Gerard
schiuse le palpebre, abituate alla penombra assonnata della sua
camera, posò lentamente gli occhi sul soffitto bianco e
espirò
attraverso le narici, lasciando colare i minuti con qualcosa che non
era né placidità né noncuranza o
disattenzione. Interruppe il suo
stato d'inerzia afferrando una maglietta nera dal cesto dei vestiti
puliti che qualche giorno prima era quasi sicuro di aver piegato e si
diresse verso il bagno, un cinque-sei passi dal cumulo di piumoni in
cui si era rannicchiato.
Quando
aveva deciso di volere una stanza tutta per sé ormai tutta
la casa
era stata arredata e non c'era stato molto da fare, quindi si era
fatto bastare il seminterrato in cui idealmente suo padre e sua madre
avrebbero giocato a carte ogni venerdì sera, accompagnati
dalle
chiacchiere controllate dei loro amici. Sua madre aveva un po' storto
la bocca all'inizio, pensando ai muri meno isolanti e alle decine di
cianfrusaglie che avrebbero dovuto spostare in soffitta, ma non si
era mai opposta al volere del figlio e si era anzi detta sollevata
dal fatto che almeno ora aveva uno spazio vitale ben stabilito,
invece di espandersi e occupare quello degli altri. E Mikey–
Mikey
aveva sporto il labbro e arricciato le sopracciglia ma non aveva
ottenuto risposta, e alla fine aveva dovuto ammettere che non poteva
obbligare il fratello a vivere nel suo mondo per sempre.
Gerard
s'infilò la maglietta al buio, spostandosi i capelli dagli
occhi con
un movimento lascivo del polso, raccattò un paio di jeans
dal
pavimento e si dimenticò di allacciarne il bottone.
Uscì dal bagno
senza premere l'interruttore della luce, privo d'interesse verso
ciò
che lo circondava; afferrò il telefono e le cuffie e li
infilò
nella tasca posteriore, scandagliando la stanza con gli occhi, alla
ricerca del suo zaino. Abbandonato ai piedi delle scale, lo raccolse
distrattamente e raggiunse il piano terra.
Il
rumore delle stoviglie guidò i sui piedi verso la cucina,
dove
riempì un termos di caffè nero, indossando una
felpa e fermandosi
davanti alla porta di casa. Aprì lo zaino e ci fece
scivolare
dentro il termos, girandosi per chiamare il fratello prima di
varcare la soglia.
«Aspetta,
ci sono!» arrivò dalla cucina, prima che la corsa
impacciata di
Mikey lo portasse a un passo da lui. «L'autobus è
già qui?»
domandò, un baffo di latte a coprirgli il labbro superiore.
Gerard
scosse la testa, pulendogli la scia col pollice e sistemandogli la
giacca. Mikey tacque, seguendo con lo sguardo il movimento sicuro
delle dita dell'altro. Gerard si staccò e lo
guardò nel complesso,
e Mikey si chiese se lo stesse vedendo davvero. Il
suono di un clacson rimbombò alla fine della via e il
ragazzo
sobbalzò, spostando il fratello di lato e correndo
attraverso il
giardino. «Ciao Gee, buona giornata!»
squittì, salendo sul pulmino
e raggiungendo i suoi amici.
Gerard
lo guardò scomparire, aspettò che il silenzio
tornasse a soffocare
il vicinato e si chiuse la porta alle spalle, fermandosi davanti alla
cassetta delle lettere. Esitò e poi l'aprì,
tirandone fuori uno
spesso involucro ocra, che si rigirò fra le mani, in
silenzio.
Chiuse la cassetta e infilò l'involucro nello zaino, senza
mettere a
fuoco. Si mise le cuffie e cominciò a camminare.
Non
era la prima vola che avevano rifiutato una delle sue storie. Provava
e riprovava ma finora non gli era andata bene neanche una volta, e il
peso dei pacchetti rispediti al mittente non faceva che schiacciarlo,
facendolo crollare sotto l'attacco delle sue insicurezze.
Respirò a
fondo. Disegnare era la sua unica via d'uscita, ma troppo spesso si
trasformava in un dedalo senza soluzione e lui non sapeva come
reinventarsi, per ottenere un paio d'ali e volare via. Del tutto,
magari.
Abbassò
lo sguardo. Odiava pensarlo quando in tanti se la passavano peggio di
lui ma aveva superato da tempo la linea tra vita e morte; erano mesi,
anni forse, che cercava di resistere e tamponare fontane di rosso sui
suoi fianchi, ma alla fine si ritrovava rannicchiato sul pavimento
ogni notte, a soffocare singhiozzi e sperare che qualcuno lo
portasse via, il battito che lo assordava e il vuoto dentro di lui
che si scagliava contro la sua cassa toracica. Cercava di stordirsi
bevendo, tagliandosi, iniettandosi quanto più potesse; e
l'avrebbe
fatto fino a morire se non ci fosse stato Mikey.
Tirò
su col naso. Mikey non sarebbe mai sopravvissuto al suo funerale
–
sempre che ce ne fosse stato uno, sempre che qualcuno oltre a lui lo
amasse abbastanza da dare una pacca sulla spalla a suo padre e
annuire mogiamente senza incrociare gli occhi vuoti di sua madre.
Mikey l'avrebbe seguito, e per questo cercava di evitare il suo
pusher quando tutto si faceva annebbiato e l'unica cosa a cui
riusciva a pensare era il turbine d'insulti che non poteva smettere
di urlarsi contro.
Si
portò la mano alla tempia e vacillò, stordito.
Dire no alle droghe
era già abbastanza difficile, affrontare le conseguenze
dell'astinenza da solo, sebbene lo facesse da settimane, poi, era
pura tortura. Si appoggiò con le spalle a un muro di mattoni
e
permise alle ginocchia di cedergli, abbracciandole e affondandovi la
fronte una volta a terra. Un altro attacco di nausea gli fece
lanciare la testa all'indietro, la gola scoperta tremante e bianca
come la neve. Riacquistò il respiro, si spinse su due piedi
e
riprese a camminare.
Già,
Mikey... ma cosa sapeva Mikey? Fino a che punto era in grado di
guardarlo negli occhi e sapere che stava cadendo a pezzi? Si era reso
conto che ormai non era più lui o pensava che
l'entità che gli
divorava le pupille fosse solo un'altra sua sfaccettatura?
Scosse
la testa. No, Mikey non poteva sapere; non l'avrebbe lasciato da solo
ad avvelenarsi e fare esperimenti con il suo corpo per tutto questo
tempo; avrebbe provato a scuoterlo, trascinarlo, avrebbe pagato oro
per la sua anima infangata in ogni momento; figuriamoci se l'avrebbe
mai lasciato lì in balia della marea.
Affondò
il mento nella felpa e proseguì a testa bassa. Passo dopo
passo il
liceo si stagliava davanti a lui, sempre più imponente e
grigio man
mano che si avvicinava, incurante delle sfumature della sua vita.
Gerard s'immaginava sentinelle, alleanze, trattati e tradimenti,
tunnel segreti e campi di battaglia mai benedetti; e forse era il
mondo fantastico che si tirava dietro e incollava su tutte le pareti
che gl'impediva di impazzire del tutto. Alzò a malapena lo
sguardo
e le porte lo inghiottirono.
«Ammetto
che dopo i temi rigeneranti del trascendentalismo,
il naturalismo possa sembrare un colpo al cuore»
cominciò la
professoressa d'inglese, la signorina Phear, «ma vi assicuro
che per
quanto scettici siate, vi appassionerete allo stesso livello.
L'esponente principale di questa corrente…».
Gerard scribacchiò
distrattamente, reggendo si la guancia con il palmo della mano, poi
abbassò lo sguardo. Un
altro supereroe.
Ricoprì il disegno di striature nere, a disagio, e si morse
il
labbro, la delusione che tornava a decomporglisi in bocca. Ma
perché
tra tutti i mondi possibili non poteva essere qualcuno di vincente
almeno in uno?
«Gli
appartenenti a questa corrente artistica possono anche essere
indicati come pessimisti, o fatalisti». Gerard
alzò lo sguardo,
sentendosi bruciare addosso gli occhi e il giudizio del resto della
classe.
«Essi
credevano nella totale mancanza di controllo dell'uomo sul suo
destino e sulla sua vita, dettati dal fato, a sua volta identificato
con la natura». Gerard inclinò distrattamente il
collo,
indifferente. Ricordò
di
aver letto da qualche parte che quello era anche uno dei punti dello
stoicismo, anche se non sarebbe stato in grado di aggiungere
nient'altro.
«Uno
dei più famosi sostenitori di questa concezione è
il
quasi-contemporaneo Ernest Hemingway, nato a Oak Park, Illinois, il
21 luglio 1899. Scrittore dotato e pieno di serietà, vive in
prima
persona la prima e seconda guerra mondiale e la guerra civile
spagnola e sopravvive a due incidenti aerei consecutivi».
Gerard
osservò la professoressa. Pover'uomo.
«Uomo
travagliato e d'incredibile profondità, si sposa numerose
volte,
sebbene le conseguenze della guerra riemergano sempre a torturare
tutti i suoi matrimoni. Dopo una vita di vittorie letterarie,
riconoscimenti e gare di caccia in Africa, acquista una villa a
Ketchum, Idaho, dove, freddo e calcolato, si toglie la vita».
Gerard
spostò lo sguardo sui suoi compagni, improvvisamente
intrigati, e si
chiese se condividessero ciò che lui e lo scrittore
provavano, o se
la loro fosse solo sete di catastrofi.
«Quando
si pensa a Hemingway, vengono sempre in mente i suoi capolavori
letterari e i suoi versi più famosi, ma c'è un
altro lato,
drasticamente dominante nel suo arco di vita, che spesso viene
dimenticato o deliberatamente tralasciato. Fiero esponente e
sostenitore devoto, Hemingway è un fatalista, convinto
dell'irrevocabile e immodificabile piccolezza e fragilità
dell'uomo,
che diventa una nave fuori controllo nell'oceano in tempesta che
è
il fato. Alcolista pesante da anni, la visione pessimista di
Hemingway non fa che peggiorare, incrementata dall'avvento di una
grave malattia che ha colpita prima suo padre, suo fratello e sua
sorella, suicidatesi anch'essi. Convinto che l'unico controllo
dell'uomo sulla sua vita sia il modo in cui egli muore, lo scrittore
inserisce due pallottole nei tamburo della sua arma preferita,
s'infila la canna in bocca e preme il grilletto, considerandosi
finalmente responsabile del l'unica vera scelta della sua
vita».
L'insegnante
tamburellò delicatamente con le dita sul suo avambraccio,
osservando
distrattamente la ventina di alunni attorno a lei, avvolto in un
silenzio di tomba ma che sapeva non era dettato da vero interesse.
Non sbuffò ma serrò le labbra, scuotendo
impercettibilmente la
testa, e si sentì dispiaciuta per tutti gli scrittori e
artisti
degnati di uno sguardo solo quando entrava in gioco il loro decesso.
Fece scorrere gli occhi sui suoi ragazzi, cercando d'irrompere nelle
loro menti o almeno oltre le barricate della loro indifferenza, e
sospirò fra sé e sé, abbassando piano
lo sguardo.
Gerard
percepì la sua delusione e si sentì in colpa, un
altro ascoltatore
casuale per un oratore che non aveva altra scelta che sperare. Fu
tentato dall'alzare la mano e chiederle qualcosa, qualsiasi cosa, ma
un giocatore della squadra di basket lo batté sul tempo,
privo dell'ansia che invece incatenava la lingua dell'altro al suo
palato ogni
volta che voleva emetter suono.
«Quindi
l'insegnamento naturalista è che dobbiamo rassegnarci a
ciò che ci
capita perché tanto non potremo cambiare mai
niente?» domandò il
mucchio di muscoli e riccioli. «Ci credo che era depresso,
sta roba
ti ci trascina a tagliarti le vene» scherzò,
mimando il gesto con
le dita. Parte della classe rise e Gerard si sentì
inghiottire dal
pavimento circostante, il cuore che gli batteva all'impazzata mentre
si sforzava di non guardarsi attorno e vedere chi lo fissava.
«Questa
è solo una chiave interpretativa Artavious, non bisogna per
forza
essere così estremisti per appartenere a questo
movimento» ribatté
gentilmente la professoressa «anzi, la maggior parte di
questi
scrittori era consapevole della fragilità della vita e della
piccolezza
dell'uomo di fronte alla forza impressionante della natura ma viveva
comunque fino in fondo la sua esistenza, lavorando, componendo,
pregando e faticando per i buoni valori in cui
credeva».
Camminò e
si fermò davanti alla lavagna, stringendosi le mani per
invocare
fiducia e sicurezza, e riprese: «ragazzi, non dimenticate che
Hemingway sarà pur stato un genio, ma non aveva tutte le
risposte e
in questo caso si sbagliava: la vita è influenzata da e
riflette
tutte le nostre scelte e opinioni, e per quanto nessuno di noi chieda
di venire al mondo una volta qui abbiamo tutti il diritto di seguire
quello in cui crediamo e applicare il ragionamento che riteniamo
più
lecito. Tenete sempre a mente che avete più del vostro
presente
nelle vostre mani, e che per quanto negative le cose possano essere
non devono per forza rimanerlo».
Una
ragazza a qualche banco di distanza arrossì vivacemente e
annuì,
congiungendo le mani per sottolineare la sua approvazione. Gerard
continuò a cercare di grattar via uno scarabocchio dalla
superficie
scheggiata cui era appoggiato, trovando la prontezza di spirito per
guardarsi attorno solo mentre la campanella suonava.
S'infilò lo
zaino sulle spalle e scivolò fuori dalla classe prima che il
flusso
di studenti diminuisse e fosse costretto a rischiare un confronto con
Miss Phear.
Cinse
le dita attorno a un boccale di birra, sovrappensiero, e si
passò
l'indice sul labbro, aspettando un paio di secondi prima di
abbassarlo assieme allo sguardo, lasciandosi sfuggire un sospiro. La
carta d'identità falsa gli permetteva di non venir buttato
fuori dal
bar ma non di non volersi buttar fuori dalla sua pelle, e alla fine
del giro era quello che avrebbe voluto davvero. O essere felice, ma
quello sembrava ancora più impossibile.
Disegnò
il contorno del boccale con la punta dell'indice e sospirò
piano,
osservando il suo riflesso distorto dall'alcol. Non condivideva
l'opinione di Hemingway ma cristo, lui sì che aveva una
ragione
valida per essere depresso, non come lui che nonostante tutto aveva
avuto un'infanzia anche abbastanza decente.
Si
morse il labbro. Più cercava di non pensarci più
si sentiva
invalido, come se non fosse nient'altro che un bambino viziato
distrutto per una caramella all'arancia piuttosto che alla fragola,
ma più ci si concentrava più sentiva tutto
sfuggirgli dalle dita.
Era cosciente che la sofferenza era sofferenza,
l'insensibilità
era insensibilità e la depressione era depressione
indipendentemente
da ciò che li aveva provocati, ma saperlo a parole non era
come
saperlo emotivamente, e emotivamente non era neanche sicuro di non
essere già marcito del tutto.
Si
strinse la punta del naso tra l'indice e il pollice, strizzando gli
occhi per bloccare il frastuono esterno, e cercò di smettere
di
tremare; non aveva motivo per sentirsi così cristoddio.
Riaprì gli
occhi e si trascinò in bagno, guardando a malapena il
pavimento,
giusto quanto bastava a non sbattere contro un altro cliente.
Osservò
il suo riflesso nello secchio e storse la bocca, insoddisfatto e
amareggiato.
Una
fitta allo stomaco gli tolse il respiro e si piegò in
avanti,
aprendo una delle cabine con una spinta frenetica. Schiuse le labbra
e sputò, rimanendo piegato per quelle che gli sembrarono
ore, il
cuore che batteva a perdifiato e i polmoni spappolati tra le costole.
Si accovacciò accanto al water finché le
vertigini non se ne
andarono e si costrinse ad alzarsi, barcollando fino al lavandino per
spruzzarsi un po' d'acqua in faccia. Si asciugò il viso con
la
maglietta e osservò in silenzio i segni rossi attorno
all'ombelico,
pulsanti ma in via di guarigione. Fece una smorfia e tornò
di là.
Il
locale era in penombra e l'aria piena fino a fargli girare la testa,
le pareti allo stesso tempo colme di cianfrusaglie e completamente
asettiche. Avvinghiato al muro si trascinò più
all'interno,
domandandosi se la foschia attorno
a lui ci
fosse davvero o fosse un altro trucco della sua mente per spaventarlo
e piegarlo. Come se ce ne fosse bisogno.
Strinse
le labbra e lottò contro un nodo alla gola, lasciandosi
cadere su
uno sgabello di fronte al bancone e appoggiandovi contro la schiena,
esalando. Si portò una mano davanti agli occhi e la
osservò senza
riuscire a metterla a fuoco, sconcertato dalla sfumatura cadaverica e
segretamente deluso dal suo spessore; chiuse le palpebre per
guadagnare un po' di autocontrollo e la abbassò,
cingendosela con
l'altra e lasciandola riposare sul grembo. La stanza sembrò
farsi
più opaca e la stanchezza del locale gli si
accasciò sul petto e
dietro la fronte, impedendogli di udire la voce calma e controllata
alle sue spalle.
Il
barista lo sfiorò e Gerard sussultò, al sicuro
nella sua maschera
una volta giratosi. «Tutto
bene amico? Non
hai una bella cera, vuoi che ti chiami un taxi?».
Gerard
fu tentato dall'annuire un sì grazie, sarebbe grandioso, ma
qualcosa
lo distrasse e tese l'orecchio. C'era qualcuno che cantava in sala.
Come aveva fatto a non accorgersene? Si girò e
cercò di dare un
senso al turbinio che gli stava demolendo le vene.
«Ciao,
siamo i Pencey Prep e questa era la nostra prima canzone. Spero non
vi abbia fatto troppo schifo ma ad ogni modo ne abbiamo solo un'altra
da parte quindi tenete duro solo un altro po' e sarete liberi per il
resto della serata».
La
musica riprese, inascoltata dalla maggior parte dei frequentatori,
troppo alterati per essere coscienti anche solo della sua esistenza o
di una fascia d'età ben oltre le porte del genere.
Gerard
fissò il gruppo senza spostare lo sguardo dal ragazzo che
aveva
parlato e che ora cantava in un microfono spaventosamente piccolo per
chiunque altro ma perfetto per la sua struttura magra, quasi femminea.
Gerard sentì un tuffo al cuore e per una frazione di
secondo ebbe l'impressione che si fossero scambiati uno sguardo
d'intesa, e la cosa gli mozzò il respiro.
Senza
staccare gli occhi dal palco quasi inesistente si sporse verso il
barista, ancora inchinato verso di lui, e gli chiese chi fossero i
cinque ragazzi, trovando a malapena l'ossigeno necessario a muovere
le labbra. Il barista arricciò le sopracciglia con un 'hm?',
si
voltò a osservare la manciata di liceali che stava suonando
per lui
e scrollò le spalle con un gesto sciolto, scuotendo la
testa, allo
stesso tempo incurante e stupito che qualcuno se ne potesse
interessare.
«Un
gruppetto locale, sai uno di questi che bazzicano ai concerti delle
band più rilevanti e ti regalano il loro CD
sperando che poi tu te lo senta davvero»
disse
semplicemente, «Pencey
Prep mi sembra. Bravi ragazzi, conosco il cantante da una
vita».
Lo
indicò. «Figlio
di amici, l'ho praticamente visto crescere».
Sorrise.
«Gran
personalità la sua; peccato solo voglia dedicare la sua vita
a
questo»
e
indicò il gruppo con un gesto largo della mano
«niente
in contrario alla musica, sia chiaro, ma questo genere… ma
d'altronde che ci vuoi fare, quando un ragazzo così ti
chiede un
favore tu gliene fai mille».
Gerard
annuì, senza rispondere; ringraziò quietamente,
concentrandosi di
nuovo sulla band, e si accorse che la canzone era agli sgoccioli.
Deglutì, improvvisamente teso, e si scoprì a
pochi metri dal palco
qualche secondo dopo, le dita schiuse verso il chitarrista in un
tocco che sperava non fosse mai successo.
Ritrasse
la mano e la guardò, spaventato, la gola improvvisamente
colma di
cemento e le guance in fiamme. Indietreggiò impacciatamente,
gli
occhi sbarrati e le sopracciglia incurvate, pregando in ogni lingua
di non inciampare in nessun cavo o pestare il piede a qualcuno mentre
scappava a una velocità che gli sembrava inesistente.
Quando
fu a distanza di sicurezza strizzò le palpebre, stringendosi
la
punta del naso fra l'indice e il pollice per calmarsi e riprendere
fiato, e si appoggiò
nuovamente al muro, le voci a rimbombargli contro urla e insulti.
Cercò di raccogliersi e quando riaprì gli occhi
notò che il gruppo
aveva terminato di
riporre gli strumenti il palchetto semivuoto di nuovo ripiano per
bottiglie e bicchieri mezzi vuoti.
Deglutì
e si guardò velocemente attorno, cercando il ragazzo nella
penombra
crescente, scandagliando la stanza più e più
volte. Sentì un
macigno posarglisi sulle spalle e si lasciò scappare un
battito,
dirigendosi il più velocemente possibile verso il bagno.
Spalancò
la porta sul nulla e l'adrenalina nelle vene gli si bloccò
di colpo,
lasciandogli un gusto amaro dietro ai denti. Richiuse la porta e
abbassò la testa, senza essere davvero sicuro sul
perché la
delusione gli stesse offuscando gli occhi, e lasciò che i
piedi lo
guidassero all'esterno.
Varcò
la soglia senza dare o ricevere saluti, lo sguardo perso sul
marciapiede screpolato da passanti poco interessati e guidatori mai
multati abbastanza, e scivolò nel vicolo adiacente,
lasciandosi
abbracciare dal freddo pungente e dall'eco incostante del pub.
S'infilò una sigaretta in bocca e sistemò le mani
a coppa,
combattendo contro il vento per il futuro della sua fiamma;
arricciò
le sopracciglia e non si accorse della figura al suo fianco, troppo
assorto nella sua battaglia per un po' di nicotina.
«Ehi,
credi che me ne lasceresti passare una?».
Gerard
alzò lo sguardo su
un paio di occhi vivi quasi quanto il soffio che gli aveva appena
sfiorato le orecchie, incastonati in un viso dai lineamenti dolci, di
una delicatezza decisa e sorridente. «So
che non ci conosciamo ma posso ricambiare con una birra se vuoi»
aggiunse
il moro, cercando di smorzare l'ansia tagliente che li circondava.
Gerard frugò freneticamente
nella tasca della felpa e tirò fuori il pacchetto,
porgendolo al
ragazzo il meno impacciatamente
che poté.
«Ah
merda è l'ultima, non so se posso chiederti tanto»
esclamò
l'altro, esitando.
«Facciamo
che è il mio contributo per la tua band visto che non avete
merce in
vendita» sfuggì a Gerard, che si maledisse
internamente subito
dopo. Il ragazzo sembrò rischiararsi e abbozzò un
sorriso.
«Quindi
ci hai sentito suonare?» domandò, cercando di
nascondere l'emozione
riducendo il sorriso. «Testi
stupidi, eh? Dio, ci provo in tutti i
modi ma
l'inchiostro divora tutti i miei pensieri decenti, giuro che
miglioreremo tantissimo col tempo»
scherzò,
come se sentisse il bisogno di scusarsi
per averci messo l'anima. Gerard scosse la testa.
«Per
quel che conta a me siete piaciuti un sacco» - si
colpì il capo con
il palmo - «un
sacco, cristo non lo usano più manco in quinta elementare».
Frank
rise. «Siamo
due sfigati, direi».
Gerard
sorrise, sentendo la tensione smorzarsi e farsi un tutt'uno col
selciato, e avvicinò di nuovo il pacchetto al chitarrista.
«Sigaretta
fortunata, sperando che la fortuna si ricordi che non ci sono solo
persone fighe al mondo».
Frank
rise e la prese, tenendola in equilibrio con le sue labbra di pesca
prima di prenderla fra indice e medio, alla ricerca del suo
accendino. Quando l'ebbe trovato espirò e una piccola folata
sparse
cenere nel vicolo, facendola volteggiare quasi un fiocco di neve
solitario fosse appena sbocciato dal cielo. Gerard si trovò
a
sorridere e l'altro ragazzo contraccambiò spontaneamente, il
petto
che si alzava e abbassava ritmicamente, riempiendosi d'aria che il
primo si accorse di star ringraziando.
«Magari
mentre la fortuna cerca di svegliarsi possiamo ammazzare il tempo
insieme»
offrì
il più piccolo, portandosi la sigaretta lontano dalle labbra
per
dirigere il fumo verso un cielo nuvoloso e opaco. «Il
mio nome è Frank, ma finché non usi insulti o
brutti
nomignoli
puoi chiamarmi come ti pare».
«Gerard»
disse
l'altro, sperando di non sembrare l'animaletto terrorizzato che si
sentiva. L'altro sorrise e annuì, tirando un altro soffio.
Abbassò
lo sguardo e buttò la sigaretta per terra, pestandola con un
piede.
«Mi
piace. Allora alla prossima, Gerard» mormorò con
un gesto del capo,
riunendosi al resto della sua band.
Cristo,
da quanto erano lì? Si portò una mano sul viso e
si rese conto di
star scottando; impallidì e abbassò entrambe le
mani, appoggiandosi
al muro per non cadere. Onde d'urto gli si stavano
frastagliando
contro il petto e da qualche parte nel suo cervello una sirena stava
urlando
a squarciagola messaggi che si rifiutava di decifrare.
Cristo
santo Gerard ma non impari mai niente?!
Si
lasciò scivolare sul marciapiede e si prese la testa fra le
mani,
strizzando gli occhi ed espirando sonoramente. Alla faccia della
sigaretta fortunata.
Angolo
dell'autrice:
Um ciao sono Pwhore e volevo giusto ringraziare chiunque sia arrivato
fin qui perché sono cosciente che finora i dialoghi siano
pressappoco inesistenti e probabilmente leggere è
più pesante di
quanto non intendessi all'inizio e ugh scusate tanto. So che la
struttura è un po' strana ma sto scrivendo tutto su un
quaderno e
purtroppo così facendo dividere in capitoli diventa
allucinante e
per quanto riguarda le mie scelte purtroppo faccio piuttosto schifo
quindi
sì insomma scusate, so che è un po' un casino.
Spero che la
grammatica non stia cadendo a pezzi, sono in America da fine luglio e
le uniche occasioni che ho per utilizzare l'italiano sono quando
canto assieme ai miei gruppi sfigati se sono a casa da sola o quando
messaggio No (sappi che ti conoscono tutti così),
Frà, Ria, Delf e
letteralmente altre due persone massimo quindi probabilmente i
costrutti sono tutti sfasati o misti a altre lingue e ugh. Ma ehi, il
pensiero è quel che conta, giusto?
Grazie
a tutti quelli che si sono sforzati di arrivare alla fine, vi amo da
morire 3