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Autore: Angye    03/03/2015    7 recensioni
La storia comincia nell'episodio "Il salto del tonno" della serie Sam and Cat. Mentre si trova a Los Angeles con Sam, Freddie riceve una telefonata che lo avvisa dell'arrivo a sorpresa di Carly, a Seattle per qualche giorno. Il ragazzo decide di partire, Sam no, perchè sconvolta dall'aver scoperto il bacio che i due si sono scambiati in IGoodbye. Una serie di eventi e circostanze riporteranno Freddie, Sam e Carly sulla stessa strada e nelle rispettive vite. Il nuovo ragazzo di Sam non semplificherà le cose tra lei e Freddie. E, forse, arriverà il momento di chiarire ogni punto lasciato in sospeso e scoprire cosa significa, davvero, amare.
Storia sospesa, ma non abbandonata; riprenderà non appena possibile
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mi scuso per il ritardo, stavolta ho davvero esagerato!
Ringrazio di cuore la mia beta, Aduial, che ha praticamente battuto ogni record, revisionando il capitolo velocissima!
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite, le ricordate o le seguite e chiunque abbia lasciato una recensione al precedente capitolo (risponderò in privato).

Buona Lettura.
 
 
Marzo.
 
 
- Sam.-
Silenzio, nessun movimento, niente reazioni.
- Sam.-
L’ammasso di coperte rimase immobile, floscio e inanimato.
- Sam!-
Il grugnito ovattato e roco, seguito da una serie infinta di imprecazioni irripetibili, fu il segnale che Sam Puckett era uscita dallo stato comatoso che aveva l’ardire di definire “sonno profondo”.
Cat, seduta ai piedi del letto della bionda con una spazzola tra le mani, scosse la testa, sospirando rassegnata: per quanto avesse fiducia nell’amica, difatti, aveva seri dubbi sul fatto che sarebbe riuscita a svegliarsi a quell’ora ogni mattina, da lì al resto della vita.
I movimenti lenti e le smorfie di disperazione con le quali Sam si tirò fuori dal groviglio di lenzuola e coperte e si mise seduta contro la testiera del letto, furono la conferma alle riflessioni di Cat.
- Buongiorno!- trillò, vivace, questa, intenta a spazzolare i lunghi capelli.
Sam tacque, limitandosi a gettare il capo indietro, contro la parete ed emettere un lamento degno di un cucciolo ferito.
- E’ l’alba. Chi diavolo si sveglia a quest’ora, eh? – domandò, gettando un’occhiataccia alla sveglia, colpevole di segnare le sette e mezza passate.
- Le persone normali che hanno un lavoro o la scuola.- rispose, allegra come sempre, la rossa.
Sam la guardò con un sopracciglio alzato e, subito dopo, scosse la testa disgustata alla vista dell’abbigliamento dell’amica.
- Sembra che un unicorno ti abbia vomitato addosso.- commentò, stiracchiandosi. – Se ti guardo ancora mi brucio le cornee.- aggiunse, lasciandosi cadere nuovamente sui guanciali.
Cat, turbata e con la fronte aggrottata, lisciò le pieghe della gonna bianca e il colletto della camicia gialla, domandandosi se, per caso, avesse sbagliato ad abbinarvi il golfino rosa polvere con le fragole.
- Sam, non riaddormentarti; devi essere a lavoro tra mezz’ora!- esclamò, poi, accorgendosi che l’altra aveva assunto la tipica posizione da “sto per addormentarmi”: pancia in giù, una gamba piegata, braccia sotto il cuscino.
- Hmm. Lasciami in pace, mi licenzio.- protestò la bionda, scrollando le spalle in un gesto indifferente.
- Sam! Alzati immediatamente!- sbottò Cat, scuotendola animatamente. – Hai promesso a Dylan che ci saresti andata!- le rammentò.
Inferocita e sbuffando come un toro imbufalito, Sam si decise ad alzarsi e, spinta bruscamente Cat di lato, si appropriò del bagno, imprecando coloritamente contro Dylan Bennett e i suoi “contatti”.
Da quando aveva accettato di prendere il posto di Carl alla direzione della palestra, circa un mese prima, Dylan si era dedicato anima e corpo all’impresa e, trascorse le prime due settimane di assestamento, le cose avevano ingranato e il ragazzo era parso sinceramente soddisfatto.
Lavorava tutti i giorni, eccezione fatta per la domenica e, fino alla settimana prima, le cose erano andate benissimo anche a Sam che, infatti, coglieva ogni momento libero per recarvisi in cerca di divertimento e un bell’incontro che la tenesse in allenamento.
Poi, Bennett se n’era uscito con la storia che un amico di un amico – Sam avrebbe tanto desiderato che fosse un eremita, invece che un imbecille socievole – lavorava in un’agenzia di manager sportivi e che, dato l’ottimo punteggio che Sam aveva ottenuto all’esame, avrebbe potuto inserirla come stagista retribuita.
La proposta aveva creato, inizialmente, attrito tra i due fidanzati, poiché, sebbene la paga fosse discreta, Sam davvero non era la persona giusta per essere al servizio di qualcun altro.
Poi, dopo che Dylan aveva insistito affinché lei incontrasse questo famigerato “amico” e aveva scoperto che si trattava di un cinquantenne amico di famiglia, la bionda era stata costretta ad ammettere che l’occasione era davvero allettante.
L’uomo le aveva spiegato che nel mondo manageriale non si badava alla “forma” ma al “contenuto” e che l’importante erano i risultati, non il modo in cui questi si ottenevano.
Le disse anche che, se si fosse dimostrata un tipo sveglio, acuto, in grado di fare affari e contrattare, nel giro di sei mesi avrebbe potuto iscriversi al concorso che dava accesso alla carriera manageriale vera e propria e essere assunta dall’azienda a tutti gli effetti.
I sei mesi di stage erano, tuttavia, obbligatori in quanto tirocinio formativo.
Alla fine, Sam era stata costretta ad ammettere che, dopo aver sgobbato mesi interi per passare quel dannato esame, valeva la pena di sacrificarsi altri sei mesi per ottenere un lavoro che le avrebbe aperto la strada a un futuro roseo e pieno di grana.
Così, eccola lì, alle otto meno qualche minuto di un Venerdì mattina, vestita delle prime cose che aveva afferrato dalla sedia su cui vi era una montagna di panni sgualciti, i capelli arruffati e gli occhi gonfi di sonno, pronta a mettersi in sella alla sua adorata moto.
Era il suo quinto giorno e non ne poteva già più, eppure doveva farlo, voleva farlo.
L’indipendenza era tutto ciò a cui aspirava nella vita, la libertà ciò di cui aveva bisogno per sopravvivere.
E, poi, dopo aver insistito tanto con Dylan per convincerlo che fosse giunto il momento di mettere la testa a posto e cominciare a costruirsi una vita, un futuro, non poteva di certo tirarsi indietro: lui non le avrebbe dato pace.
- Cat, smetti di dondolare e non tirarmi la giacca!- sbottò la bionda all’indirizzo dell’amica che, seduta dietro di lei, l’aveva cinta con tanta forza da farle tornare su il pollo fritto della sera prima.
- Scusa, è che tu vai così velooooooooooooceeeee… - la frase si tramutò in grido quando Sam diede gas, sfrecciando lungo il ponte, diretta a scuola di Cat.
Quella era un’altra abitudine venutasi a creare da quando Sam aveva iniziato a lavorare: accompagnare Cat a scuola in moto.
La sua bici rosa, infatti, era un po’ malandata e consunta per poter sopravvivere ancora a lungo e Cat aveva scelto di usarla solo per diletto, così, da quel momento in poi, era Sam a portarla fino all’ingresso della Hollywood Arts, per scaricarla in fretta e furia, evitando i suoi saluti eccessivamente affettuosi.  
E, anche quel giorno, le cose seguirono uno schema fisso: Cat scese dalla moto di Sam stordita e con i capelli pieni di foglie, ciondolò qualche istante sul marciapiede, si guardò intorno in cerca di Jade o Tori e, avvistata la prima, si rivolse alla bionda.
- Sam, grazie per il passaggio, mi raccomando vai piano e… -
Le raccomandazioni furono ignorate, come al solito, e Cat fu completamente dimenticata quando Jade le raggiunse.
- Ehi.- disse questa alla bionda.
- Ehi, Jade.-
Come ogni volta che quelle due si trovavano insieme, Cat incrociò le braccia e prese a fissarle con aria imbronciata, offesa e dispiaciuta dell’essere esclusa: Sam e Jade avevano caratteri simili, sebbene con differenze notevoli e andavano molto d’accordo, soprattutto se si trattava di prendere in giro Cat e la sua mega cotta per Robbie Shapiro.
Lo stesso Robbie che, come ogni mattina, se ne stava imbambolato nel cortile con quel suo fantoccio tra le braccia, l’aria pallida e impacciata, apparentemente ignaro dei sospiri innamorati di Cat.
- Ci sono più probabilità che io stoni, piuttosto che quello si dia una svegliata e, conoscendo il mio talento, la cosa è tutta un dire.- ridacchiò Jade, scostando i lunghi capelli neri meshati di blu elettrico.
Cat le rivolse uno sguardo offeso, per poi tornare ad ammirare il suo “bello”.
- Devo andare, dannazione!- sbottò Sam, infilando il casco.
- Ancora quel lavoro? Pensavo avresti lasciato.- commentò Jade, alzando il mento.
- Anch’io, ma il pollo fritto non posso sempre rubarlo, se mi beccano ancora da Chico sono in guai seri. – scrollò le spalle Sam.
- Ehi, Cat, - aggiunse, togliendo il cavalletto e immettendosi sulla strada. – Robbie è tutto solo soletto, perché non ne approfitti? – la stuzzicò, strizzandole l’occhio dalla visiera trasparente, mentre sgommava sull’asfalto, ridendo.
Cat rimase a fissare il punto in cui era sparita, ancora più offesa e con le labbra curvate a disegnare una “Oh” indignata.
Jade, annoiata, fece roteare gli occhi al cielo. – Ti muovi o no?- sbottò, avviandosi.
 
 
 
 
Freddie l’aspettò, come lei aveva chiesto, giù dalla scalinata in marmo del suo immenso e signorile palazzo.
Louisa fu discretamente in ritardo, proprio come le gran signore e, quando il portiere le aprì il portone di vetro, Freddie rimase abbagliato dalla sua classe: indossava pantaloni scuri, una blusa verde acqua, giacca scura e portava i capelli legati in una coda di cavallo che le rimbalzava attorno al capo.
Teneva al braccio una borsa di medie dimensioni, intonata agli stivaletti alti e un paio di occhiali da sole posati sulla testa.
Sorrise, scendendo gli ultimi gradini di corsa e lo raggiunse, baciandolo delicata sulle labbra.
Freddie assaporò il sapore del suo lucidalabbra, pesca e more e ne respirò il profumo, una fragranza di viole e mughetto.
- Allora, mio cavaliere, hai intenzione di dirmi dove mi porterai, oggi?- gli chiese, prendendolo a braccetto.
Freddie sorrise, scuotendo il capo con fare misterioso. – Dovrà attendere, signorina: è una sorpresa.- rispose, aprendole la portiera dell’auto che, per l’occasione, aveva portato a lavare da cima a fondo.
Louisa sembrava emozionata e curiosa, eccitata come una bambina e lo tempestò di domande lungo tutto il tragitto.
Era molto presto e il sole si era alzato solo da qualche ora in cielo, così che, quando giunsero a destinazione, lo spettacolo che si parò di fronte ai loro occhi li lasciò senza fiato: il mare, calmo e trasparente, accarezzato dai raggi cocenti che ne facevano scintillare la superfice.
Soffiava un vento leggero e la giornata era ideale per quell’uscita in barca, che Freddie stava programmando ormai da settimane.
Aveva provveduto a noleggiare una barchetta piccola ma elegante e gli era costata un occhio della testa, ma l’espressione estasiata di Louisa valse ogni soldo sudato e speso a quel modo.
- Mon dieu!- si lasciò sfuggire, facendo qualche passo verso la banchina.
Freddie, posate le chiavi dell’auto nel giubbotto di pelle, le prese una mano, portandosela alle labbra.
- Ti piacerebbe passare la mattina in barca con me?- le chiese.
Louisa si volse a guardarlo con gli occhi luminosi e, allacciate le braccia al suo collo, annuì, prima di baciarlo appassionatamente.
Ad attenderli sulla barca vi era lo skipper che avrebbe condotto l’imbarcazione, che li accolse con grande gentilezza e mostrò loro la zona sottocoperta, che consisteva in un bagno e un piccolo salotto.
Il pranzo che Freddie aveva richiesto era già stato sistemato in una borsa termica, così come il mazzo di fiori che aveva acquistato per lei e che l’uomo le posò tra le braccia quando tornarono di sopra.
- Oh, Freddie, è magnifico!- esclamò la ragazza, accomodandosi sul divanetto bianco a poppa, mentre lo skipper metteva in moto.
- Sei contenta?- le chiese Freddie, sedendosi accanto a lei e passandole un braccio intorno alle spalle.
- Certo.- annuì Louisa, infilando gli occhiali per combattere il sole che, ormai alto in cielo, batteva su di loro, scaldandoli.
Nonostante il bel tempo, comunque, fu necessario avvolgersi nelle coperte fornite dall’imbarcazione, poiché, più si allontanavano dal porto, più il vento si faceva freddo e potente.
Si fermarono e ancorarono, lo skipper si congedò, ritirandosi sottocoperta per lasciar loro un po’ di privacy e i due goderono del profumo del mare e della reciproca compagnia a lungo.
Parlarono a lungo, del lavoro di Freddie, degli studi di Louisa, di Joanna e perfino di Gibby che, da quanto raccontava il ragazzo, era parso strano, negli ultimi giorni.
Pranzarono con gusto, assaporando la frutta fresca e i tramezzini e si concessero un bicchiere di vino, rigorosamente bianco – come piaceva a Louisa.
Mentre osservavano il mare sconfinato aprirsi di fronte a loro, Freddie si fece pensoso e Louisa se ne accorse.
- A cosa pensi?- gli domandò.
Il ragazzo, preso in contropiede, si arrovellò alla ricerca di una bugia convincente e, d’impeto, scrollò le spalle.
- Stamattina ho telefonato a Carly per ricordarle che oggi saremmo andati in barca, ma era già uscita per andare all’Università.- buttò lì così.
Il timore che Louisa potesse sospettare che quella fosse una menzogna, gli impedì di cogliere il sorrisetto allusivo e l’espressione colma di biasimo che, per un momento, si disegnarono sul suo viso.
Lo sguardo di Freddie corse di nuovo al mare cristallino che, pochi istanti prima, gli aveva riportato alla mente gli occhi trasparenti di Sam, luminosi e incandescenti, eternamente baciati dal sole.
Si volse a guardare la ragazza che gli sedeva accanto, col capo chino sulla sua spalla e sospirò:
no, davvero non era il momento adatto per pensare a Sam, decise.
Non ci avrebbe pensato mai più.
 
 
 
 
Gibby si sentiva agitato: camminava nervosamente fuori dalla porta degli spogliatoi, afferrava la maniglia e, un istante prima di entrare, si tirava bruscamente indietro.
Tutto quello stress non gli faceva bene, davvero; era un tipo sensibile, lui e una tale mole di tensione aveva effetti terribili sui suoi nervi.
Era capitato già altre volte, come quando i pantaloni gli si erano calati proprio nel mezzo dello show di Jimmy Fallon e, per giorni e giorni, non aveva fatto altro che combinare disastri a causa del nervosismo derivatone.
A stressarlo, in quel momento particolare della sua vita, ci stava pensando il “caro” Scott che, di punto in bianco, come se la sera di due settimane prima, in auto, non fosse accaduto assolutamente nulla di rilevante, si comportava con una naturalezza esasperante.
Andavano a correre, pranzavano assieme, di tanto in tanto uscivano per una partita a bowling o, assieme a Freddie, andavano al cinema a vedere uno di quei film fantascientifici che li divertivano tanto, e Scott non faceva una piega; sempre sorridente, sempre allegro, quasi come se quel bacio non fosse mai esistito.
La cosa frustava Gibby enormemente e lo rendeva particolarmente rabbioso, soprattutto quando, per puro caso, qualcuno dei suoi amici toccava l’argomento “Scott”.
Non che lui avesse le idee chiare in merito all’accaduto o avesse voglia di prendere una posizione più chiara e definire “quello”, ma almeno non fingeva che le loro teste avessero colliso per puro caso e le loro labbra si fossero trovate a sfiorarsi di conseguenza!
Il miscuglio di sensazioni che, da quella sera, da quel bacio, si erano scatenate in lui, erano pari solo alla mole spropositata di domande e dubbi che gli vorticavano in testa.
Come evocato dai suoi pensieri, Scott aprì la porta degli spogliatoi proprio mentre Gibby accennava ad entrare e si ritrovarono faccia a faccia, vicini eppure divisi da un muro invisibile.
- Ehi.- salutò Scott, allegro come sempre, col sorriso luminoso a ingentilirgli i tratti marcati del volto.
- Ehi.- sbottò Gibby, superandolo senza cerimonie e con poca gentilezza.
L’espressione frustrata sul viso del ragazzo non passò inosservata al biondo e anche il suo sorriso si spense, fino a scomparire completamente quando tornò sui suoi passi per raggiungere Gibby.
- Va tutto bene?- domandò, in piedi accanto alla panca su cui l’altro sedeva.
- A meraviglia.- ringhiò, tra i denti, l’altro.
Un sopracciglio biondo scuro di Scott si sollevò, perplesso, sulla fronte.
- Non si direbbe.-
- Tu dici? E cosa ti ha portato a questa conclusione? La tua spiccata sensibilità o forse la capacità di leggere l’animo altrui? O, magari… -
Gibby si era alzato, rabbioso e con lui il tono di voce, che continuò a salire, mentre, per metafore, riversava su Scott l’insicurezza che quei giorni di silenzio gli avevano provocato.
Il biondo ascoltò in silenzio la sfuriata, impassibile, stoico, conscio di quanto l’altro avesse bisogno di sfogarsi, di frantumarsi in pezzi e ricomporsi, prima di poter accettare anche solo l’idea di essere diverso da come avesse sempre creduto.
Quando Gibby tacque, spompato, sfinito, ansante, con lo sguardo fisso in quello di Scott e i pugni stretti lungo i fianchi, il ragazzo sorrise appena, dolcemente.
- Sei più calmo, ora?- chiese.
L’altro annuì, portandosi una mano alla fronte e carezzandosi le guance, come a voler lavar via tutta quella rabbia repressa e si sedette.
Scott lo imitò, tenendo gli occhi fissi sul pavimento.
- Non avevo capito che, per te, fosse tanto importante parlare di quel bacio.- spiegò, chinandosi con i gomiti sulle cosce.
- Non avevamo mai parlato del nostro orientamento sessuale e non sapevo se tu fossi interessato a me in quel senso. Ho agito d’impulso, quella sera e, quando mi sono reso conto di aver superato un limite, ho immaginato che tu avresti preferito dimenticare ogni cosa e così ho fatto finta di niente.- aggiunse, stringendosi nelle spalle e sollevando il viso per guardare Gibby.
Questi, scosso e imbarazzato, teneva gli occhi fissi sulla parete dietro Scott e si torturava le mani, nervoso.
Cosa avrebbe dovuto rispondere?
Non aveva le idee chiare, anzi, se possibile, si sentiva anche più confuso di prima.
Gli erano sempre piaciute le ragazze e, sebbene non avesse mai avuto pregiudizi o idee razziste, non aveva mai capito come diamine facessero, gli omosessuali, a preferire il loro stesso sesso.
Eppure, adesso, con il fianco di Scott che gli sfiorava una gamba e il suo respiro proprio sulla guancia, sentiva di non essere indifferente a quel ragazzo tanto aperto, sincero e solare.
Un desiderio istintivo, viscerale, lo spingeva ad afferrargli le mani, assaporarne ancora le labbra e scoprirne la morbidezza dei capelli biondi.
- Non… non so che… -
Scott sorrise, comprensivo e lo invitò a tacere con un gesto gentile.
- Non devi dire qualcosa per forza, non voglio costringerti a pensare a qualcosa o prendere una decisione per la quale non sei pronto.- spiegò.
- Io sarò qui, se e quando vorrai.- aggiunse, semplicemente, battendogli una mano sulla coscia.
Gibby si limitò ad annuire, mentre Scott si alzava e raggiungeva la porta.
Non avrebbe saputo dire se fosse stata l’amarezza celata eppure visibile negli occhi chiari, se il calore che si propagò, dalle gambe fino al ventre e poi al cuore o il semplice prendere atto del fatto che Scott se ne stesse andando, seppur per qualche giorno, dalla sua vita, ma Gibby si alzò, lo raggiunse in due lunghe falcate e gli afferrò una spalla, costringendolo a voltarsi.
Quella volta, il loro bacio non fu un semplice sfiorarsi di labbra, timide e incerte.
Gibby afferrò Scott per il colletto della camicia, attirandolo a sé bruscamente e, dopo un attimo di sorpresa, l’altro gli agguantò la nuca con altrettanta forza.
Scoprire che le loro labbra si modellavano perfettamente fu motivo di entusiasmo ed eccitazione e, quando si separarono, ansanti e con gli occhi luminosi, lo sguardo che Scott gli lanciò fu sufficiente a placare ogni dubbio di Gibby: evidentemente, indipendentemente dal sesso, ci si innamorava di una persona, del suo carattere e della sua essenza.
 
 
 
 
- Spencer? Volevo solo avvisarti che ritardo di qualche ora.-
La voce di Alison gli arrivava a stento, a causa del vociare di gente tutt’intorno alla ragazza.
- Siete ancora in riunione?- le domandò l’artista, intento a dipingere delle uova sode.
- Proprio così e non credo ne usciremo prima di un’ora. Poi dovrò passare agli studi per ritirare uno script.- spiegò la giovane. – Preferisci che annulliamo la cena?- domandò, dispiaciuta.
Spencer, pulito un pennello sui jeans, si passò una mano tra i capelli corti.
- No, Alison, non dirlo nemmeno. Ti aspetto, non importa a che ora finisci, ti terrò in caldo la cena.- promise, comprensivo.
Sebbene non potesse vederla, seppe che suo visetto della sua fidanzata era comparso un sorriso dolcissimo.
- D’accordo, faccio prima che posso. – gli disse, riagganciando.
 
Quando, due ore dopo, Alison aprì la porta di casa Shay, non si sorprese di trovare Spencer addormentato sul divano, con la camicia chiazzata di vernice e le scarpe ancora ai piedi.
Abbandonò la borsa sulla poltrona e, sedutasi accanto a lui, gli accarezzo i capelli in un gesto dolce, per ridestarlo.
Avvicinandosi, si accorse che le labbra di Spencer erano macchiate di blu e verde e un’altra manciata di colori che non riusciva a distinguere.
- Spencer?- chiamò, confusa, scuotendolo appena.
L’artista si svegliò con un lamento e, subito, si portò le mani allo stomaco con fare teatrale.
- Che male terribile!- esclamò, affondando il viso nel cuscino.
- Cos’è successo?- gli chiese Alison, osservando la cena intatta abbandonata sul tavolo in cucina.
L’artista si tirò lentamente a sedere, emettendo una serie di gemiti di dolore e raccogliendo le ginocchia al petto, confessò di aver “assaggiato” le uova che stava dipingendo.
- Come ti è saltato in mente?!- esclamò Alison, allibita, allargando le braccia in un gesto esasperato.
Mettendo su un broncio degno di un decenne, Spencer spiegò di non aver saputo resistere al profumino di uova e che, per giunta, i colori magnifici di cui erano dipinte lo avevano ulteriormente istigato.
Assicuratasi che Spencer non avesse ingerito una quantità esagerata e pericolosa di uova dipinte, scuotendo il capo, rassegnata, Alison scoppiò a ridere e gli accarezzò la schiena.
- Beh, tesoro, avrai mal di pancia per un pezzo.- commentò, alzandosi.
- Dove vai?- piagnucolò Spencer.
- Tu avrai anche “mangiato”, ma io muoio di fame!- rispose la ragazza, accomodandosi a tavola.
- Uova?- lo prese in giro, sollevando un ovetto tinto di scarlatto al suo indirizzo.
Spencer, dopo averla fulminata con lo sguardo, si precipitò in bagno.
 
 
Dylan aveva osservato a lungo il gruppetto, fatto di quattro o cinque ragazzi, durante l’ultima settimana.
Era capitato, più di una volta anche nell’arco di una stessa giornata, che bazzicassero da quella parti, fermandosi proprio fuori dalla palestra o, talvolta, erano perfino entrati e avevano chiesto di poter fare un po’ di boxe.
Dylan aveva chiesto agli allenatori di tenerli d’occhio, sebbene, fino a quando si fossero comportati in modo civile e non avessero dato fastidio a nessuno, sarebbero stati i benvenuti.
Erano tipi che portavano guai, questo gli era stato chiaro fin da subito: urlavano di continuo, entravano carichi di birre, spintonavano gli altri clienti passando loro accanto, cercavano sempre di attaccare briga.
La prima volta che era stato costretto a intervenire, era stato il Mercoledì di quella stessa settimana, poiché avevano rifiutato di cedere il ring a uno degli allenatori che stava preparando alcuni allievi per una gara agonistica.
Ne era seguita una discussione accesa, durante la quale Dylan aveva dovuto far presente che quella era la sua palestra, nonostante non gli facesse affatto piacere ergersi a capo e imporsi, dato che, anche lui, fino a qualche settimana prima, aveva amato lottare per puro sfogo.
I tizi se n’erano andati promettendo rogne e, come tutti i bravi cattivi ragazzi, avevano mantenuto la parola.
Quel Venerdì sera, Sam lo raggiunse subito dopo il lavoro, stanca ma eccitata all’idea che fosse ormai giunto il week-end e ansiosa di programmare con lui un’uscita in moto, un torneo di poker o una fuga verso qualche birreria dozzinale e rozza fuori città.
Era già buio e ad illuminarli vi erano solo le rade luci di lampioni sistemati a casaccio nell’immenso parcheggio.
Sam mise il cavalletto e si sfilò il casco, che abbandonò penzolante sul manubrio, si sedette con le gambe di lato e legò i capelli in una coda disordinata.
- Comincia a far caldo.- disse, mentre Dylan infilava nel giubbotto le chiavi.
Il ragazzo la raggiunse e, immediatamente, la baciò, infilandosi tra le sue gambe e agguantandole i fianchi in una morsa possessiva.
Sam lo lasciò fare, infilandogli le mani tra i capelli e artigliandone le ciocche, per poi carezzargli la nuca e sorridere.
- Ti sono mancata, eh?- lo prese in giro, mentre lui, ignorando il fatto che lei stesse parlando, le morse un labbro, facendole male.
- Idiota!- sbottò Sam, colpendolo in pieno stomaco con un pugno.
Dylan rise, abbracciandola. – Sono due giorni che non ti vedo, Puckett.- si giustificò.
Lei scrollò le spalle con fare indifferente. – E’ colpa tua.- decretò.
Dylan si staccò da lei per mostrarle l’espressione perplessa che aveva in volto.
- Io sarei venuto da te lo stesso, Puckett, eri tu a essere troppo stanca… -
- Non mi riferivo a questo.- sbuffò la ragazza. – Sei stato tu a insistere perché accettassi il lavoro, ora pagane le conseguenze!- sbottò.
Dylan fece roteare gli occhi al cielo. – Non sarai mai in grado di svegliarti a un orario umano e essere civile, vero?- chiese, retorico.
- Sono geneticamente programmata in questo modo.- ribatté Sam. – Non è colpa mia.-
Il ragazzo annuì, fintamente comprensivo e si avvicinò, baciandole il profilo della mascella e scivolando poi verso il lobo dell’orecchio.
- Che… che fai?- chiese Sam, d’un tratto meno sicura di sé.
- Dato che è colpa mia, se sei tanto stressata e nervosa… - mormorò il ragazzo sulla sua pelle.
- … voglio rendermi utile e aiutarti a rilassarti.- le soffiò in un orecchio, per poi dedicarsi a lasciarle una scia umida sul collo, fino alla clavicola.
Le mani di Sam artigliarono il suo giubbotto e la ragazza si morse le labbra, frastornata.
Fu probabilmente il fatto di essere persi l’uno nei respiri dell’altro, a impedir loro di accorgersi dell’auto che, rombando, sfrecciava a pochi metri da loro.
Si udì un fracasso tremendo che fece sussultare entrambi e, subito dopo, l’auto scomparve con una sgommata, mentre un paio di allarmi di auto nei paraggi cominciavano a suonare.
Dylan, che si era chinato e aveva trascinato Sam con sé, l’afferrò per le spalle.
- Stai bene?- le chiese, controllandola.
La ragazza annuì, scrollandoselo di dosso. – Che diamine è stato?!- esclamò.
Dylan, rialzatosi, diede una rapida occhiata tutt’intorno e, poi, si avvicinò alla vetrina della palestra, infranta, i cui pezzi di vetro erano sparsi un po’ ovunque, dentro e fuori.
- Pezzi di merda.- lo sentì dire Sam, come un ringhio, tra i denti.
Lo raggiunse e la suola delle sue scarpe schiacciò alcuni cocci.
- Sai chi è stato?- chiese, stando bene attenta a non avvicinarsi troppo: conosceva Dylan e sapeva che, quand’era arrabbiato, aveva bisogno di spazio e di tempo per calmarsi.
Il ragazzo annuì, stringendo convulsamente i pugni.
Il cellulare di Dylan prese a squillare e lui rispose come un automa, gli occhi ancora fissi sulla vetrina infranta.
- Michael. Sì. Quei figli di… sì. Okay, fa’ presto.-
La telefonata fu chiusa e Sam riuscì a carpire soltanto il nome di Michael.
Era preoccupata per Dylan, poiché sapeva quanto si sentisse responsabile della palestra, dato che Carl aveva avuto una fiducia smisurata in lui, per cedergliela e non voleva davvero deluderlo.
Inoltre, era stata lei a spingerlo ad accettare e, adesso, aveva timore che Dylan cercasse di vendicarsi o farsi giustizia da solo e finisse per farsi male.
- Dobbiamo chiamare la polizia.-
Stentava a credere che quelle parole fosse uscite dalle sue labbra; ogni fibra del suo corpo rifiutava l’idea, ma la sua mente era attiva e in ansia per Dylan e quello aveva la meglio sul rifiuto di avere a che fare con le autorità.
- No.- rispose, secco, il ragazzo, chinandosi per raccogliere un coccio di vetro appuntito.
Sam allargò le braccia. – Dylan, hai detto di sapere chi è stato.- fece.
Lui sollevò lo sguardo incandescente su di lei. – E’ così.- decretò.
- Allora dobbiamo… -
- Ci penso io, Sam. – disse, perentorio, solenne, con quel tono di chi non ammette repliche e ha già preso tutte le decisioni.
La ragazza sentì la rabbia montare, eppure tentò di frenarsi: Dylan era sconvolto e furioso, doveva capirlo, non aggredirlo, o sarebbe finita male.
Pochi istanti dopo, l’auto di Michael entrò nel parcheggio e il ragazzo si fermò accanto alla moto di Sam, scendendo in fretta.
Li raggiunse e, lanciata un’occhiata ai danni, fece una smorfia disgustata.
- Pezzi di merda.- commentò, quasi sputandolo.
Dylan gli lanciò una lunga occhiata. – Come lo hai saputo?- chiese.
Il biondo alzò il mento. – Ero al bar dietro lo stadio e c’erano Johnny e altri stronzi che ne parlavano. Pare che sia da ieri notte che Bill va a dire in giro che intendeva “dare una lezione” allo “stronzetto arrogante che si crede un grande uomo”. – spiegò.
- Si può sapere di che state parlando?!- intervenne Sam, con le mani sui fianchi.
Fu ignorata.
- Quando sono arrivati sgommando, lui e i suoi amici idioti, erano già sbronzi e sovraeccitati. –
- Sono lì, adesso?- domandò Dylan, lapidario.
Michael scosse la testa. – Li hanno buttati fuori.- rispose.
- Dylan!-
La voce di Sam rimbombò nel parcheggio semi-vuoto e Michael si volse a guardarla come se si fosse accorto di lei solo in quel momento.
- Puckett. Stai bene?- le domandò.
- No, per niente, sono incazzata. Di che diamine parli? Bill, chi? L’idiota delle birre?- chiese.
Michael guardò Dylan e, subito dopo, posò una mano sulle spalle della ragazza.
- Non pensarci, Puckett. Dovresti tornare a casa e anche tu Dylan.- aggiunse, rivolgendosi all’amico.
- Non ci penso proprio.- rispose Sam.
- Bennett, mi occupo io della vetrina. Porta Puckett a casa.- insistette Michael, stringendo una spalla dell’amico.
Dylan serrò la mascella e annuì, afferrando le chiavi che l’altro gli porgeva.
- Sam, sali in macchina.- le disse.
La bionda, ovviamente, non accennò a muoversi.
- Sam.- la voce di Dylan cominciò a perdere il tono fintamente calmo utilizzato fino a quel momento.
- Bennett, ti avviso… -
- Ho bisogno di saperti a casa, Puckett, cosa c’è di difficile da capire, eh?- gridò, d’improvviso, il ragazzo, voltandosi a fronteggiarla, frustrato.
- E io ho bisogno di sapere cosa diamine ti passa per la testa, miserabile idiota!- lo imitò lei, alzando la voce di diverse ottave.
- Ragazzi.-
Il tono neutrale e pacifico di Michael fu una nota stonata, in quel momento.
- Bene!- sbottò Sam, superando il fidanzato con una spallata.
- Dove diavolo vai?!- sputò lui, allargando le braccia.
Sam salì in sella alla moto e accese i motori, infilando il casco senza abbottonarlo e togliendo il cavalletto.
- A casa! –
Lui parve sorpreso che lei avesse capito e accettato la sua richiesta.
- Puckett… - il tono di Dylan tornò normale, la voce più bassa, roca.
- Sì, certo, Bennet, lo so.- sputò lei, dando gas un istante prima che Dylan potesse afferrarla.
 Scomparve, lasciandosi dietro una nuvola di polvere.
 
 
 
- Carlotta, è molto tardi, se sei stanca, non fare complimenti e lascia pure. E’ stata una settimana impegnativa ed è Venerdì sera: avrai di meglio da fare.- le disse Trust, tornato dalla cucina del suo appartamento, dove aveva preparato del caffè per entrambi, mentre lei, seduta in terra nel mezzo del salotto, sfogliava libri e prendeva appunti.
L’uomo le porse una tazza fumante e lei, prendendola, gli sfiorò casualmente le dita.
Sorrise. – Non sono stanca, ma se lei preferisce che vada… - accennò ad alzarsi e l’uomo, che si era seduto sul divano foderato di verde scuro, scosse il capo e la fermò con un gesto della mano.
- Resta pure, non ho alcun programma e la tua compagnia è davvero piacevole.- le disse, togliendosi gli occhiali e depositandoli sul mobiletto lì accanto.
Carly avvampò e, per nasconderlo, si alzò con il libro che teneva tra le mani aperto di fronte al viso.
- Ho trovato questo passaggio che mi sembra interessante.- disse, avvicinandosi all’uomo.
Trust le fece cenno di sedersi e lei eseguì, stando bene attenta che la gonna alla marinaretta che indossava stesse al suo posto.
Trust inforcò di nuovo le lenti e si chinò, avvicinandosi, per leggere con lei.
- Vede? Dal punto in cui dice: “ … è gloria o distruzione?”.- indicò con l’indice la pagina.
Il Professore annuì. – Sì, mi piace. Potremmo inserirlo nel capitolo terzo, che ne pensi?-
Si volse a guardarla e si sorpresero di quanto fossero vicini.
Carly assentì, sorseggiando il caffè per celare l’imbarazzo.
Era ormai una settimana che, ogni sera, lei e Trust si attardavano a far ricerche, sfogliare libri di poesie e battere a macchina – lui era all’antica, non amava i computer.
Le prime volte si erano incontrati nel suo ufficio ma, dato che l’Università chiudeva troppo presto, per i loro gusti, avevano deciso di spostarsi a casa dell’uomo, sebbene la cosa mettesse Carly a disagio.
Certo, non un disagio dettato dal fastidio o dall’ansia; semplicemente, si sentiva molto nervosa a starsene lì, in casa dell’uomo per il quale aveva una cotta terribile, a respirarne il profumo e invaderne gli spazi più intimi e personali.
Eppure, Trust sembrava accettare la sua presenza in quel luogo, come se lei vi fosse sempre stata e, magari, se ne fosse allontanata per qualche tempo e, adesso, vi fosse ritornata.
La voce del professore le solleticò la guancia. – Sicura di non essere stanca?- le domandò, proprio a un soffio dal volto.
Voltandosi, Carly si ritrovò immersa nell’azzurro bruciante dei suoi occhi e, quando si sporse verso di lui e le loro labbra si sfiorarono, non si accorse nemmeno del libro che, abbandonato, le scivolava via dalle mani, cadendo al suolo.
Fu un bacio vorace, appassionato, fatto di desiderio a lungo represso e mani che si sfiorano, ansiose e timorose al contempo.
Trust fu il primo a riaversi e, scostandosi da lei come se si fosse bruciato, si alzò, portandosi una mano alla bocca e prendendo a camminare lungo il quadrato del salotto.
- Sono… sono mortificata… - balbettò Carly, stordita e rossa in volto.
Si sentiva una sciocca, una ragazzina superficiale e, per giunta, rifiutata.
Trust si fermò di fronte a lei e, afferratele le mani, la fece alzare.
- Oh, Carlotta, non dire così.- la pregò, carezzandole il viso con la nocca dell’indice.
Afferrò delicatamente una ciocca di capelli bruni e ne assaporò la consistenza setosa sotto le dita.
- Sono io a dovermi scusare.- disse, mentre i suoi occhi brucianti divoravano le labbra rosse della ragazza.
- Io sono l’adulto, il tuo professore, non avrei mai dovuto… invaghirmi, avvicinarmi a te.- mormorò.
I grandi occhi scuri di Carly si spalancarono, sorpresi e luminosi, eccitati, increduli: Trust era invaghito di lei!
Lui la voleva, non era solo una povera illusa!
Quell’uomo fine, elegante, colto, saggio, bello e intelligente, voleva lei!
Carly sorrise appena, scuotendo il capo. – Non dica così… io… io voglio che lei mi stia vicino, vicino quanto più lo desidera.- sussurrò, avvampando.
Trust la osservò a lungo, tormentato, poi sospirò, come se avesse combattuto una muta battaglia contro se stesso.
- Oh, Carlotta, sei così innocente e candida… come posso… come posso starti lontano?- sussurrò, prima di prenderle il viso tra le mani con delicatezza a baciarla, dolcemente, assaporandone l’essenza.
 
 
  
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