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Autore: Wellesandra    27/03/2015    10 recensioni
[...] Poi riguardò la scena: alcuni strumenti musicali facevano da sfondo a quell'abbraccio. E un gruppo di persone rideva gioiosamente.
Finalmente comprese.
Quel neonato era il suo miracolo, e non solo perché gli stava mostrando il futuro.
La felicità.
Questo era ciò che stava cercando.
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: i Muse non mi appartengono, non scrivo a scopo di lucro e i fatti narrati non sono realmente accaduti.
La storia  è stata scritta per la "Sfida per scrittori" organizzata dal gruppo "EFP recensioni, consigli e discussioni" (facebook).



31 Dicembre 1978

Se avesse potuto scegliere di avere un superpotere, George Bellamy avrebbe sicuramente preferito il teletrasporto. Ciò che desiderava di più era stare a casa con sua moglie, che quella sera aveva deciso di cucinare qualcosa di particolare “per riappacificare i rapporti”. Voleva prendere suo figlio Paul in braccio e giocare con lui davanti al camino, mentre aspettava che la cena fosse pronta.
Marilyn non glielo avrebbe mai perdonato. Avevano da poco ripreso dei rapporti civili e una convivenza pacifica e non era intenzionato a darle dei nuovi dubbi, ma sembrava che l’universo intero fosse contro di lui.
All’uscita dalla sala prove, per l’ultimo incontro annuale con la band, George era stato preso alla sprovvista dalla neve. Neanche cinque minuti di cammino e quella che sembrava essere un’innocente nevicata si era trasformata in una vera e propria bufera. E ora si trovava in una catapecchia abbandonata, a metà strada da casa sua. Quindi sì, se avesse potuto scegliere, George avrebbe optato per il teletrasporto.
Nella tasca dei pantaloni aveva scovato un pacco di fiammiferi e ne accese uno. Anche se l’illuminazione era molto debole, riuscì a notare che il capanno era molto piccolo. C’era una sola piccola finestra e lungo le pareti erano appoggiate tante cianfrusaglie; alcuni mobili sembravano vecchi e rotti, altri erano smontati. Si avvicinò a quello più vicino alla sua destra, che gli sembrava in buone condizioni, per vedere se, finita la bufera, potesse chiamare qualcuno per aiutarlo a trasportarlo a casa. Marilyn gli aveva chiesto più volte una nuova mobilia da inserire nella stanza di Paul, che iniziava ad avere le sue cose da sistemare.
George arricciò il naso quando si accorse che non c’era nulla che gli potesse servire. Le uniche cose utili erano un paio di candele, che accese senza pensarci due volte.
Non troverai nulla qui, lo ammonì una vocina. Faresti meglio a chiedere alla signora O’Neal.
«La signora O’Neal ha altri a cui badare.»
Rientri nella cerchia dei poveri, bello.
«Rientro nella cerchia dei sognatori! Che c’è di male a vivere di musica?»
Non ti fa campare. E non fa sopravvivere la tua famiglia.
George sbuffò, costringendo la sua parte femminile a stare zitta e buona nell’angolo più angusto del suo animo.
A quasi quarant’anni non permetteva a nessuno di dirgli cosa fare. La conosceva bene la sua situazione, e non l’augurava nemmeno al suo peggior nemico. Cercare mobili usati non era motivo di vergogna, bensì essere trattato alla stregua di un barbone dalla signora O’Neal era poco dignitoso. E lui, di dignità, ne aveva fin troppa.
Nella sua vita attuale non aveva mai ucciso, quindi tutto quell’accanimento del destino nei suoi confronti proprio non lo capiva.
Le sole cose di valore che possedeva erano sua moglie e suo figlio.
E la sua chitarra che l’aiutava non solo a vivere, ma a gestire lo stress e il malumore. Sperava con tutto se stesso che Paul potesse affacciarsi al mondo della musica e che potesse appassionarsi ad essa. Durante i suoi periodi migliori aveva messo da parte un bel gruzzoletto per pagare qualche corso di clarinetto o di pianoforte. Alla chitarra poteva pensarci lui.
Nel silenzio più totale, disturbato soltanto dagli sbuffi del vento, George prestava tutta la sua attenzione alla ricerca di oggetti che potessero servirgli. Fu una risata a fargli drizzare le orecchie.
Si guardò intorno, sicuro di aver sentito il riso di un bambino.

L’ho sentito anche io!
«Sta’ zitta» mormorò assottigliando lo sguardo, come se quel gesto potesse aiutarlo ad ascoltare meglio.
Quando risentì la risata, George si diresse verso i mobili coperti da un telo bianco, accompagnandosi con una delle candele che aveva trovato. Sollevò con cautela il drappo e lo vide.
Il bimbo lo guardava incuriosito. Lo scrutò attentamente prima di sorridergli, portando le mani alla bocca. Le stesse che, un attimo dopo, allungò verso di lui. Notò che era coperto da una sola mantellina fatta di piume e sembrava stare più che bene.
George era confuso. Tante domande gli riempirono la mente ma nessuna di queste riuscì a farlo desistere dal posare la candela su un ripiano  e a stropicciarsi gli occhi con foga.
Quello doveva essere di sicuro un abbaglio dovuto al freddo.
Il gelo gli aveva dato alla testa.
Non è un’allucinazione, sciocco! Cosa aspetti a prenderlo in braccio?
Il bimbo continuava ad osservarlo e a ridere, come se gli piacesse prendersi beffa di lui.
E a chi non piacerebbe?
«Cosa dovrei fare ora?»
Prendilo. In. Braccio.
Ubbidì, allungando le braccia verso il frugoletto che sembrò apprezzare molto quella decisione.
Com’era possibile che un neonato si trovasse chiuso da solo in una casupola al freddo e al gelo?
 Mentre continuava ad osservarlo, ricordò che la porta del capanno era aperta e questo poteva significare tante cose. Primo, che probabilmente c’era stato un incidente per cui il genitore del piccolo sarebbe arrivato da lì a poco. Secondo, che forse era stato abbandonato. Terzo, c’era la possibilità che vivesse lì con i suoi genitori.
Su quest’ultima ipotesi non ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
Continuò a tenerlo in braccio, a toccargli il nasino  e a sorridergli. Chissà cosa avrebbe detto Marilyn se lo avesse portato a casa.
Il volto di sua moglie gli comparve davanti agli occhi. Lo sapeva cosa avrebbe pensato. Tradimento. E quel bambino gli assomigliava…
Scosse il capo. Certo che non gli assomigliava. Lo aveva trovato in un capanno durante una bufera di neve!
Ma cosa poteva fare? Di certo non lasciarlo lì in balìa del destino.
Io direi di tenerlo al caldo per il momento, eh? Cosa ne dici di trovare qualcosa di pulito?
Giusto.
Risoluto, George posò il piccolo nel cassettone in cui lo aveva trovato. Si tolse il cappotto e poi la felpa, che era la cosa più calda che aveva indossato. Si rimise il cappotto e prese il bambino tra le braccia. Lo avvolse con tutta la mantellina nella felpa rossa, notando che quel colore gli donava parecchio.
«Cosa devo fare?» ripeté.
Portarlo a casa, mi sembra ovvio.
«Non posso. Marilyn…»
George lasciò la frase in sospeso. Per quanto potesse amare sua moglie e per quanto sua moglie amasse lui, c’erano tante situazioni in bilico tra loro. Lui l’aveva tradita tre volte, e per tre volte Marilyn lo aveva perdonato. Aveva giurato a se stesso e a lei che non sarebbe più accaduta una cosa del genere. Presentarsi a casa con un bambino, dopo un ritardo di ore ed ore, in un giorno che doveva essere il simbolo della loro riappacificazione, era come tirarsi la zappa sui piedi da solo. E lui aveva sottovalutato sua moglie per troppo tempo per permettersi il beneficio del dubbio. Si rifiutava anche solo di pensare di poter mettere in pericolo il suo matrimonio.
Avrebbe dovuto chiamare la polizia, dare le giuste coordinate e non pensarci più.
Ma poi lo avrebbero sicuramente contattato.
E allora avrebbe chiamato anonimamente, in una cabina telefonica da quelle parti e chiudere una porta che non avrebbe mai dovuto aprire.
Però non poteva abbandonarlo in quel modo. Era un padre, del resto. E quel bambino era talmente… forte. Da quanto tempo era chiuso lì dentro? George si era rifugiato in quel luogo da quasi un’ora e sul volto del bambino non c’era traccia di lacrime. L’unica cosa che stonava con quel sorriso sdentato era la magrezza del pargolo. Ma in fondo cosa ne poteva capire lui? Era sua moglie quella che aveva occhio per i bambini.
Per una volta hai ragione. Intanto cerca di capire se la sua temperatura è nella norma.
George seguì il suggerimento. Si riscaldò la mano strusciandola sul pantalone per poi appoggiare lievemente le dita sulla pancia del piccolo. Sospirò di sollievo, notando che era più che calda.
Forse era davvero il caso di portarlo a casa e parlarne con Marilyn in tutta franchezza. Non poteva non credergli, sarebbe stato illogico.
E se avesse pensato che quel pomeriggio avesse assistito ad una sua amante che stava partorendo? No, che assurdità. I suoi compagni potevano smentire tutto. Però avrebbe potuto cacciarlo fuori di casa, e di certo lui non poteva pretendere che sua moglie si prendesse cura di un bambino di cui non sapeva nulla.
Neanche tu lo conosci.
Sì, ma in fondo…
Lo tenne ancora tra le sue braccia. Quegli occhi così espressivi e quel sorriso gli dicevano tutto.
George pensò e ripensò a cosa fare.
Lasciarlo lì era escluso. Non avrebbe mai permesso una cosa del genere.
Le forze dell’ordine, lo stesso. Ci sarebbero state troppe scartoffie in mezzo, troppe giustificazioni da dare e probabilmente non glielo avrebbero fatto tenere.
Il punto era proprio questo: lo voleva? Poteva permettersi di mantenere una creatura tanto innocente? Dalla provenienza sconosciuta? Non sapeva neanche se l’avevano abbandonato o meno.
C’erano troppe domande a cui non sapeva dare risposta.
Il bambino attirò la sua attenzione con un gridolino.
Poteva sempre portalo al centro di assistenza del paese. Di certo avevano idea di come trattare la situazione. Anche se non era il luogo adatto, quelli erano dei professionisti e ne sapevano sempre più di lui. Poteva lasciarlo fuori alla porta, bussare e rimanere nascosto per vedere se lo prendevano o no.
Non è un film, George. Non fare stupidaggini. E smettila di fare finta di non ascoltarmi!
Dopo aver controllato se il piccolo era ben coperto, George aprì la porta, pronto a sfidare la bufera che sembrava non dargli tregua. Si meravigliò quando trovò solo pochi fiocchi di neve ad accoglierlo.
Stai facendo l’errore più grande della tua vita. Guardalo! Guarda quei due occhioni azzurri che cercano di parlarti.
«Perché non la smetti di farneticare? Non hai neanche un nome e sono io che ti permetto di esistere!»
Ingrato. Sono io quella che ti ha ascoltato per tutti i tuoi lunghi anni! Hai una vaga idea di come ci si deve sentire ad essere ignorate dall’unica persona che può ascoltarti? E mi chiamo Georgina, okay?
«Non voglio più essere messo in guardia da nulla, Georgina. Tocca a me fare delle scelte.»

Fermo davanti all'ingresso del centro di assistenza, George era convinto che quella scelta fosse la scelta giusta.
Non c'era nulla che turbava il suo animo, se non quella solita, maledetta, piccola voce, che ribadiva "portalo con te, a casa". Come se avesse potuto.
Certo che puoi. Devi solo girarti, percorrere 200 metri e girare a destra. Da lì, sempre dritto.
George sbuffò. Lei non capiva che non poteva. Ciò che più lo tratteneva era che sentiva una certa affinità con quel bambino che in un certo senso lo spaventava.
Abbassò il capo, guardandolo sorridere e tendere le manine verso di lui. Come risposta, George lo avvolse per bene nella sua felpa. Ispirò e protese l'indice della mano destra, fino a toccare il campanello.
Stava per compiere lo sbaglio più grande della sua esistenza.
Questa riflessione folgorò la sua mente e la sua anima, ma non perché Georgina si era inserita nei suoi pensieri. 
Se avesse lasciato quel frugoletto lì, se ne sarebbe pentito per sempre. Non sapeva il motivo, ma era così. 
Marilyn lo avrebbe capito. Nonostante i suoi sbagli, tutte le scelte che aveva preso erano state non solo rispettate, ma addirittura appoggiate. Però scegliere di crescere un bambino, tra l'altro non suo, e di cui forse i genitori stavano sporgendo denuncia...
Scosse il capo. Non c'era nessun genitore, ne era sicuro. E se ci fosse stato, George l'avrebbe denunciato per abbandono di minori. 
Inoltre Paul desiderava un fratellino...
Non pensarci una volta di più. Mal che vada, ritorni sui tuoi passi...
«Sui miei passi? Tornerei a marcire di nuovo in quella catapecchia e non per qualche ora, ma per sempre.»
Non doveva lasciarsi deviare. Aveva deciso. Avrebbe bussato. Era la cosa migliore per tutti. Poteva sempre chiedere informazioni su quel piccolino, o poteva venirne a sapere qualcosa. In fondo a Teignmouth nulla rimaneva nascosto per più di ventiquattro ore.
Si voltò verso quegli occhioni azzurri, rappresentanti di un'anima innocente ignara del mondo circostante.
Gli accarezzò il nasino, caldo e rosa.
«Ci vediamo presto, va bene?»
Non si accorse che il bambino, chissà come, era riuscito a sfuggire dalla forte presa della felpa rossa. La piccola manina aprì il pugno e strinse forte l'indice di George.
Non sapeva com'era possibile, ma improvvisamente George vide se stesso, avanti con l'età. Era abbracciato da due ragazzi: uno era Paul, il suo primogenito. L’altro era un ragazzo molto magro, con un sorriso aperto e gli occhi azzurri che luccicavano. 
George batté le palpebre, e guardò tra le sue braccia. Il bambino era ancora lì, a stringergli il dito, ridendo soddisfatto della sua confusione. Poi riguardò la scena: alcuni strumenti musicali facevano da sfondo a quell'abbraccio. E un gruppo di persone rideva gioiosamente.
Finalmente comprese. 
Quel neonato era il suo miracolo, e non solo perché gli stava mostrando il futuro. 
La felicità.
Questo era ciò che stava cercando.

Fermo davanti all'ingresso di casa sua, George era convinto che quella scelta fosse la scelta giusta. 
Sorrise, pensando che qualche attimo prima aveva pensato le stesse identiche cose. 
Bussò e si schiarì la voce, pronto a qualsiasi cosa.
Il volto di Marilyn non era benevolo. 
Senza dire una parola, sua moglie lo scrutò dalla testa ai piedi, con uno sguardo infiammato d'odio. Poche volte li aveva visti, quegli occhi. Senza degnare il fagottino che aveva tra le braccia, si spostò di lato, permettendo a George di entrare. 
«Che giustificazione pensi di darmi?»
George guardò sua moglie, determinato. Aspettò che chiudesse la porta e poi parlò.
«All'uscita dalla sala prove, la bufera mi ha preso alla sprovvista. Mi sono rifugiato in un capanno a metà strada e lì ho trovato lui.»
Così dicendo, spostò l'attenzione sul bambino. Stranamente i suoi gridolini festosi erano scomparsi. 
«Sono andato al centro di assistenza ma non ce l'ho fatta. Ed eccomi qui.»
«Dammelo.»
Marilyn glielo strappò letteralmente dalle braccia. 
Allarme rosso.
Si voltò dandogli le spalle. 
«Ti voglio fuori di qui entro un'ora.»
Non ebbe la forza di replicare.


Suo marito le aveva mentito spudoratamente per l'ennesima volta, e quella non poteva perdonargliela. Non dopo che lui le aveva fatto promesse su promesse.
Lo aveva avvisato, eccome se lo aveva fatto. Aveva detto chiaramente che rimaneva con lui solo per il bene di Paul e che se ne avesse combinata un'altra poteva dimenticarsi del suo volto. Marilyn lo aveva giurato sui suoi avi. E un giuramento andava sempre mantenuto.
Quel bambino... Dio, quel bambino gli assomigliava tanto. Da quando aveva incrociato i suoi occhi azzurri, si era innamorata di nuovo; lo aveva considerato suo figlio, alla pari di Paul, e non sapeva il motivo. La possibilità che le cose erano andate come aveva detto suo marito erano pari allo zero. 
Marilyn avrebbe preferito la verità, qualunque essa fosse. Per quel che ne poteva sapere, quel frugoletto poteva essere anche un suo figlio illegittimo. In fondo gli assomigliava sul serio. 
Sospirò, e si accorse che il bambino era completamente avvolto da strati e strati di vestiti. La felpa rossa di suo marito era stata molto utile: Marilyn si accorse che la temperatura corporea era rimasta nella norma, né troppo alta e né troppo bassa. Per una volta aveva fatto una cosa buona. 
Tolta la felpa, Marilyn notò una strana mantellina di piume. Gli scostò anche quella, per capire se ci fosse qualcosa che non andava sul suo corpicino.
L'unica cosa che aveva notato era un braccialetto con scritto Cydonia. 
Oh, da quanto tempo non stringeva tra le braccia un neonato! Se avesse avuto la possibilità, sarebbe tornata indietro nel tempo fino alla nascita di Paul. 
Marilyn sorrise al volto espressivo che aveva davanti agli occhi. Il piccolo ricambiò con una smorfia sdentata, strizzando gli occhi e sporgendosi all'insù. Le manine si stringevano in due pugni, e si aprivano e si chiudevano a scatti, come se volesse salutarla. Marilyn rise ad alta voce e gli baciò la testolina. 
«Sei proprio un bel piccoletto, lo sai? Chi è che ha gli occhi più belli del mondo, eh? E chi è che ha il sorriso sdentato più dolce dell'universo? Sì, tu! Proprio tu, piccolino!»
George aveva sempre detto che quei suoi modi fare verso i bambini erano assurdi. Assurdi e stupidi. Ma d'altronde lei non poteva resistere.
Era quasi tentata di credere alla versione di suo marito: cosa poteva perderci? Nulla. Tanto il loro rapporto era già incrinato. 
Ma c’era la coscienza che gli impediva di prendere troppo alla leggera quella situazione.
Intanto, l’ira che aveva provato per tutta la sera era scomparsa e, al suo posto, quella sensazione di pace che si verificava rare volte le invase il corpo.
«Come ti chiami, eh?»
Gli solleticò la base del nasino e il piccolo scalciò per aria allegro. Le afferrò con forza un dito.
«Ma come siamo forti!»
Mentre gli sorrideva, alcune immagini le scorrevano davanti agli occhi, lasciandola interdetta.
Guardò il mondo da una prospettiva diversa: vedeva il volto di George confuso, un misto di felicità e spavento; e poi una leggera luce che proveniva da una candela e ancora suo marito che parlava da solo e pronunciava domande mute.
Batté le palpebre molte volte, prima di ritornare a quella che le sembrava essere la realtà.
Strinse forte a sé il piccolo e salì in camera sua.

George era impegnato a piegare le sue poche camicie alla bell’e meglio. Non si capacitava ancora di come le parole che voleva dire a sua moglie gli erano rimaste in gola.
Perché non mi ascolti, ecco il motivo.
«Non ne posso più dei tuoi interventi. Taci.»
Prese un maglione e lo buttò con stizza nella valigia, come a sfogarsi del suo nervoso.
Lo sapeva. Lo sapeva che stava facendo uno sbaglio.
La porta alle sue spalle si aprì. George se ne accorse perché era da tempo che cigolava e non aveva mai trovato il tempo per rimediare.
Marilyn  aveva un’altra espressione: spaventata, cauta, incredula ma determinata. Automaticamente si rilassò. Appoggiò l’altro maglione sul letto e si avvicinò a lei.
«Marilyn, io ti giuro che ho detto la verità.»
Gli occhi chiari di lei erano decisi. Strinse a sé il piccolo e prese fiato.
«Ti ha mostrato qualcosa, vero? Per convincerti a venire qui, a casa. Altrimenti lo avresti lasciato.»
George annuì.
«Tu lo sai che ho un modo tutto mio di vedere la religione.»
L’affermazione di sua moglie lo incuriosì. George annuì di nuovo.
«Vorrei chiamarlo Matthew, che vuol dire “dono di Dio”. E come secondo nome James, “che diviene il primo”.»
Marilyn non riusciva a prevedere la reazione del marito che sembrava trovarsi in catalessi.
«Potrebbe essere una rinascita, per noi, per la nostra famiglia. Spero tu non abbia cambiato idea.-
George le si avvicinò e le prese il viso tra le mani, per baciarla a lungo.
«Mi sembra impossibile», sussurrò l’uomo.
Matthew urlò e rise, per poi muoversi tra le braccia di Marilyn.
«Paul è sempre stato tranquillo,» iniziò lei, sistemandolo tra le braccia. «Matthew sembra un terremoto.»
Suo marito le baciò i capelli e le circondò le spalle con un braccio.
«Possiamo dire che non ci manca nulla.»
«Secondo te cosa dirà Paul?»
«Ne sarà entusiasta. L’altro giorno mi ha detto di volere un fratellino.»
Marilyn ridacchiò. «Lo ha detto anche a me.»
Dopo un attimo di silenzio, la donna aggiunse: «George, non possiamo nascondere la realtà dei fatti. Se qualcuno viene a cercarlo cosa facciamo?»
«Non accadrà.»
«Come fai a saperlo?»
L’uomo le portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Lo so, tesoro. È una delle poche certezze che ho.»
Abbracciato alla donna della sua vita, con la mente libera da ogni problema, George pensò che il nuovo anno non poteva iniziare in modo migliore.





NOTE
Come ho accennato sopra, la storia partecipa ad un contest e la consegna è: "una storia dove il personaggio deve fare una scelta importante per il suo futuro, ovviamente pensa prima di decidere."
Non voglio togliere nulla alla vostra interpretazione, ma ci tengo a precisare che il carattere del protagonista è ben pensato.
In più a questa OS seguirà quasi sicuramente una long e, per questo, tutto ciò che risulta "incompleto" avrà spazio in seguito.
  
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