YOU
CAN LET GO ALL YOUR FEARS
Si arrampicò su per gli scalini
al massimo della velocità che le sue gambette gli consentivano e, stremato, raggiunse
il piano delle camere. Increspò per un istante le dita dei piedi lasciandole
affondare nella moquette blu che morbidamente ricopriva insieme ai giocattoli
ogni centimetro del pavimento. Se c’era una cosa che non si poteva affermare di
Mary Winchester era che non fosse una madre amorevole; di certo, però, non era
la più ordinata.
Quando il marito glielo faceva sarcasticamente
notare – magari dopo essere appena inciampato in una macchinina rossa
abbandonata dopo un conflitto a fuoco con i soldatini della legione Americana
che non si erano dati per vinti fino all’ultimo uomo – lei in tutta semplicità
sorrideva e si lanciava in un’accurata descrizione dell’ultima peripezia del
piccolo Dean e, ad ogni parola, spalancava gli occhi, enfatizzando il racconto
che aveva riempito la sua giornata. Una cosa che la ragazza non era riuscita a
metter via era quell’innato sesto senso che si affinava in chi, come lei, era
stato un cacciatore fin dalla nascita: la capacità di osservare con attenzione,
rilevare l’anomalia e selezionare l’elemento saliente dell’insieme. Questo,
insieme alla cura dei suoi due figli, l’assorbiva completamente e, per la casa,
di tempo ne rimaneva veramente poco. Alle mamme che alla vista di quel tale
disastro arricciavano il naso inorridite, come se incarnasse il peggiore dei peccati capitali di una
casalinga, Mary Winchester lanciava uno sguardo divertito e scrollava le
spalle: fosse stata la vivacità dei bambini l’unica cosa contro cui armarsi il
mondo avrebbe riserbato ben poche sorprese.
In realtà, in tutta quella
storia, il principale colpevole era Dean, che per i suoi soli quattro anni
dimostrava una cura meticolosa nel mettere a soqquadro ogni ambiente. Il
piccolo Sammy, dal canto suo, si limitava a scoppiare
in risolini acuti e battere le mani in segno di approvazione.
Quel giorno Mary aveva ben altro a cui pensare e Dean, una volta capito
di avere campo libero, aveva abbandonato la svogliata postazione di disegno
allestita in cucina e si era accovacciato davanti al fratellino seduto sul
tappeto e incerto sul da farsi circa una questione di vitale importanza: valeva la pena svuotare completamente il
biberon per terra?
“Sammy, siamo solo io e te…” con sguardo
sornione e un sorriso malizioso Dean aspettò che il piccolo lo ricambiasse, si
spostò un ciuffo troppo lungo dei ricci biondi intrufolatosi in mezzo agli
occhi, e, con un gesto brusco, afferrò il fratellino per i fianchi,
avvicinandolo a sé. Questo, sul punto di scoppiare a piangere, venne
prontamente bloccato dalla manina dell’altro che lo ammonì con tono complice.
“Cosa fai! Così chiamerai la
mamma qui, e noi non vogliamo che la mamma arrivi qui. Vero?” fece soppesare l’ultima parola fissandolo esattamente come
papà era solito fare con loro, ma incapace di mantenere lo sguardo serio il
necessario per tranquillizzare il fratello incominciò a fargli il solletico.
Era sempre una tattica vincente.
Le sue speranze non furono
disattese: il piccolo, incapace di difendersi, aveva incominciato a ridere di
gusto, rannicchiandosi tra le braccia del maggiore, contagiato lui stesso dalla
sua felicità.
“Perfetto, ascolta bene. Adesso
giochiamo a nascondino: tu mi cerchi e io mi nascondo.” Incerto sull’effetto
che le sue parole avessero sortito sul piccolo Sam, Dean scattò in piedi come
una molla e poggiando le mani sui fianchi cercò ancora una volta di imitare il
papà: “Ci siamo capiti?”.
Come se in realtà le parole
lasciassero appeso nell’aria il presagio di un qualcosa che non fosse affatto
buono. Lo aveva capito dal mondo in cui si avvicinavano quelle sopracciglia
scure, dall’intensità in cui i suoi occhi chiari, così diversi da quelli della
mamma, lo fissavano.
Conscio del fatto che non ci
fosse neanche un solo minuto da perdere e senza aspettare specifici segnali di
conferma dal suo inesperto interlocutore, Dean si voltò in tutta fretta
imboccando la direzione delle scale: al piano delle camere avrebbe di certo
trovato un ottimo nascondiglio che gli avrebbe fatto guadagnare il vantaggio
necessario sul fratellino. Era un tipo tosto quello lì, l’appellativo che gli riserbava quando il piccolo lo
stanava. La mamma spergiurava che, nonostante tutto, Sammy
facesse da solo e, seppur controvoglia, Dean aveva dovuto ammettere che il
fratello ci sapeva fare.
Una volta sul pianerottolo non
ebbe dubbi e si fiondò nella prima stanza sulla destra, non senza aver raccolto
prima la preziosa macchinina che giaceva ribaltata e assediata dalle milizie al
centro della moquette.
La camera profumava di fresco e
la luce del sole giocava con i ciondoli di vetro appesi alla finestra
proiettando immagini colorate e distorte di stelle inscritte all’interno di
cerchi, croci, figure alate o incoronate. Sembravano quasi danzare sulla testiera
del letto.
A Dean piaceva fissarle, lo
facevano sentire al sicuro, per questo la mamma quando si stendeva accanto a
lui per farlo addormentare lo lasciava giocare con quelli agganciati al suo
braccialetto.
C’era silenzio e nessuno nei
paraggi.
Convinto di avere ancora un po’
di vantaggio sul fratello e colto da un’incontrollabile frenesia, il bimbo fece
un respiro profondo e con risolutezza prese una decisione che con un adulto nei
paraggi gli sarebbe costata non pochi rimproveri: con le scarpe da ginnastica
ancora ai piedi, fece leva sulle braccia e, raccolta tutta la forza a sua
disposizione, si tirò su.
Tese nuovamente l’orecchio per
accertarsi che non vi fossero novità e, travolto dall’emozione, si diede una
piccola spinta, lasciando affondare tutto il suo peso nella trapunta a fiori
dell’enorme letto matrimoniale al centro della stanza, per poi abbandonarsi
immediatamente ad una risatina soddisfatta, orgoglioso del successo della sua
impresa.
Improvvisamente la sua attenzione
fu attirata da un elemento nuovo e inconsueto abbandonato sul comodino sotto la
finestra: tra una cornice comprata a poco prezzo, ma di grande valore, e una
piccola sveglia giaceva solitario un anello in lega d’argento massiccia. Era
spesso e solido.
E sbagliato.
Il piccolo lo osservò perplesso,
cercando di ricordare dove l’avesse visto. Con un gesto spontaneo si protese
verso di esso e lo afferrò, continuando a molleggiare assorto sulle gambe. Fece
per guardarci attraverso, ci catturò il sole, che si fece piccolo piccolo e per un istante stette tutto nella sua mano da
bambino. Se lo rigirò ancora una volta soppesandolo con attenzione poi, con un
movimento un po’ impacciato, lo fece scivolare dentro il medio e l’anulare
insieme.
Per i suoi soli quattro anni Dean
Winchester aveva già capito che in realtà alcune cose avessero un posto
soltanto.
Una presa fulminea lo serrò
all’altezza dei fianchi
“Tana per Dean!”
Le gambe del bambino cedettero
improvvisamente e i due si ritrovarono attorcigliati tra le coperte del letto
ormai disfatto. Sopraffatta, Mary Winchester si lasciò tramortire da quelle
risate, rimanendo distesa con il piccolo Dean seduto a cavalcioni sopra di lei.
La notte quando giaceva distesa,
sola, si rannicchiava istintivamente ancor di più, stringendosi nel suo lato. Si
addormentava e si svegliava in quella posizione, in attesa. Era così da quasi
tre giorni ormai.
Lo sguardo di Mary scivolò in
basso fino a fermarsi sulle manine giunte del suo primo figlio. Sospirò piano e
gliele prese tra le sue, stringendole appena. Il piccolo le sorrise di rimando
e si liberò dalla stretta per poi avvolgerle le mani a sua volta. L’anello
brillò e per un istante restituì il loro riflesso.
Lentamente Dean lo sfilò dalle
sue dita per farlo scivolare nell’anulare di lei: calzava alla perfezione.
“Eccoti qua!”
Il viso del bambino si illuminò
con un sussulto, come quando, arrivato all’ultimo pezzo di un puzzle particolarmente
complicato, tutto collimava e l’immagine di una locomotiva blu o un trattore
arancione si materializzava per magia sotto i suoi occhi estasiati.
Travolto da una gioia incommensurabile
prese a baciarla tutta, solleticandola appena con i riccioli biondi.
“Papà torna presto, fai la
brava.”
Con sguardo caldo e fiducioso il
piccolo la fissò intensamente, sfuggì al tocco delle sue dita sottili e callose
– segni indelebili di una vita a cui aveva voltato le spalle – le distese le
rughe della fronte, spianandole a fondo, e stirò appena le sue labbra in un
buffo sorriso: tutto quello per cui aveva combattuto sino a quel momento era lì
davanti a lei a consolarla.
Quasi tutto.
Lo baciò a
fior di labbra cullando il suo visetto paffuto e, quasi meccanicamente, mormorò
a sua volta:
“Papà torna presto.”
Era sempre tornato, alla fine.
NdA: Nell’episodio
5x16 apprendiamo che il matrimonio di Mary e John non è tutto “rosa e fiori”
come sembra essere stato dipinto sino ad ora, riportando letteralmente le
parole di Dean: “It wasn’t
perfect until after (Mary) died”.
L’ho trovato estremamente triste, dolce-amaro, ma vero. Dà profondità a
personaggi che altrimenti sarebbero appiattiti da un intreccio avvincente, ma
che spesso rischia di andare a discapito delle caratterizzazioni. Capiamo che
John era di certo un marito devoto, ma che in fondo la guerra (aveva combattuto
in Vietnam) non lo aveva forse lasciato così “intatto” come Mary pensasse o
che, semplicemente, come accade anche alle coppie migliori, potesse pensarla in
maniera del tutto diversa dalla moglie; che i bambini filtrano, ma non
dimenticano, agiscono talvolta protetti da una bolla speciale; che in una
famiglia tutti devono fare la loro parte per restare uniti, sempre.
Il braccialetto e i simboli a cui accenno potete
trovarli qui: http://www.supernaturalwiki.com/index.php?title=Mary%27s_Bracelet