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Autore: Asgard458    24/03/2015    0 recensioni
Cosa succede se da un giorno all'altro ti ritrovi un debito con un Don di qualche famiglia mafiosa? Inizi a conoscere l'euforia, l'adrenalina, il rimorso e la solitudine.
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pensando a tutte le persone che avevo fatto soffrire, restai fermo davanti al cadavere insanguinato di quell’uomo che avevo appena ucciso. Le mani fredde e rosse tremavano dall’eccitazione, il respiro affannato mi trasportava la mente in un altro luogo. Le gambe tremavano, il cuore batteva. Non mi ero mai sentito cosi bene come quando uccidevo. Eppure è iniziato tutto per via di un debito. Dieci milioni ad un clan mafioso di cui non sapevo neanche l’esistenza. Sono stato una semplice vittima. Mi dicevano che dovevo pagare il Don, il Don mi aveva fatto un grande favore e adesso dovevo pagare, ero in debito con il Don. Non sapevo chi fosse il Don, ne’ cosa avesse fatto per me, però intanto avevo la mafia alle costole che m’imponeva di pagare dei soldi che non avevo. Un giorno mi accompagnarono da questo Don. Lo incontrai in un ristorante, nella stanzetta privata in fondo al locale. Era buio, non riuscivo a vedere la sua faccia. L’unica cosa che vedevo era il fumo del sigaro che gli usciva dalla bocca. Mi disse quanto io fossi importante per lui, essendo uno di “famiglia”, e quanto lui fosse dispiaciuto del fatto dei dieci milioni, però non c’era alternativa: pagare o morire. Lo supplicai di estinguere il debito o almeno di abbassarlo, lo supplicai anche di ricordarmi quale fosse il favore, ma non si smuoveva di un centimetro dalla sua posizione. Gli dissi che non avevo dieci milioni, e lui mi puntò addosso la sua Smith & Wesson. Si alzò dalla sedia e il suo corpo si avvicinò alquanto lentamente al mio. La sua pancia ballava da una parte all’altra ad ogni passo che faceva, finché non arrivò a mettermi la canna sulla fronte.
“Sei pronto a morire?” mi disse. Io presi la canna della sua pistola e me la misi in bocca. Lo guardai negli occhi, o dove presumevo avesse gli occhi, e urlai: “SI, SI SPARAMI! SONO PRONTO!”. Il Don rimase in silenzio. Sentivo gli occhi puntati su dei me. Non so se era lui o i suoi picciotti ai lati del tavolo. Il Don iniziò a ridere e, togliendomi la pistola dalla bocca, mi diede un paio di schiaffi amichevoli. Balbettò qualcosa riguardo ad un accordo, che mi avrebbe permesso di saldare il mio debito. Sempre meglio di niente, accettai senza esitare. Dopodiché chiesi in cosa consistesse questo “accordo”.  Il Don continuò, imperterrito, a ridere. Mi disse che dovevo diventare un suo picciotto. Ancor più nello specifico, un suo sicario. Rimasi stupito, ma non più di tanto, in fondo stavo parlando con un mafioso. Anzi, l’assassino non è la cosa peggiore che mi potesse capitare, avrebbe potuto chiedermi di fare a pezzi qualche cadavere, o peggio, di scioglierlo nell’acido. Il Don fece un cenno al picciotto, che mise sul tavolo una valigetta. Mi fece segno di aprirla. Dentro c’era una pistola. Una Glock calibro 9. La tipica pistola d’ordinanza americana. Non ne avevo mai vista una dal vivo. Ero un amante delle armi, ma non ne avevo mai maneggiata una. Il Don mi chiese se ero bravo con le armi, scossi la testa. “Ti ci abituerai” mi disse. Mi diede la foto di un tizio. Non lo conoscevo, ne’ l’avevo mai visto in vita mia. Era il mio “obiettivo”. Come pretendeva che io lo uccidessi? Mi salutò, dicendomi di vederci lì domani, stessa ora. Uscii dal ristorante e mi diressi verso casa, con una foto in tasca e una pistola nei pantaloni. Non dormii quella notte. L’idea di uccidere qualcuno era troppo per me. Però non avevo altra scelta. Mi alzai presto, distrutto da una notte insonne. Mi trascinai verso la porta ed uscii. Avrei dovuto vedere il Don la sera, ma dovevo vedermi con un suo picciotto la mattina presto. Era già venuto a prendermi, in giacca e cravatta, appoggiato sul cofano di una macchina nera con vetri oscurati. Mi fece salire e mi portò lontano. Ci fermammo in mezzo ad un bosco. Mi fece cenno di uscire. Camminammo ancor più lontano, fino ad arrivare ad un capannone abbandonato. Una volta dentro, tirò fuori la pistola. La fece tirare fuori anche a me. Puntò la pistola verso il fondo del capannone, dove c’erano dei barattoli in piedi su un ripiano. “Sparagli” mi ordinò. Avevo visto tanti film, decisi quindi di copiare la tecnica hollywoodiana. Puntai la pistola verso il primo barattolo e sparai. Un forte botto mi perforò le orecchie. Le mani non ressero il rinculo dell’arma che mi sfuggì dalle mani. “Nonostante sia la tua prima volta, l’hai centrato in pieno”. Ripresi la pistola da terra e guardai il barattolo a terra. Mi disse di continuare. Uno dopo l’altro, presi tutti i barattoli. Il rinculo divenne più sopportabile un proiettile dopo l’altro, insieme al botto provocato dall’esplosione nella camera di scoppio. Rimase l’ultimo barattolo, ma il caricatore era vuoto. “Tieni sempre a mente il numero di pallottole che hai”. Uscimmo dal capannone e ci dirigemmo verso la macchina.
“Hai mai sparato?” mi chiese.
“No, è stata la mia prima volta. Devo dire che è stato emozionante”
“Sei stato bravo per essere la tua prima volta. Aspetta di farlo su un uomo, poi dimmi”.
Mi ero dimenticato che questa “lezione” mi sarebbe servita per uccidere l’uomo nella foto.
“Per il tuo primo incarico, ti farò da assistente e ti introdurrò al mestiere”
Di istinto lo ringraziai, ma avrei voluto solo fuggire. Pagare o morire. Ho fatto una stronzata ad accettare quel compromesso. Mi accompagnò al ristorante dove mi sarei dovuto vedere con il Don. Mi portò al tavolo. Il picciotto gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Il Don mi guardava, con un sorriso sulle labbra. Iniziò a ridere. Mi diede un cellulare. Mi disse che quel cellulare serviva solo per “lavoro”. Dovevo tenerlo sempre acceso. Poi mi fece vedere una mappa. “Il tuo uomo, domani, si troverà qui. Passa con la macchina e mettigli tre colpi in testa. Ti accompagnerà Luigi, vedi di non fare stronzate, o i tre colpi in testa li metto io a te, capito?”. Annuii. Poi mi cacciò dal ristorante. Luigi mi accompagnò fino a casa. Era il picciotto con cui avevo passato la giornata a sparare ai barattoli. Anche quella notte non dormii. La passai a pensare a quel poveraccio che avrei dovuto uccidere il giorno dopo. L’indomani, una volta salito in macchina con Luigi, gli chiesi cosa avesse fatto di male questo tizio per meritarsi tre pallottole in testa.
“Meno sai, meglio è per te. Tienilo a mente”. Le domande non erano ammesse. Ci fermammo ad un angolo. Presi la Glock in mano, aspettando il mio obiettivo. “Dovrebbe essere qui da un momento all’altro” mi disse. I minuti sembravano ore. Avevo il respiro pesante e le mani tremavano. L’ansia e la paura mi surclassavano. Non riuscivo a pensare lucidamente. “Eccolo, lo stronzo”. La macchina si mosse, il finestrino si abbassò. Puntai la pistola fuori dall’auto. Il tempo rallentò. Mi sentivo come se fossi sott’acqua, però i movimenti erano più liberi. Mirai alla testa e sparai un colpo dopo l’altro. Vidi il sangue che schizzava sulla vetrina del negozio dove sarebbe dovuto entrare. Il corpo cadde a terra in un lago di sangue. La macchina prese velocità e sparimmo in un baleno. Tornai sulla terraferma. Lanciai la pistola sul cruscotto e mi misi le mani tra i capelli. Quell’ansia prima del colpo era pura adrenalina, le mani tremanti, il cuore che batteva all’impazzata e il respiro affannoso erano spariti. La mente era ancora libera da ogni pensiero. Iniziai ad urlare. Era un urlo liberatorio. Avevo appena ucciso un uomo. Avevo appena ucciso un uomo, e mi era piaciuto. Il Don rimase soddisfatto e mi assegnò altri incarichi. Più me ne assegnava, più ero felice. Avevo trovato la mia vocazione. Uccidere. Pian piano, ci presi la mano. Luigi si fece da parte ed iniziai a lavorare da solo. Diventai esperto di armi pesanti, coltelli e combattimento a mani nude. Decidevo l’approccio da usare per ogni vittima. Iniziai anche a disfarmi dei cadaveri. Bruciandoli insieme all’appartamento, dissolvendoli nell’acido, buttandoli a pezzi nel fiume. Diventai il picciotto preferito del Don. Mi faceva partecipare a serate importanti con altri boss mafiosi. Il Don narrava loro delle mie gesta. Alcuni di loro mi offrirono dei lavoretti. Il Don si fece pagare, ma io l’avrei fatto anche gratis. L’adrenalina che ricevevo durante l’atto era impagabile. L’adrenalina di quei momenti rese la mia vita, fino ad allora piatta e monotona, unica e piena di emozioni estreme. Il Don mi affidò il controllo del giro della droga. Avevo sotto di me dei picciotti. Organizzai uno dei più grandi giri di metanfetamina della città. Presi il controllo di tutti i luoghi dove la droga andava per la maggiore: negozi di liquore, strip club, discoteche, bordelli, tutti luoghi con potenziali clienti. Quello del Don divenne un vero e proprio impero senza precedenti. Tutto grazie ai miei servigi. Divenni anch’io consumatore occasionale. Ne facevo uso prima di ogni atto. L’adrenalina era ancora più forte e il botto che sentivo ogni volta che il proiettile entrava, era un vero e proprio orgasmo. Frequentai i luoghi della “famiglia”. Avevo a disposizione qualsiasi ragazza nei locali del Don e la scopavo selvaggiamente, come se la dovessi uccidere con la forza del sesso. Una dopo l’altra. Avevo raggiunto l’estasi della vita. Un giorno, però, mi commissionarono l’omicidio di un pezzente di terza classe nel suo lurido appartamento. Dopo averlo ucciso mi fermai a guardarlo. Le mani insanguinate tremanti, le gambe che cedevano, il respiro che non reggeva quell’immagine. Quel miserabile aveva vissuto tra droga, sesso e cadaveri. Proprio come me. Avevo oltrepassato così tanto il punto di non ritorno che non ero neppure in grado di ricordare come fossi prima di averlo oltrepassato. Guardando quel cadavere con un colpo di pistola nella gamba e la gola aperta in due, vedevo solo la mia immagine riflessa. Le sue suppliche prima della morte sembravano le mie davanti al Don all’inizio della mia “carriera”. Cos’ero diventato? Mi sedetti sul letto e contemplai quel cadavere, fino all’arrivo della polizia, che mi portò in cella. Dovevo passare il resto dei miei giorni in una squallida prigione con quelli che venivano definiti “feccia” , pesci piccoli, accusati di un omicidio occasionale. Allora cosa dovevo essere io che avevo ucciso tutte quelle persone? Non avevano avuto neanche un funerale… erano state incenerite o divorate dall’acido. Nei primi giorni di carcere, alcuni prigionieri mi accerchiarono per cercare di insegnarmi le “regole della prigione”, ma io non mi feci  scrupoli, uno ad uno li uccisi a mani nude. Quando arrivarono le guardie, mi trovarono coperto di sangue, accanto ai cadaveri dei  prigionieri che avevano scelto il giorno sbagliato per una rissa. Mi trasferirono. Venni messo in un manicomio criminale. Camicia di forza e museruola. Intorno a me vedevo solo matti in preda alla loro pazzia. Le loro bocche si aprivano, ma le celle insonorizzate non facevano uscire le loro urla disumane. Mi chiusero in cella. Rimasi lì, silenzioso ed immobile. Per il resto dei miei giorni.
   
 
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