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Autore: Asgard458    22/03/2015    1 recensioni
Dal testo: Un giorno mi ritrovai a casa sua. Gli passai davanti, ma lui sembrava non vedermi. Lo chiamai, ma non sembrava sentirmi. Come se fossi un fantasma. Passai un sacco di giorni nella sua abitazione, senza essere notata. Però più gli parlavo, più sembrava che lui sentisse qualcosa.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi ritrovai nella stessa stanza del mio ex marito. Non sapevo come avessi fatto, ma ci ero riuscita. Avevamo divorziato perché non eravamo compatibili. All’inizio sembrava tutto cosi roseo e felice, ma da quando ci siamo sposati, è diventato tutto un inferno. Litigavamo sempre. Le cose piccole le facevamo diventare grandi, e quelle grandi le facevamo diventare enormi. Ogni giorno della settimana, senza eccezioni, era una battaglia da combattere. Però, nonostante ciò, ci amavamo. È stata una scelta difficile, ma dopo tanto parlare, abbiamo preso la nostra decisione. Non era l’uno che chiedeva il divorzio all’altro, è stata una decisione presa insieme, con tanto dolore e tanti ripensamenti. Si rivelò la scelta giusta.  Ma adesso che lo vedevo, quei sentimenti riaffioravano. Lui era la persona più nobile d’animo che avessi mai conosciuto. Un vero galantuomo. Molte ragazze mi dicevano: “Ma dai! Lascia quello sfigato! Puoi trovare di meglio”. Lo conobbi all’università la prima volta, a lezione di Letteratura Medievale. Aveva lo sguardo fisso sul suo quaderno, dove appuntava ogni singola cosa. Periodicamente, alzava lo sguardo verso il professore per capire cosa stesse dicendo. Erano movimenti minimi e semplici, ma li rendeva magici, come se la lezione fosse un valore necessario per la vita. Gli occhi brillavano ad ogni parola del professore, e la mano esultava ogni volta che doveva essere usata. Un giorno, presi coraggio e mi sedetti vicino a lui. Non dissi nulla tutto il tempo, ero una ragazza timida ed insicura. Mi dicevano tutti che ero bellissima, ma non ci credevo mai. Capelli lunghi mossi e occhi verdi non penso vadano bene insieme. E neanche il viso era un granché. Ho avuto crisi di depressione. Non riuscivo proprio a farmene una ragione. Anche quando gli stavo vicino, non pensavo altro che: “Non si girerà mai. Non starà certo a guardare un cesso come te. Lascia perdere”. Quelle parole mi smontavano. Con ogni ragazzo era la stessa cosa. Prendevo coraggio nel parlargli e il giorno dopo mi rinchiudevo in casa in preda alla depressione. Piuttosto che ascoltare la lezione, passai tutto il tempo a guardare il suo modo di prendere appunti. Non avevo mai notato che ogni volta che alzava la testa per ascoltare, portava la matita alla bocca, facendola sbattere una o due volte sul labbro prima di tornare a testa china. Inoltre, notai che non aveva una bella grafia. Non che mi interessasse, però me lo immaginavo come un essere perfetto, invece anche lui aveva dei difetti. A fine lezione, lui non si alzò. Stava scrivendo ancora qualcosa sul quaderno. Forse stava finendo di prendere appunti. Poteva essere una buona occasione per parlargli. Però non avevo il coraggio. L’aura di sapere e calma che aveva emanato durante tutta la lezione mi prese in pieno. Non sapevo cosa fare, perciò mi misi a leggere. Presi il primo libro che trovai nella borsa e iniziai a sfogliare nervosamente le pagine. Ogni tanto, sbirciavo. Stava scrivendo tanto. E sembrava che non si volesse fermare più. La classe stava ancora sfollando, però una ragazza si fermò davanti a lui; appoggiò la mano vicino al suo quaderno e parlò, masticando rumorosamente una gomma:
“Ehi belloccio, cos’è che stai scrivendo?”
Lui non rispose. Anzi, aggrottò le sopracciglia; sembrava scocciato. Lei sembrava la tipica ragazza popolare. Capelli biondi, alta, magra, bel seno, bel viso, occhi azzurri. Gli si era rivolta una tale ragazza, e lui sembrava scocciato. Non capivo questo suo comportamento. Dovrebbe ritenersi fortunato.
“Ehi! Sto parlando con te! Non mi senti?” insistette la ragazza. Lui continuò a non rispondere. Vidi il suo labbro alzarsi, rivelando i denti, come se si stesse per trasformare in un cane e ringhiarle addosso in preda alla rabbia. Per quello che riuscivo a vedere, erano denti bianchissimi. Aveva dei canini veramente pronunciati. Forse era davvero un lupo.
“Sai, la ragazza più bella dell’università è venuta a parlarti, dovresti mostrare un minimo d’interesse”. La sua pazienza raggiunse il limite. Smise di scrivere, alzò la testa dal foglio e la guardò con occhi in fiamme che emanavano odio allo stato puro. La ragazza sbiancò e restò ferma sul posto. Lui prese fiato e aprì la bocca:
“Se la ragazza più bella dell’università è venuta a parlare con me deve essere molto disperata, ergo, tale ragazza non ha un fila chilometrica di ragazzi pronti a farle la corte. Ergo, la ragazza più bella dell’università non è la ragazza più bella dell’università, quindi io non devo portare rispetto a te, ma magari il contrario. E poi, perché dovrei portare rispetto ad una stupida gallina che si ritiene “la più bella” quando in verità anche un sacco di patate è più bello di lei? Fa un favore a me e all’umanità e vedi di buttarti dal terzo piano, cosi non dobbiamo più sentire la tua voce stridula che urla “voglio attenzione” insieme a quel tuo push-up del cazzo. Levati dalla mia vista”. Non avevo mai sentito parole tanto forti dette negli occhi di una ragazza con tanta sicurezza. Ero spaventata. Non immagino la ragazza. Rimase pietrificata. Quando riprese un minimo di colorito, se ne andò esordendo la frase: “Ma vaffanculo, non meriti la mia stessa aria. Me ne vado”. Sembrava davvero sconfitta. Aveva racimolato delle parole qua e là ed è uscita una frase di fortuna. Notai intanto che le fiamme nei suoi occhi si erano spente nel momento stesso in cui era tornato a scrivere. “Sei stato veramente… spaventoso”. Quelle parole mi uscirono senza pensarci. Si girò verso di me, con aria alquanto spaesata. Forse perché mi aveva visto rossa in faccia in preda all’emozione. Una volta realizzata l’assurdità detta, mi coprii la faccia con il libro, e iniziai a giustificarmi in preda al panico: “No, cioè… non volevo dire… spaventoso nel senso… che… uh…”. Liberai gli occhi dal libro. Volevo vedere i suoi occhi carichi d’odio, cosi si sarebbe disfatto anche di me e avrei chiuso questa stupida cotta. Abbassai pian piano il libro e vidi che stava sorridendo. Ricoprii di nuovo la faccia e cacciai un piccolo grido di sofferenza. Lui parlò e mi disse: “Non ti preoccupare, me lo dicono spesso”.
“No, non era quello che intendevo…”, risposi d’impulso.
“’Spaventoso’ nel senso che hai organizzato un discorso distruttivo in poco tempo. Più che ‘spaventoso’ sarebbe stato meglio dire ‘forte’”.
Mi sorrise di nuovo, chiuse il quaderno e mi propose di vederci di nuovo domani a questa lezione. Annuii come mai ho fatto in vita mia. Prima di uscire dalla porta, mi guardò e mi disse: “Se fossi stata tu a chiedermi cosa stessi scrivendo, te l’avrei detto subito”, ed uscì. Il giorno dopo ci incontrammo nella stessa aula; stavolta ci salutammo e chiacchierammo prima dell’arrivo del professore. Non riuscivo a tirare fuori degli argomenti concreti, però riuscivo a dialogare. L’unica cosa che mi rimbombava in mente erano le parole di ieri. Quindi non stava scrivendo gli appunti? Forse avrei dovuto chiederglielo.
“Senti, cos’è che-“
La porta si aprì, con il professore che la seguiva. Decisi di rimandare la domanda alla fine della lezione. Non riuscivo a seguire. Ero troppo emozionata. Ero finalmente riuscita, per una volta nella mia vita, a parlare con un uomo. E anche lui non sembrava infastidito dalla mia presenza. Questo voleva dire molto per me. Prendevo sempre più fiducia. Alla fine della lezione, vidi che lui continuava, imperterrito, a scrivere. Feci un respiro profondo e provai a rifare la domanda:
“Senti, ma cos’è che stai scrivend-“
Le mie parole vennero interrotte dalla ragazza di ieri. Stavolta era con un gruppo di energumeni. Lui non li degnò di uno sguardo. Si avvicinarono e iniziarono ad insultarlo. Erano insulti senza senso, neanche minimamente pensati. Sembrava che a lui non interessasse. Anzi, accennava quasi un sorriso. Forse di compassione, perché non erano bravi ad insultare come lui. O forse era solo divertito. Decisi di interrompere quell’atrocità. Mi alzai ed urlai: “Smettetela!”; però uscì solo una vocina docile e fragile. Allora presero ad insultare me. I soliti insulti che ho ricevuto per tutta la mia vita. Pensavo di riuscire a sopportarli, ma non era così. Sentivo che stavo per crollare. Sentivo che stavo per piangere. Lui si alzò, si mise davanti a me e iniziò:
“Non è carino prendersela con una ragazza”
“Potremmo dire la stessa cosa di te, faccia da cazzo!” rispose uno del gruppo.
“La differenza tra il mio caso e il vostro è che i vostri insulti sono infondati e urlati. Nel mio caso, invece, ho solo chiacchierato con la vostra amica”. Sapeva come giocare le carte, ma non era abbastanza.
“Brutto stronzetto! Lo sai che questa ragazza tanto dolce è venuta da noi PIANGENDO! Le hai davvero fatto male!”
“È venuta da voi piangendo, chiedendovi vendetta e promettendovi un bocchino a testa; mi sbaglio?”
Uno di quei ragazzi si avvicinò e mi prese per il braccio. Mi stringeva forte, come se volesse spezzarmelo. Mi stava tirando verso di lui, ma venni fermata.
“Non è la scelta giusta quella che hai fatto. Non vuoi finire gettato da questa rampa di scale come un sacco dell’immondizia, vero?” ribatté lui. Intanto prese il braccio dell’energumeno ed iniziò a stringerlo, forse anche più forte di come faceva lui.
“Lasciala”. L’energumeno intanto stava iniziando a sentire il dolore. La sua faccia si contorceva.
“Lasciala”. Per quanto forte lo stesse stringendo, l’energumeno non lasciava la presa, ma sentivo che l’allentava.
“TI HO DETTO DI LASCIARLA!”. Vidi il bracci destro ancora attaccato a quello dell’energumeno e il pungo sinistro nella sua guancia destra, rendendo ancora più contorta la sua espressione. Gli altri ragazzi passarono all’attacco. Lo lasciarono con il petto e la pancia maciullati di lividi. Durante il pestaggio, non ho fatto altro che accasciarmi a terra e piangere. Non sapevo cosa fare. Erano in quattro che pestavano un tizio solo a terra. Ero spaventata. Lui non urlò mai, ha incassato tutti i colpi mantenendo una faccia impassibile. Non gli ha dato la soddisfazione di vederlo sofferente. Quando il pestaggio finì, lo presi in spalla e lo portai in infermeria. Era svenuto, credevo sarebbe morto. I pugni di quattro energumeni presi tutti in corpo non devono averlo lasciato incolume. Aiutai l’infermiera a medicarlo e fasciarlo per bene. Le raccontai cosa fosse successo e mi giurò che avrebbe preso provvedimenti. Non l’avrebbero passata liscia. Non m’importava. Volevo solo che lui si riprendesse. Passai tutto il resto della giornata accanto a lui. Vicino al letto. La sua faccia era imperturbabile. Sembrava la stessa di quando scriveva. Non gli ho più fatto quella domanda. E se non si fosse svegliato? Cosa avrei fatto? Sarei andata a leggere il suo quaderno? Non so se ne sarei stata capace. Passai tutta la notte sveglia a vegliare su di lui, aspettando pazientemente il suo risveglio, ma senza fortuna. Ormai distrutta da quella giornata e dall’ansia dell’attesa, piansi. I miei occhi si prosciugarono per via di tutte le lacrime che versai. Se solo fossi stata più forte. Se solo fossi riuscita ad intervenire. Se solo mi fossi presentata prima. Appoggiai la testa sul suo letto, accanto a lui. Versai lacrime fino ad addormentarmi. Dormii malissimo. Ripensavo in continuazione a quella scena. Lui mi ha salvato,  ed io non sono riuscita a salvare lui. L’ho ucciso. Sentii una mano che mi accarezzava i capelli. All’inizio pensavo fosse un sogno, ma quando mi svegliai mi accorsi che era la sua. Lo guardai con occhi increduli. Lui mi sorrise ed esordì con un “Buongiorno”. I miei occhi si caricarono ancora una volta di lacrime. Nel vano intento di parlare, tentai di scusarmi dell’accaduto. Appoggiai di nuovo la testa sul letto. Lui si avvicinò a me, mi alzò la testa e mi disse: “Non è colpa tua. L’importante è che tu sia rimasta incolume. Se riesco a proteggere qualcuno, non m’importa dei danni che subisco”. Era una bugia. Come poteva non essere arrabbiato con me? L’ho ridotto in quello stato. Tra un singhiozzo e l’altro, riuscii a parlare: “Non… non è vero… io… ti ho… ridotto… cosi…”. Scesero sempre più lacrime mentre lo dicevo. Lui mi sollevò vicina a lui e mi abbracciò, sussurrandomi nell’orecchio: “Va tutto bene. È tutto passato. Non è colpa tua”. Lo abbracciai con tutte le mie forze e piansi nelle sue braccia.  Rimanemmo cinque o dieci minuti cosi. Seduti sul quel lettino, con io sopra di lui con le braccia attorno al suo collo, e lui che mi stringeva con la mano destra e la sinistra mi accarezzava i capelli sulla schiena. Quando mi calmai, mi disse: “Hai veramente dei bei capelli”
“Grazie… sicuro che non ti fa male se sto sopra di te?”. Me ne preoccupai solo ora, sono un’egoista. Lui stava soffrendo le pene più atroci ed io me ne approfittavo.
“Sei stata tu a portarmi qui?” mi domandò. Io annuii.
“Davvero? Mi dispiace. Mi hai anche medicato?”
“Ho aiutato l’infermiera” risposi. Mi sentivo male per quando sono stata egoista. Adesso gli farà sicuramente più male il petto perché io ci sto praticamente sopra.
“Hai fatto davvero un bel lavoro. Mi sembra di essere rinato!” lo disse con un sorriso e accennando una risata alla fine della frase. Mi scostai da lui, non ce la facevo più a stare cosi sapendo che stava soffrendo. Forse non stavo ascoltando ed ero troppo immersa nei miei pensieri. Lui aggiunse:
“Senti, grazie per tutto quello che hai fatto. Per ringraziarti, posso offrirti un caffè? Magari scambiamo anche due chiacchiere con più calma”.
Io scossi la testa con forza e dissi: “No! Io non ho fatto niente! Come puoi ringraziare me dopo quello che è successo?”
“Perché sei stata sempre qui; mi sono svegliato nel mezzo della notte, e ho visto te che dormivi. Ho aspettato l’alba. Non riuscivo a dormire. E tu mi hai fatto compagnia. E in più mi hai portato qui. Un caffè è il minimo che possa fare”.
Ero commossa. Non pensavo che significasse tanto per lui. Presa dall’emozione e dalle lacrime, lo abbracciai un’ultima volta. E da quel momento, iniziammo a frequentarci. Scoprii che era un ragazzo chiuso. Di solito parlava poco, ma a me diceva tutto, come io dicevo tutto a lui. Eravamo diventati inseparabili. Passavamo tutto il giorno insieme. A volte anche la notte. Ci mettemmo insieme verso la fine dell’università. Passammo momenti molto intensi. Scoprii anche un lato dolce di lui. Era molto insicuro sulle questioni di coppia, e a dir la verità anche io, quindi ogni volta che non sapevamo cosa fare, ci parlavamo e buttavamo via le nostre insicurezze. La nostra relazione era basata sul dialogo. Se avevamo un problema, se ne parlava e si trovava la soluzione insieme. Con lui, passai i più bei momenti della mia vita. Iniziai a sentirmi più sicura e mi presi cura di me stessa un tantino di più. A lui piacevano molto i miei capelli. Sarebbe stato ore ad accarezzarli, annusarli, cullarli. Mi diceva sempre che se esisteva un Dio che ha creato tutto, il primo giorno ha creato la terra, il secondo gli animali, il terzo l’uomo, e la settimana dopo l’ha impiegata solo per rendere perfetti i miei capelli. Iniziammo anche a convivere insieme. I primi tempi non sapevamo bene come comportarci, ma prendemmo l’abitudine in poco tempo. Io tendevo molto al disordine, lui tendeva molto a trascurarsi, quindi lui curava la casa ed io curavo lui. Sembrava l’uomo ideale. Avevo trovato il mio paradiso terrestre. Passarono due anni, ed un giorno si presentò e mi chiese, con un anello in mano, se volevo sposarlo. Facemmo le nozze in men che non si dica. E ci trasferimmo in una casa più grande. Sembrava il sogno di ogni coppia. Però da lì iniziarono i problemi. Iniziammo entrambi a lavorare e venimmo sopraffatti dallo stress. Ogni giorno era un’agonia tornare a casa. Litigavamo per ogni cosa. Non ce la facevamo più. Chiedemmo il divorzio. Però un giorno mi ritrovai a casa sua. Gli passai davanti, ma lui sembrava non vedermi. Lo chiamai, ma non sembrava sentirmi. Come se fossi un fantasma. Passai un sacco di giorni nella sua abitazione, senza essere notata. Però più gli parlavo, più sembrava che lui sentisse qualcosa. Forse stava iniziando a sentirmi. Per due settimane gli parlai. Vedevo a volte che annuiva o rispondeva con monosillabi. Un giorno decise di andare dallo psicologo. Sembrava turbato da qualcosa. Lo seguii. Andai con  lui ad ogni singola sessione, per tranquillizzarlo. Per rassicurarlo. “Vedrai che il tuo problema si risolverà. Ci sono io qui con te ad aiutarti”. Cosi gli dicevo, però lui sembrava non credermi. Un giorno, sentii che iniziò a litigare con lo psicologo. “TI DICO CHE È LEI!” urlava. Sentii il dottore che tentava di calmarlo, ma lui uscì dalla porta e si mise a correre. Verso casa mia. Perché andare da me? Io ero proprio lì accanto a lui. Arrivò alla mia porta. Si calmò e bussò. Nessuno rispose. Bussò ancor più insistentemente. Nessuno rispose. Sfondò la porta. Si mise a cercarmi in ogni singolo angolo della casa, urlando il mio nome. Io tentavo di rassicurarlo: “Calmati, caro. Io sono qui, di fianco a te, come sempre”. Si fermò di scatto e, per qualche strana ragione, camminò verso le scale. Andò al piano di sopra, verso la mia camera da letto. La mia casa sembrava un tantino diversa. Più trasandata, come se fossi stata via tanto tempo. Non ricordavo di essere partita, ne’ di essermi trasferita. Arrivati davanti alla porta della camera da letto, si sentiva una puzza tremenda. Sembrava che qualcosa stesse andando a male. Abbassai lo sguardo e vidi un paio di blatte che stavano allegramente camminando. Urlai e feci un salto all’indietro. Intanto vidi lui che mise la mano sulla porta e chiamò di nuovo il mio nome. “Sei li dentro?” chiese. Notai che c’erano delle blatte che camminavano anche sulla porta, insieme a dei ragni di varia misura. Stavo per vomitare. Lui aprì dolcemente la porta, rimase sull’uscio qualche secondo e poi si accasciò a terra piangendo. Non capivo il suo comportamento. Mi avvicinai alla porta e mi affacciai. Una stanza scura piena fino al soffitto di blatte e ragni che si arrampicavano su tutte le pareti. Quando la porta si aprì, molti insetti scapparono, però la maggior parte rimase. Sul letto vidi un’immensa ragnatela. Sembrava che prendesse una forma molto conosciuta. Mi avvicinai al letto. Non pensai più a blatte e ragni, volevo solo sapere cosa fosse quella cosa sul letto. Più mi avvicinavo, più assumeva una forma familiare, una forma umana. Il corpo di una donna coperto da una ragnatela molto fitta. Era lasciata libera soltanto la testa. Scansai i capelli che coprivano la faccia. Il tempo si fermò. Come il battito del mio cuore. Anzi, temo che quello abbia smesso di battere molto tempo fa. Perché quel volto era coperto da ragni e vermi che danzavano insieme, ma si vedeva chiaramente che era il mio. Ero diventata la principessa di quegli insetti e l’angelo custode del mio ex marito, ormai distrutto.
   
 
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