta come Colin Firth e Mark Harmon e un altro centinaio di
imbarazzanti
dettagli personali. Considerato tutto ciò che ho scritto in
quel blog, a questo
punto, credo che nemmeno i miei genitori mi conoscano bene quanto i
miei futuri
datori di lavoro e il mio primo istinto dopo quella telefonata
è stato di
rinunciare al colloquio. L’idea che sapessero anche la mia
taglia di reggiseno
(sì, ho scritto un post del tutto insensato nel quale
elogiavo una specifica
marca di biancheria intima economica) mi imbarazzava. Per fortuna quel
briciolo
di buon senso e di decenza che ancora dimora nel mio cervello mi ha
spinta a
valutare la cosa con obiettività, arrivando alla conclusione
che questo lavoro
potrebbe essere la mia grande opportunità, il famoso “treno che passa una volta sola
nella vita”. Dopotutto
ho studiato le lingue straniere per
anni, amo leggere e amo tradurre, quali sono le possibilità
che mi venga
proposta un'altra offerta simile? Con la crisi economica, la
disoccupazione
giovanile ai massimi storici e la carenza generale di posti di lavoro,
sarebbe
stato davvero una follia rifiutare.
Ciò
non toglie il fatto che il
colloquio mi terrorizzi. Non ne ho mai fatto uno in vita mia e ho paura
di cosa
potranno chiedermi, considerato che praticamente ogni dettaglio della
mia vita
è già in loro possesso. Sapranno anche cosa sto
indossando in questo momento,
perché ignorando il fatto di essere costantemente seguita e
letta, ho dedicato
un intero post ad un fantomatico “outfit da lavoro”
accompagnato da una decina
di foto di me, la mia camicetta verdeacqua, il mio tailleur beige e una
rispettabilissima riproduzione di decolleté da haute
couture. Ho dimenticato
però di fotografare la borsa.
“Non sapranno che borsa
avrò con me!”
Penso
soddisfatta, rendendomi
conto solo pochi istanti dopo di quanto stupida sia questa mia
costatazione. Mi
sento agitata e una parte di me vorrebbe mandare all’aria
tutto quanto e
gettarsi nel primo negozio disponibile ed economico di Galleria
Vittorio
Emanuele (probabilmente H&M) dentro al quale soffocare ogni mia
preoccupazione tra un jeans skinny e una minigonna plissettata.
Cercando di
calmarmi, scorro rapidamente la playlist del mio ipod, sperando di
trovare la
canzone giusta per quel momento. Se i film romantici e le innumerevoli
commedie
americane che ho visto nei miei venticinque anni di vita mi hanno
insegnato
qualcosa, ad un certo punto troverò il pezzo giusto che mi
accompagnerà per
tutto il tragitto rimanente, introducendomi alla scena successiva di
questa mia
imprevedibile giornata. Trovo almeno un paio di brani che sarebbero
praticamente perfetti per ma alla fine opto per “Mr Blue
Sky”, riprodotto
almeno un centinaio di volte dal giorno del suo trasferimento
nell’ipod.
È il mese di
gennaio, sto andando a Milano,
percorrendo un lungo tratto di strada completamente avvolto nella
nebbia, ma
inizio a sentirmi bene a credere che riuscirò a vedere il
mio cielo azzurro,
prima che questa giornata giunga al termine.
Mentre
proseguo il viaggio a
bordo della metropolitana, stento a credere che tutto quanto sia reale,
che non
si tratti di uno dei miei soliti sogni ad occhi aperti. Constatato di
trovarmi
schiacciata contro una parete del vagone della metro da almeno quattro
persone
ben più alte e corpulente di me e non sul morbido lettino
della mia cameretta,
prendo finalmente contatto con la realtà. Sto andando al
primo colloquio della
mia vita, mi verrà offerto un lavoro coerente con il mio
percorso di studi e a
rendere tutto ancor più straordinario, gli uffici della casa
editrice dove
potrei iniziare a lavorare già da domani, si trovano a San
Babila, nel pieno
centro di Milano tra lusso, alta moda, negozi e sfarzo, come ho
desiderato dal
primo giorno nel quale ho iniziato a studiare lingue alla Statale.
Inizio a
sospettare che possa esserci qualcosa sotto. Non mi è
possibile credere che
tutto sia realmente bello come sembra. Potrebbe trattarsi di una
truffa,
potrebbe essere un’imboscata tesami dalla Finanza per aver
violato, credo,
almeno una ventina di diritti d’autore, traducendo
sfrontatamente libri
stranieri trovati online. In
fondo, per
quanto emergente e minore possa essere, quale casa editrice chi
sceglierebbe ma
il nome “In
Libro Veritas” senza
pentirsene? Per quale motivo scegliere un nome tanto lungo e sciocco?
Credo che
nemmeno un generatore random di nomi sarebbe stato in grado di
partorire un
titolo simile.
Alzo
lo sguardo per cercare di
scorgere lo schermo indicante le fermate della metropolitana. Non
è la prima
volta che, troppo presa dai miei pensieri, mi capita di non accorgermi
di
essere giunta a destinazione. Generalmente me ne rendo conto solo
quando le
porte del treno si stanno per chiudere, ormai troppo tardi anche per
tentare di
scendere con un improbabile scatto felino. A tale proposito, sono
pressoché
sicura che se la casa editrice non si rivelerà una truffa,
riuscirò a dare il
meglio di me in una delle mie celebri figuracce che vantano: inciampare
da
ferma nei miei stessi piedi, urtare qualcuno o qualcosa, impigliare
borsa o
capi d’abbigliamento in maniglie, spigoli o qualsiasi
superficie sporgente nei
paraggi oppure aprire la borsa al contrario, rovesciando a terra tutto
il suo
contenuto (compresi fazzoletti usati, assorbenti e carte di caramelle
ammuffite). Non avevo valutato la mia sbadataggine, scegliendo
l’abbigliamento
per il colloquio del quale tanto mi ero sentita fiera scrivendo un post
sul mio
blog. Optando per modeste ma ben più comode e sicure
ballerine avrei ridotto la
possibilità di inciampare del 60%, lo stesso vale per la
gonna per colpa della
quale sono stata costretta ad indossare delle collant. Non ho dubbi che
le
calze si smaglieranno,
rimanendo impigliate
in qualche sedia e il rischio che mi trovi con un bel buco sulla
coscia proprio nel momento del
colloquio è altissimo. Le persone non mi credono quando
racconto loro delle mie
rocambolesche avventure e a volte stento crederci io stessa nel
raccontarle
eppure nonostante cerchi di fare attenzione, non smettono di
verificarsi. Nel
corso degli anni, però, ho imparato ad accettare questa mia
goffaggine,
cercando di sdrammatizzare e di vederla come una mia caratteristica,
una
peculiarità che mi rende unica. Meno male, aggiungerei,
perché dubito che al
mondo possa essere stato creato un altro essere umano altrettanto
sprovvisto di
grazia e con un equilibrio pressoché inesistente.
Uscendo
dalla metropolitana,
scelgo di prendere le due scale principali, che sbucano ai piedi del
Duomo.
Nonostante l’abbia visto in un centinaio di occasioni, non
posso fare a meno
che rimanerne rapita ogni qual volta me lo ritrovi di fronte:
così bianco,
imponente e luminoso, al punto di spiccare e farsi notare anche in
mezzo alla
nebbia. Quando arrivo in cima alla scala chiudo gli occhi e respiro
profondamente. Sono nata e vivo in un piccolo paese di provincia, in
campagna,
per me Milano è e resterà sempre emozionante, una
città viva, animata e ricca
di meraviglie. Mi sento così bene in mezzo a tutta quella
gente che mi sfreccia
affianco frenetica, spesso urtandomi. Mi sento libera
perché, a differenza di
dove abito io, posso camminare a testa alta senza il rischio di essere
giudicata e di sentire la pettegola di turno alle mie spalle prima
salutarmi e
sorridermi per poi criticare i miei vestiti, le mie scarpe o il mio
atteggiamento riservato e quindi considerato maleducato. Sì,
devo pur sempre
evitare lo stormo di piccioni svolazzanti e la schiera di
vucumprà che cercano
in ogni modo possibile e immaginabile di rifilarmi i famosi
braccialetti della
fortuna, anche lanciandomeli addosso, tuttavia è un prezzo
che sono disposta a
pagare.
Avendo
scelto di prendere
quell’uscita della metropolitana, sono costretta a percorrere
un pezzetto in
più di strada per arrivare a destinazione ma camminare per
me non è un
problema, specialmente perché la strada pullula di vetrine
sfavillanti e
tentatrici. Vetrine che mi limito ad osservare da lontano,
ripromettendomi di
entrare in quei negozi solo quando il mio colloquio sarà
terminato decidendo
quindi di premiarmi o consolarmi con un nuovo capo
d’abbigliamento o un nuovo
paio di scarpe. Una volta percorsa la galleria, arrivata in zona San
Babila,
estraggo dalla tasca del cappotto il cellulare che fino a quel momento
non ho
avvertito la necessità di controllare. Non conosco
l’indirizzo e mi trovo
quindi costretta a controllare sulla mappa. Accendendolo trovo la
solita sfilza
di messaggi e chiamate perse da parte di mia madre, altrimenti
definita: “l’incarnazione
umana del termine apprensione”. Sono figlia unica ed
è normale che tenga molto
a me e che si preoccupi ogni qual volta una mia risposta ad un suo
messaggio
arrivi in ritardo di anche solo cinque minuti, ritengo però
che quindici sms,
sei chiamate perse e due messaggi lasciati in segreteria con un mix tra
preoccupazione e insulti, molti insulti, siano eccessivi. Dopo averla
rassicurata per la millesima volta di essere ancora viva e non in mano
ad una
banda di terroristi internazionali pronti a chiedere il riscatto per
tenermi in
vita, posso finalmente tornare a concentrarmi sul motivo per il quale
mi trovo
a Milano quel giorno: il colloquio di lavoro. Seguo le indicazioni
sulla mappa
e mi trovo davanti ad un edificio di almeno venti piani, praticamente
identico
a qualsiasi altra struttura circostante. Accanto alle due porte di
ingresso, su
una parete, sono posizionate una dopo l’altra una serie di
targhe e placche
metallizzate che indicano tutte le attività commerciali
presenti in quello
stabile. Riesco a scorgere un dentista, un chiropratico, una decina di
avvocati, un paio di commercialisti, uno studio notarile e infine,
proprio in
cima e in un angolo abbastanza remoto ecco il nome: “In libro Veritas”
, una targa metallica stretta e lunga in rilievo
scritta in corsivo. Mi metto in punta di piedi per riuscire a toccare
la targa,
dubitando ancora che quel posto esista e che non sia la tanto temuta
imboscata.
Come ho appreso da Wile il coyote, mio concorrente su schermo di
sventure, la
pratica di creare cartelli fittizi e sostituirli a quelli originali
è molto in
voga quando si vuole tendere una trappola a qualcuno.
La
targa è reale, ovviamente. A
giudicare dalle condizioni del materiale sembra essere lì da
diverso tempo, il
che non fa che rassicurarmi. Inizio poi a pensare che una divisione
della
Finanza potrebbe comunque essersi messa d’accordo con i
proprietari di questa
attività, convincendoli ad invitarmi da loro e che una volta
varcata la soglia
di quel palazzo al di là del bancone della portineria che
intravedo dalle porte
vetrate, salterà fuori un uomo in divisa armato e pronto ad
arrestarmi. Do una
rapida occhiata all’interno dell’atrio, cercando di
non farmi notare dalla
signora della portineria. Dopodiché scoppio a ridere,
sorpresa dall’incredibile
dose di sciocchezze che il mio cervello è in grado di
generare in momenti di
ansia e stress, come questo.
-Posso
aiutarla?
Mi
chiede immediatamente la
signora della reception, vedendomi entrare timorosa. Prima di
risponderle accosto
la porta.
-Sì,
ehm… sto cercando gli uffici
della casa editrice: “In
libro veritas”.
Chiedo,
avvicinandomi al bancone.
Trattengo un sorrisetto mordendomi il labbro inferiore, pronunciando
per la
prima volta ad alta voce il terribile nome di quella casa editrice. A
differenza mia la signora della portineria non sembra scomporsi.
-Deve
prendere l’ascensore qui
sulla destra, piano ottavo.
Risponde
rapidamente, guardandomi
solo per una frazione di secondo, chinando poi subito il capo su quello
che
sembra essere un giornaletto della settimana enigmistica.
-Grazie.
Ribatto
con un fil di voce, temendo
di infastidirla in quell’attività verso la quale
sembra provare smisurato
interesse. Dopodiché seguo le indicazioni e raggiungo
l’ascensore, prima
chiamandolo al piano terra e poi all’ottavo.
L’edificio è piuttosto
datato,
probabilmente eretto attorno
agli anni sessanta e l’ascensore in legno con pavimento in
moquette rossa mi dà
la sensazione di essere in procinto di fare un viaggio del tempo. Arrivata
a destinazione, rimango stupita da
ciò che mi trovo davanti: una enorme sala completamente
vuota, pareti spoglie e
prive di intonaco, pavimenti in parte coperti da un telo in cellophane
e
diversi attrezzi da lavoro sparsi qua e là. Non ha affatto
le sembianze di un
ufficio, non ancora perlomeno, poiché sembra solo un
cantiere.
Mi guardo attorno ma
non trovo nessuno a cui chiedere
informazioni. Davanti a me, sulla destra, c’è una
scala di legno dalla quale mi
pare di sentir provenire delle voci. Procedo con cautela, anche per
evitare di
inciampare nel telo plastificato, tentativo miseramente fallito
poiché ancor
prima di raggiungere il corrimano della scala al quale speravo di
potermi
reggere, uno dei miei tacchi si incastra avvolgendosi tra un pezzo di
telo non fissato
e del nastro isolante, facendomi finire per terra. Mi lascio cadere
senza
tentare di rimanere in equilibrio, con l’illusione che per
una volta non ci
siano occhi indiscreti a testimoniare la mia caduta.
-Si
è fatta male?
Illusione
immediatamente andata
in frantumi. Cerco di alzarmi da sola, prima che il mio interlocutore
possa
vedermi in viso. Sfortunatamente mi trovo costretta a sfilare la scarpa
per
poterla liberare dal nastro.
-Sto
bene, la ringrazio.
Rispondo,
senza alzare lo
sguardo.
-Aspetti,
le tengo fermo il telo.
Aggiunge,
raggiungendomi e
precipitandosi nella zona “incriminata”. Grazie al
suo aiuto riesco ad estrarre
la scarpa con più facilità e la infilo subito al
piede.
-Grazie.
Alzo
infine gli occhi, per poter
ringraziare quella persona misteriosa, mio salvatore in una situazione
fastidiosa
e che pare non ridere di me, per il momento. La persona che trovo
davanti ai
miei occhi si rivela essere totalmente differente da come me
l’ero immaginata
solo pochi istanti prima, nel pieno dell’imbarazzo. Avendo
intravisto una tuta
da lavoro grigia sporca di vernice e degli scarponi pesanti,
probabilmente di
tipo antinfortunistico, mi aspettavo un faccia a faccia con il tipico
imbianchino un po’ in là con gli anni, stempiato e
con qualche chilo di troppo,
praticamente un clone di Mauro, amico di mio padre e imbianchino di
fiducia di
famiglia da oltre vent’anni. Nulla di più diverso:
la persona davanti a me è un
ragazzo probabilmente più giovane di me, molto alto, capelli
biondi piuttosto
lunghi e soprattutto meravigliosi occhi chiari di un colore che credo
non aver
mai visto prima d’ora: un misto tra grigio-azzurro e argento.
Fatico a non
rimanere a bocca aperta, davanti ad un viso oggettivamente tanto bello.
-Si
figuri, è stata colpa mia,
non ho fissato bene il telo, chiedo scusa.
Aggiunge
con un tono di voce
molto grave e profondo, dettaglio che mi aveva indotta a pensare di
trovarmi di
fronte ad un uomo e non un ragazzo. Non rispondo, limitandomi a
sorridergli.
-C’è
per caso la signorina
Elettra Ferri?
Chiede
una voce proveniente dalle
scale. Immediatamente do una pulita ai miei vestiti, cercando di
ricompormi per
ritornare ad esser presentabile.
-Sì,
sono io.
Rispondo,
affacciandomi per cercare
di intravedere la persona che ha appena chiamato il mio nome.
-Venga
su, signorina, la stavamo
aspettando.
Senza
pensarci troppo salgo le
scale, raggiungendo finalmente l’interlocutore. Si tratta di
un uomo sulla
quarantina, altezza media, occhi e capelli scuri, vestito in abiti
eleganti ma
da lavoro, un completo grigio che sembra vestirlo a pennello.
-Finalmente
la vedo dal vivo. Sono
Gianmarco Verità, presidente.
“Verità”,
“Veritas”, inizio a
pensare che il ridicolo nome della casa editrice sia semplicemente un
gioco di
parole costruito sul cognome del suo presidente, non credevo che
esistesse un
cognome simile. Il signor Verità mi porge la mano che
immediatamente stringo,
ricambiando anche il brillante sorriso che subito dopo mi rivolge.
-Ha
parlato con il mio socio,
Antonio Monicelli, ci raggiungerà tra poco nel mio ufficio,
se vuole seguirmi.
Annuisco
ed immediatamente lo
seguo. Anche il piano superiore risulta essere incompleto e in
ristrutturazione, benché sia in condizioni migliori di
quello inferiore. Riesco
a percepire odore di vernice fresca lungo tutto il corridoio e alcune
porte
chiuse sono ancora coperte da una pellicola trasparente, macchiata da
gocce di
pittura.
-Prego.
Mi
invita il signor Verità,
lasciandomi entrare in quello che credo sia il suo ufficio,
dopodiché chiude la
porta. Esito a prendere posto e ancora una parte di me mi suggerisce di
rimanere in allerta, specialmente per la strana accoglienza ricevuta.
Il socio
di questo signore, Antonio Monicelli come ho appena appreso, mi ha
telefonato
circa un mese fa poco prima di Natale, dandomi appuntamento per oggi.
Mi
chiedo, dal momento che ho comunque dovuto aspettare un mese prima di
ricevere
questo colloquio, per quale motivo non abbiano scelto di chiamarmi al
termine
della ristrutturazione degli uffici. È vero, si tratta del
primo colloquio di
lavoro della mia vita, tuttavia credo che chiunque al mio posto
troverebbe la
situazione quantomeno curiosa.
-Si
sieda pure.
Mi
siedo, utilizzando una delle
due sedie posizionate di fronte alla maestosa scrivania che occupa
buona parte
della stanza. La disposizione dei mobili dell’ufficio sembra
essere
provvisoria: al di là della scrivania e delle sedie, non
c’è altro se non un
paio di scatoloni e una libreria vuota.
-Allora…
suppongo abbia portato
un curriculum.
Senza
farmelo ripetere prendo la
borsa, facendo ben attenzione che la cerniera sia rivolta verso di me e
non
verso il pavimento, dalla quale estraggo una cartelletta trasparente
che
contiene il mio scarno curriculum per porgerlo al signor
Verità. L’uomo lo
prende, estraendolo dalla cartelletta e lo scruta rapidamente,
dopodiché lo
posa sul tavolo.
-Bene.
Immagino che il mio socio
le abbia già spiegato la natura del lavoro.
Annuisco.
-Generalmente
le farei un paio di
domande personali, per capire esattamente che tipo di persona ho di
fronte ma,
avendo letto il suo blog, non mi sento di chiederle altro.
“Sa anche troppo”,
penso tra me e me, cercando di mantenere la
calma e bloccare ogni possibile segno di nervosismo.
-È
un’osservatrice silenziosa ma
molto eloquente, signorina Ferri.
Si
riferisce sicuramente alla mia
terribile abitudine di scrutare ogni cosa, spostando lo sguardo da
destra a
sinistra senza sosta, per paura di perdere anche il più
insignificante
dettaglio. Non so come ribattere e temo di essere sembrata maleducata
in questo
mio atteggiamento. Fortunatamente è ancora lui a parlare,
sollevandomi
dall’imbarazzo di una risposta giustificatrice.
-Come
le è stato detto, la nostra
è una casa editrice emergente e solo da poco ci siamo
trasferiti ufficialmente
in questo edificio che, come può vedere, è in
fase di ristrutturazione.
Speravo
mi concedesse qualche dettaglio
in più ma mi accontento e preferisco non aggiungere nulla.
È il mio primo
incontro con questa persona ma stranamente non mi sento agitata e la
mia ansia
è notevolmente diminuita, rispetto a poco prima che entrassi
nell’edificio.
Inizio ad attribuire il merito alla mia goffa caduta, la mia previsione
di fare
una delle mie tante figuracce si è realizzata, che altro
potrebbe succedermi di
peggio? A
parte la famigerata imboscata
della guardia di finanzia che ancora temo, ovviamente.
-Essendo
la nostra un’azienda
giovane, per così dire, abbiamo deciso di assumere uno staff
di neolaureati,
proprio come lei, per permettere ad azienda e dipendenti di crescere di
pari
passo, di fare esperienza insieme.
Le
motivazioni sembrano buone,
fin troppo buone. Pur non avendone il coraggio ho almeno una ventina di
domande
da porre ma aspetto che finisca di parlare o che sia lui stesso ad
invitarmi a
farne.
-Siamo
rimasti particolarmente
colpiti da lei, l’abbiamo seguita per mesi prima di deciderci
di contattarla.
Abbiamo subito trovato curioso il fatto che ogni libro da lei tradotto
rientrasse nella lista dei nostri potenziali acquisti, nelle nostre
trattative.
Questa
affermazione mi fa
trasalire. Inizio a sudare freddo. È possibile che queste
persone mi abbiano chiamata
per punirmi? Avrei dovuto tenere in considerazione la
possibilità di pestare i
piedi a qualcuno. Sebbene io non abbia agito con cattiveria e le mie
traduzioni
siano state realizzate senza scopo di lucro.
-Mi
dispiace.
Affermo,
incapace di aggiungere
altro.
-E
di cosa? Ho detto che erano di
nostro interesse, non che le abbiamo acquistate. Inoltre dovrebbe
ringraziare
se stessa: avendo già letto diverse sue traduzioni, non
abbiamo bisogno di
sottoporla ad alcuna prova. Posso assumerla senza alcuna riserva,
signorina
Ferri.
Ancora
troppo preoccupata per
l’affermazione precedente, non mi accorgo della parola
“assunzione”, appena
pronunciata dal signor Verità, che in questo momento mi sta
fissando in attesa
di una mia risposta o di una mia qualsiasi reazione. Dopo circa una
ventina di
secondi scoppia a ridere, arresosi all’idea che la mia
reazione non arriverà a
meno che non sia lui stesso a suggerirla.
-Non
credevo ma è davvero genuina
e spontanea come dice e dimostra di essere nel suo blog, lo sa? Le ho
appena
detto che ho intenzione di assumerla, l’ha capito?
Sorrido,
lasciandomi sfuggire una
risatina nervosa dopodiché finalmente rispondo.
-Non
so cosa dire io… la
ringrazio!
Esclamo,
utilizzando un tono di
voce eccessivamente alto che non nasconde per nulla la
mia improvvisa euforia. Mi sento ancora
troppo frastornata per rendermi effettivamente conto di cosa mi stia
succedendo
ma di certo l’entusiasmo ha iniziato a prendere il
sopravvento. Il socio del
signor Verità ci raggiunge pochi minuti dopo, portando con
sé il mio contratto
che mi viene illustrato e spiegato punto per punto in maniera
approfondita.
Faccio del mio meglio per risultare calma, risoluta e soprattutto
professionale
e fingo esitazione prima di firmare il mio contratto. Mi tremano le
mani nel
momento in cui la penna si posa sul foglio, la prima come la sesta
volta.
Quando finalmente le pratiche burocratiche vengono portate a termine, i
miei
datori di lavoro mi danno appuntamento a lunedì, invitandomi
a presentarmi con
puntualità per poter conoscere i miei collaboratori e
familiarizzare con
l’ambiente.
-Arrivederci,
a lunedì!
Ripeto,
scendendo dalle scale con
un incontenibile sorriso sulle labbra. Mi accorgo solo ora di una
rientranza
nella parete che conduce ad un’altra stanza dove
probabilmente si trovava il
ragazzo che mi ha aiutata a liberare il tacco dal cellophane sul
pavimento.
-Buona
giornata!
Esclama,
quella stessa voce grave
e profonda di poco prima. Il ragazzo biondo ora si trova davanti a me,
ai piedi
delle scale, intento a coprire con del nastro adesivo alcune prese.
-Buona
giornata!
Ripeto, augurandomi di non regalare un “bis” della mia figuraccia di poco prima. Una volta uscita dall’edificio tiro un respiro di sollievo, il cuore inizia a battermi all’impazzata e tutte le emozioni assopite fino a quel momento si risvegliano, facendomi quasi girare la testa. Ho appena ricevuto la mia prima proposta di lavoro, il mio ufficio è in una posizione fantastica e invidiabile e anche il salario offertomi è ben al di sopra delle mie aspettative, trattandosi del mio primo impiego e mi meraviglio di essermela cavata con soltanto un piccola e quasi inosservata figuraccia. Mi concedo il tempo per elaborare tutto ciò che mi è successo, per poter focalizzare e convincermi che forse per la prima volta dopo tanti anni, è arrivato il mio momento di gloria. Telefono quindi a mia madre, che sarà rimasta sulle spine e attaccata al cellulare per tutto questo tempo, in attesa di una mia chiamata. Le racconto ogni cosa, ogni singolo dettaglio aggiungendo che però ne parleremo in maniera più approfondita a cena, quando anche mio padre tornerà dal lavoro. È quasi ora di pranzo e quindi decido di fare una telefonata a Katia che lavora come receptionist in un ufficio in zona. Dopo aver ricevuto una risposta positiva da parte sua, mi affretto per raggiungere il bar nel quale ci siamo date appuntamento, ansiosa di poter raccontare anche a lei della mia incredibile mattinata.
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SPAZIO AUTRICE: Non ho
mai pubblicato storie online. Questo racconto è la mia prima
commedia ed è una sorta di esperimento, spero di trovare un
riscontro positivo. Pubblicherò il prossimo capitolo tra una
settimana. Grazie per la lettura!