Capitolo 1.
Primipara attempata
Primipara
attempata.
Questo era
riuscita a sbirciare Mac dalla sua cartella clinica appoggiata sulla
scrivania della
dottoressa Sullivan del Naval Medical Center di San Diego che
l’aveva presa in
cura dietro consiglio della sua storica ginecologa di Bethesda. Fare
avanti e
indietro da una costa all’altra del Paese per nove mesi non
avrebbe avuto molto
senso, in particolare nelle sue condizioni, pertanto la scelta di
trovare
qualcuno che la seguisse in California era stata obbligata. La
gravidanza non
aveva creato grossi problemi, anche se l’endometriosi non
deponeva certo a
favore di Sarah.
Tantomeno la
sua età.
Mac era
consapevole di non essere più una ragazzina, ma quelle due
parole le erano
arrivate come un pugno in pieno petto e, se non fosse stata seduta,
probabilmente l’avrebbero fatta vacillare. La sua prima
reazione era stata
quella di ricordare al tenente medico Judith Sullivan di essere il
Colonnello
Sarah MacKenzie Rabb, ergo un suo superiore, e pertanto di rivolgersi a
lei con
il dovuto rispetto, altro che primipara
attempata. Poi però si era repentinamente pentita
di aver solo pensato una
cosa del genere: la nuova ginecologa l’aveva assistita con
grande attenzione,
disponibilità e competenza sin dal primo appuntamento e
certo non si meritava
un trattamento del genere.
Così
non le
era restato che tornare a casa rimuginando su quella definizione. Suo
marito
non era riuscito ad accompagnarla alla visita di controllo per un
delicato
problema di lavoro che gli aveva impedito di lasciare
l’ufficio, sebbene fino a
quel momento le fosse sempre stato vicino, vivendo con lei le gioie e
le ansie
di quel periodo straordinario della loro esistenza. E quel giorno,
più che mai,
avrebbe voluto averlo accanto a sé. Per togliersi dalla
mente quella condanna, attempata,
che sembrava non lasciare
nessuna speranza. Quello stupido aggettivo l’aveva fatta
sentire una vecchia
babbiona che si era ritrovata inspiegabilmente incinta.
Dopo aver
attraversato la porta di ingresso della loro villetta, Sarah raggiunse
il
divano e sprofondò su di esso, lasciando cadere la borsa per
terra. Non aveva
nemmeno la forza di togliersi il cappello. Era entrata nella trentesima
settimana della sua gravidanza. Nonostante fosse solo inizio maggio, a
San
Diego splendeva un sole impietoso che le faceva gonfiare caviglie e
piedi a
dismisura e la faceva sentire più simile a una balena
spiaggiata che a un
essere umano. Meno che mai a un essere umano di sesso femminile.
Attempata.
Quell’aggettivo
continuava a ronzarle nella testa, senza darle tregua.
Accarezzò dolcemente il
pancione, poi si passò una mano stancamente sulla fronte e
infine si massaggiò
le tempie. Dopo aver superato il primo trimestre, nel quale tutto
sommato le
nausee erano state sopportabili anche senza far ricorso
all’addestramento militare,
Mac aveva cominciato ad accusare spossatezza e sonnolenza
più o meno a tutte le
ore del giorno. Dava la colpa alla mancanza di caffeina, visto che per
il bene
della creatura che portava in grembo aveva dovuto rinunciare al suo
caffè
forte, stile marine, per convertirsi alle tisane che suo marito a casa,
e la
sua fedele assistente Coates al lavoro, non le facevano mai mancare.
Certo che
quella bevanda scura, aromatica e corroborante era tutta
un’altra storia…
Doveva
essersi assopita sul divano perché quando riaprì
gli occhi si ritrovò distesa,
senza scarpe e cappello e con un cuscino sotto la testa e uno sotto le
caviglie.
Sorrise e alzò gli occhi in direzione del responsabile di
quel cambiamento.
“Ben
svegliata marine, come è andata la visita?” le
chiese Harm, che la osservava
dalla poltrona di fronte al suo improvvisato giaciglio.
“La
visita
bene, lui è in forma” gli rispose Sarah.
“O
lei…” la
corresse immediatamente Harm. Non avevano voluto sapere il sesso del
nascituro,
preferendo mantenere la sorpresa fino all’ultimo, ma erano
entrambi convinti
che si trattasse, rispettivamente, di un maschio e di una femmina e,
tanto per
cambiare, nessuno dei due aveva voluto dar ragione all’altro.
Come da copione.
La risposta
della moglie, però, non aveva pienamente convinto Rabb che
continuò a indagare:
“E’ successo qualcosa?”
Sarah si
limitò ad annuire muovendo impercettibilmente la testa.
Harm si
spostò dalla poltrona e si avvicinò
immediatamente al divano dove Mac era
ancora sdraiata. “Cosa c’è? Stai male?
Avevi detto che la piccola stava bene…
allora sei tu? Ancora l’endometriosi? Ti accompagno in
ospedale?” Il panico si
era impossessato di lui. Era capacissimo di affrontare situazioni
estremamente
pericolose sotto il fuoco nemico, magari a 80000 piedi di altezza, e
mantenere
una calma glaciale, ma quando si trattava di Sarah e della loro bambina
(“o
bambino”, come lo correggeva sempre lei) perdeva la testa e
andava
immediatamente in iperventilazione.
“Harm
respira. Stiamo bene entrambi, è solo
che…” cercò di calmarlo sua moglie.
“Solo
che
cosa?”
“La
dottoressa mi ha etichettato come primipara
attempata. Harm, sono vecchia!” dichiarò
Mac, non riuscendo ad evitare un
tono piagnucoloso che non riconosceva come suo, ma che ultimamente le
capitava
di assumere sempre più spesso. Accidenti
agli ormoni, pensò fra sé.
“Tutto
qui?”
replicò lui.
“Come
tutto
qui?” si risentì Sarah, colpita dalla mancanza di
sensibilità di suo marito. Ah
già, è pur sempre un uomo, si disse.
Mentre stava
pronunciando quelle parole, Harm si morse la lingua. Sapeva che questa
uscita
avrebbe fatto infuriare Sarah. Aveva imparato che era più
semplice e salutare
far atterrare un Tomcat su una portaerei grande come un francobollo in
mezzo a
una tempesta di neve al largo della Groenlandia piuttosto che sorbirsi
l’ira di
sua moglie, così la prese fra le braccia e le
sussurrò dolcemente in un
orecchio: “Sarah MacKenzie Rabb, mi hai fatto prendere un
colpo. Per me sei la
donna più affascinante, meravigliosa, sexy e giovane che
abbia mai incontrato e
l’unica che voglio avere al mio fianco per il resto della mia
vita.
Quell’etichetta non ti definisce, né ai miei occhi
né a quelli di chi ti sta
intorno. L’ho visto, sai, come ti guardava quello sbarbatello
del maggiore
Smith, sì, l’ultimo arrivato del tuo staff, alla
cena di gala del mese scorso.
Avrei avuto voglia di spaccargli la faccia e ricordargli che non sei
più sul
mercato!”
Mac si
lasciò coccolare da suo marito, che sapeva bene come usare
il suo fascino e la
sua dialettica per tranquillizzarla. Sarah conosceva tutti i trucchetti
del
famigerato avvocato Rabb in tribunale, ma da quando si erano messi
insieme
continuava a stupirsi per la capacità con cui, con poche
parole, il suo
marinaio riusciva a mettere ordine nel suo mondo.
La crisi
sembrava passata, così Harm la aiutò ad alzarsi
dal divano e le consigliò di
fare una doccia rinfrescante mentre lui avrebbe pensato alla cena.
Sarah non se
lo fece dire due volte e si diresse verso la zona notte, lasciando suo
marito
di corvée in cucina.
Togliendosi
la divisa che cominciava di nuovo a starle stretta, nonostante fosse
già
passata alla linea premaman, e la biancheria, Sarah fece un profondo
respiro
che si trasformò in un sospiro di sollievo appena
percepì l’acqua fresca
scorrerle sulla testa e sul corpo. Bastarono pochi gesti per farla
sentire
subito meglio. Si avvolse nell’accappatoio e
frizionò velocemente i capelli con
una salvietta, senza pensare ad asciugarli con il phon: faceva troppo
caldo per
sottoporsi a quell’inutile tortura. Si limitò a
tenerli su con una pinza e
indossò una t-shirt di suo marito e un paio di pantaloni
corti, dopo essersi
regalata un bel massaggio sul suo pancione con la crema idratante alla
vaniglia, un’essenza che piaceva molto anche ad Harm.
Recandosi in
cucina, si fermò sulla porta ad ammirare suo marito che
riusciva ad essere
tremendamente affascinante anche mentre scolava la pasta indossando
degli
improbabili guanti da forno a forma di aragosta.
Avevano
appena finito di consumare le pietanze preparate da Rabb quando udirono
squillare
il telefono. Entrambi si immaginarono beghe lavorative: ricoprivano
posizioni
per le quali l’orario degli impegni era estremamente
variabile e spesso di
lunga durata. Però, se fossero state questioni
professionali, probabilmente
sarebbero stati contattati ai rispettivi cellulari.
“Sarà
tua
madre? Le avevo promesso che le avrei fatto sapere come andava la
visita ma mi
sono dimenticata di chiamarla” disse Mac.
Harm
annuì e
disse: “Può darsi. Rispondo io e poi te la
passo”
Si
alzò e
andò nell’ingresso dove si trovava
l’apparecchio: “Rabb”
Una voce
femminile, molto diversa da quella di Trish, gli chiese:
“Comandante Rabb? Sono
l’infermiera Wilson del reparto di terapia intensiva
dell’ospedale di
Blacksburg. Lei risulta fra le persone da contattare per Matilda Grace
Johnson,
è corretto?”
Ad Harm si
gelò il sangue. “Corretto. Sono stato il suo
tutore fino all’anno scorso, mentre
suo padre era in riabilitazione. Cosa le è
successo?”
“Purtroppo
ha avuto un brutto incidente.”
Nota
dell’autrice
Qualche giorno
fa, messaggiando con
un’amica, siamo giunte alla conclusione che entrambe siamo
affette da
“personaggite acuta”. Dicesi personaggite acuta
quella malattia per cui un
autore – o nel caso specifico un’autrice
– non riesce a staccarsi dai
personaggi che ha creato e sente l’impulso irrefrenabile di
accompagnarli
ancora per un po’ lungo la loro strada.
Ecco dunque il
risultato di quella
sindrome: alcuni capitoli su Harm e Mac, post miracolo di Natale.
Grazie al mio
angelo custode che ha
avuto la pazienza di leggere la storia in anteprima e mi ha regalato
tantissimi
preziosi consigli e grazie a tutti voi per avermi donato un
po’ del vostro
tempo ed essere arrivati fino qui.
Deb