Nick autore:
yingsu
Titolo storia:
Like a bird in the snow, there is no place to build your home.
Pacchetto:
Tradimento + prompt (I demoni degli incubi notturni), Uchiha tormentato.
Personaggi
ed eventuale pairing: Itachi, Shisui,
Fugaku, Mikoto, Clan Uchiha, Sasuke. (ShiIta).
Genere:
Introspettivo, Angst, Malinconico.
Eventuali
Avvertimenti: Missing Moments.
Eventuali
Note: Ci tenevo
a spiegare un po’ di cose, solitamente faccio le note d’autrice alla fine, ma
mi rendo conto che, in questo caso particolare, una bella infarinatura prima
non farebbe male al fine della comprensione di questa One-Shot.
Ho voluto trattare di Itachi alternando più volte, ciclicamente, il sonno e la
veglia, incubi e allucinazioni, realtà e finzione, come una grossa tela
ingarbugliata. Il tutto rigorosamente introspettivo, a volte così tanto che
sarà difficoltoso anche per chi legge comprendere appieno quando è sveglio e
quando sta dormendo.
Non ho studi alle spalle per
poter affermare che Itachi abbia sviluppato un
disturbo post-traumatico da stress in seguito al massacro, ma vivo
letteralmente circondata da psicologhe, e questo mi porta a discorrere spesso
con loro di questi argomenti particolarmente delicati. Alla fine conosco
abbastanza da poter supporre che il trauma lo abbia portato ad un leggero DPTS,
ma non ho esagerato né strafatto, perché come ho già detto, potrebbe essere
solo una cosa molto blanda, e niente di più. Non mi esprimerò in merito,
vedetela come volete: DPTS, o semplicemente sogni dentro altri sogni, molto
alla Inception.
Ma passiamo oltre, presenza molto
sentita in questa storia è il pettirosso. Ho scelto proprio lui perché è un uccello
molto solitario, si allontana e canta, mostrando solo di sfuggita la sua vera
essenza. È il simbolo dell’imprevedibilità, e della riservatezza nei confronti
dei suoi simili. Una leggenda dice che il suo petto è rosso perché si è
avvicinato a Cristo sulla croce, sporcandosi con il suo sangue.
In più, nella cultura cristiana,
è l’animale guida che accompagna le anime nel regno dei morti.
Per quanto riguarda l’unica
coppia presente, ci terrei a precisare che ho preso spunto da una bellissima doujin di una delle mie fanartist
preferite. Lei ha supposto che Shisui non fosse
morto, una volta lanciatosi nel fiume, e che avesse chiesto ad Itachi di affogarlo, per porre fine alle sue sofferenze. Mi
piace così tanto questa idea, la trovo così romantica e dolorosa che l’ho
letteralmente assodata come una verità assoluta, e quindi mi è venuto spontaneo
utilizzarla anche qui.
Ultima cosa, ho tenuto fede a
quello che Tobi racconta a Sasuke,
al fatto che Itachi si fosse ingozzato di farmaci per
sopravvivere, solo per morire davanti al fratello.
E insomma, questo è quanto. Un
lungo excursus sugli incubi di Itachi, sulla sua vita
dopo il massacro, vista dai suoi occhi stanchi.
Il titolo della storia è un
frammento della canzone «Friction», degli Imagine Dragons.
Consiglio come colonna sonora
l’ascolto di questa canzone: Apocalyptica - Nothing
Else Matters.
Spero che sia comprensibile, per
prima cosa, e che vi piaccia.
Buona lettura!
«I
demoni degli incubi notturni».
Freddo. I
pantaloni gli si appiccicavano alle gambe, zuppi di acqua, di lacrime.
«Non c’è pace per quelli come noi».
Il sangue caldo
sulle sue mani, fra le sue dita, su quella maschera di cera che sorrideva,
senza occhi. Si sarebbe sistemato tutto, lo avrebbe salvato. C’era ancora una
possibilità.
Le dita fra quei
capelli morbidi, fini come la seta, e una frase sospesa nel vento. L’ultima.
«Metti fine a questo dolore».
No. Non poteva
chiederglielo, non poteva farlo.
Gli sfiorò le
guance, la pelle pallida, come neve fredda e umida, si squagliava sotto il suo
tocco tiepido, rigata dalle sue lacrime calde che, come pioggia primaverile,
creavano solchi in quel pianto vermiglio, cancellando ogni cosa.
«Fa dannatamente male…» lo sentì mormorare,
le labbra appena schiuse in un gemito muto di dolore, in una preghiera che lui
non voleva esaudire.
Non lo avrebbe
ucciso, non poteva ucciderlo.
«…T-ti prego», era il sussurro del vento, lo
scrosciare del fiume che accarezzava le rocce, le proprie gambe molli e le
braccia di Shisui.
Lo stridio dei
suoi denti che si sfregavano, la mascella serrata, contratta in una smorfia che
gli faceva male al volto. Non era giusto.
Non poteva
lasciarlo, non era abbastanza forte per portare quel fardello pesante da solo.
Non era
abbastanza grande. Non era come lui.
L’acqua fredda
sulle mani, la corrente troppo forte cercava di portarlo via, di strappargli la
presa da quelle ciocche bagnate, da quel viso che sotto lo specchio del fiume sembrava
sorridergli ancora. Sentiva la presa sui polsi, ferrea, come un cappio – bruciava
come sale sulle ferite, come lacrime sul suo labbro sanguinante.
Lo sentiva
dimenarsi sotto di sé, mentre chiudeva gli occhi, serrava le palpebre restando
al buio, sperando che tutto finisse, che morisse in fretta.
Che fosse solo
un sogno, e che quelle mani gli stessero afferrando i polsi per gioco, in un
assurdo ed infantile gesto di supremazia. Avrebbe dovuto baciarlo, adesso.
Chinarsi su di lui e sussurrargli all’orecchio che non avrebbe più dovuto
uccidere nessuno, se lo avesse voluto. Che con una sola parola lui avrebbe
cancellato via tutto quel dolore, quei corpi morti che si portava sulla
coscienza, carica come un carro di cuori che pesavano più di una piuma.
Condannati.
Erano tutti condannati a morire.
La presa sulle
sue braccia si allentò piano, fino a sparire, seguita dal tonfo sordo
dell’acqua che si scostava, facendo posto anche all’unica parte di lui che
ancora non voleva lasciarlo.
Era finita,
finita davvero.
Aprì gli occhi
mentre le ginocchia cedevano sotto il peso di quel dolore che si diramava in
ogni parte del corpo, facendolo tremare come il bambino spaventato che era. Gli
girava la testa, l’acqua era un intreccio di capillari rossi che scorreva verso
valle. Lontano da lui.
La sua bocca si
spalancò in un grido muto di dolore mentre si accartocciava su se stesso, come
un origami in fiamme, su quel cadavere che sorrideva, galleggiando sull’acqua,
davanti a lui.
Lo strinse fra
le braccia, vicino al petto, mentre il suo corpo si sgretolava come polvere, in
frantumi.
Cadeva a pezzi.
Lui, la roccia alle sue spalle, Shisui. Di ceramica
fra le mani di un mondo bambino, egoista e indelicato.
«Proteggi il villaggio, e il nome degli Uchiha».
Proteggi Sasuke.
I suoi occhi si
aprirono nel buio della sua stanza, sulle travi di legno del soffitto. Il
sudore e le lacrime gli impreziosivano il volto, come gocce di perla lucenti,
riflettevano il colore della luna, piena fuori dalla finestra, alta nel cielo.
Sentiva freddo,
gli sembrava che ogni cellula del suo corpo stesse tremando, congelata da
quell’acqua che ancora lo bagnava, da quelle labbra che non era riuscito a
baciare per l’ultima volta.
Si strinse nel
lenzuolo, scosso dai brividi, dalla consapevolezza che forse Shisui aveva ragione, che non esisteva la pace per quelli
come loro.
Erano figli
della guerra, nati e cresciuti fra il sangue e i cadaveri, e nulla al mondo
avrebbe mai cancellato dalla sua memoria quel volti pallidi, contorti e
distorti. Morti. Migliaia di morti, e il sangue sul suo viso, sulla lama
lucente e affilata come i suoi occhi.
Li vedeva
ancora, ogni tanto, chiazze rosse nei suoi sogni, mostri e demoni degli incubi notturni. Strisciavano piano nel suo
sonno, sotto il letto, uscivano dall’armadio e lo azzannavano alla gola,
squartandolo, strappandogli la carne dalle ossa, brandello per brandello.
Frammenti di
anima rubati, cocci di un vaso distrutto e incompleto.
Gocce di morte negli occhi, di dolore su un viso
innocente di bambino.
Un singhiozzo
gli scosse i polmoni e la cassa toracica, squarciando a metà il silenzio della
notte. Si tappò la bocca con entrambi i palmi, chiudendo gli occhi, strizzando
le palpebre con una tale forza da farsi quasi male.
Non era morto. Shisui non era morto. Non lo aveva ucciso, non lo aveva
affogato. Quelle mani che ora soffocavano ogni gemito e sospiro non gli avevano
strappato la vita, non avevano stretto quei capelli sotto l’acqua, rubandogli
l’ultimo respiro.
Itachi…
Gli sembrava di
sentirlo ancora, di vederlo, seduto sul davanzale, cianotico, con quelle labbra
livide. Sembrava un manichino, un orrido pupazzo di cera molle inzuppato.
L’acqua colava
dal pavimento, dai suoi capelli scuri, e da quelle orbite svuotate, nere come
la pece.
Barcollava per
la stanza, camminando verso di lui, strisciando il piede destro sul pavimento,
lasciando una scia scura dietro di sé.
Lui non gli
avrebbe fatto del male.
Itachi.
Quella voce era
una nenia infinita ed insopportabile, il canto delle cicale, la canto del fiume
che si ostinava a ricordargli quello che aveva fatto.
La mano umida
sul viso, sul collo e le clavicole, gli sfiorava la pelle scoperta dalla
maglietta, gli asciugava le lacrime con altra acqua, e poi gli baciava la
fronte e gli occhi, lo sporcava di rosso e di alghe, viscide fra le sue dite.
«Perché?» fu
l’unica cosa che riuscì a sussurrare, a dire mentre le dita pallide di Shisui gli accarezzavano i capelli sciolti, gli sfioravano
le labbra e le ciglia lunghe e sottili.
Per cosa?
Non riusciva a
capirlo, a guardare oltre quei visi vuoti che incominciavano a prendere tutti
le stesse orrende sembianze. Suo padre, sua madre, l’Hokage,
Danzo. Tutti. Erano tutti uguali.
Che cosa devo fare, adesso?
Cosa?
Non rispose.
Il sorriso sulle
sue labbra era l’unica cosa umana che gli restava, che dava un po’ di colore a
quel teschio di neve. Il suo palmo sui suoi occhi stanchi, arrossati dal
pianto, e poi il buio.
Non c’è pace, Itachi.
Non c’è pace per
quelli come noi.
Un tuono
squarciò il silenzio della notte mentre il suo corpo scattava, svelto,
mettendosi a sedere.
Pioveva, l’acqua
era filtrata dall’imposta socchiusa, gocciolandogli sulla fronte.
La chiuse con un
sospiro, asciugandosi il viso nel lenzuolo già umido.
Era stanco di
questi incubi, stanco di tutto.
Shisui aveva ragione:
non c’era pace, non per lui.
Il sangue caldo
sulla spada. Sulla lama.
Schizzò sul suo
volto in un secondo, macchiandogli le labbra, sporcandogli la guancia e la
fronte.
Le grida
soffocate.
Le preghiere di
una donna, di una madre.
Non sarebbero
bastate, nulla sarebbe bastato.
Mi dispiace.
Si girò di
scatto, svelto, un bambino in lacrime singhiozzava, correndo nel corridoio,
dentro l’armadio, dove di solito si nascondevano i mostri.
Ma non c’erano
demoni spaventosi quella notte, solo lui.
L’unico vero
mostro, l’angelo della morte inviato dall’alto per sistemare ogni cosa.
Basta.
Un tonfo, la
caviglia stretta fra le sue dita, e quegli occhi pieni di lacrime, lo sguardo
di un bimbo che non avrebbe più giocato in giardino, che non avrebbe visto la
luce dell’alba un’altra volta.
Per il villaggio.
La primavera
sanguinava sopra di lui, ricoprendolo di uno strato viscido di sangue bollente.
Ogni petalo che
cadeva, ogni fiore che lo sfiorava si tramutava in rubino liquido, come pioggia
vermiglia sulla sua testa, sui suoi capelli.
Pioveva sangue.
Il sapore
ferrigno sulla lingua gli annebbiava ogni altro senso, il fiato si condensava
in piccole nubi bianche davanti a lui, mentre un sentore di nausea gli
stringeva la bocca dello stomaco, gli strizzava le budella cercando di
fermarlo, di bloccare quei muscoli tesi che impugnavano la katana.
Mi dispiace.
Perdonami Sasuke, non c’è altro modo.
Paura.
La vedeva negli
occhi vitrei di quei cadaveri, mentre la vita li abbandonava, uno ad uno.
Mai. Non si
sarebbero chiusi mai.
Volti distorti,
grida mute, incubi.
Nessuno. Non si
sarebbe salvato nessuno dopo quella notte.
Così doveva
essere, così gli era stato ordinato.
Perdonami.
Dall’alto di
quel palo della luce vedeva ogni cosa, vedeva le case sanguinare, la luna
piena, testimone muta di quel massacro.
Vedeva Sasuke.
Buio.
Un conato di
vomito gli schiuse le labbra, costringendolo a contorcersi nel futon, sopra il
tatami. Sentiva il sapore del sangue sulla lingua, colargli giù, nell’esofago.
Bollente. Vivo.
La mano che
stringeva la stoffa bianca era macchiata di nero, si dipanava lentamente, come
una tela di ragno, sopra i suoi vestiti, sul suo avambraccio.
Sentì il bisogno
impulsivo di spogliarsi, di togliersi quei vestiti sozzi di dosso, mentre Kisame dormiva qualche metro più in là.
Strisciò fuori
dalle coperte, alzandosi in piedi, sfilandosi la maglia in un gesto di
ribrezzo, raggiungendo il lavandino con una strana urgenza che gli faceva
vibrare ogni nervo.
I palmi sotto
l’acqua non volevano saperne di pulirsi, di togliersi quel sangue di dosso. Non
importava quanto sfregasse, poteva strofinarle fino a quando la sua pelle si
fosse consumata, fino alle ossa, ma nulla sarebbe cambiato. Niente.
La neve fuori
dalla finestra sembrava brandelli di carne, vermiglia sull’erba, sulle fronde
degli alberi.
Fece scorrere la
porta in carta di riso, lasciando che l’aria gelida lo investisse,
cristallizzandolo sul posto, davanti a quell’odore nauseante di morte.
Un uccellino
cantava una nenia lugubre, funebre in mezzo a quel cumulo di morti, in quel
macello in putrefazione. Zampettava sulla neve, lasciando minuscole impronte,
quasi invisibili,
Aveva il petto
macchiato di sangue, come lui. Come le sue mani.
Non aveva una
casa, un riparo per il freddo. Non aveva niente. Solo quel liquido rosso
addosso.
Lo osservò
beccare la testa di un uomo, chinarsi e strappargli un occhio, e poi divorarlo,
frammento dopo frammento, pezzo dopo pezzo.
Era anche lui
così, solitario, un pessimo attore di una commedia che lui stesso aveva messo
in atto.
Ma il pettirosso
era felice.
Sembrava felice.
Sei felice, Itachi?
No.
Si accasciò sul
pavimento, le mani sugli occhi, fra i capelli, mentre quel grido muto gli
graffiava la gola, artigliandosi alla sua trachea. Sentiva il sangue scorrergli
giù, verso lo stomaco, come acqua bollente che incendiava ogni cosa,
ustionandolo dall’interno.
Perché lui non
era felice?
Perché Shisui era morto sorridendo?
Perché?
Sentì i passi di
Sasuke sul pavimentò, la voce di sua madre che urlava che era pronta la cena.
Era quella la felicità, e lui aveva disintegrato ogni cosa, ogni attimo. Era
rimasto solo.
Solo.
Come il
pettirosso nella neve.
Un gemito strozzato
gli uscì dalle labbra, mentre le sue mani stringevano la stoffa del futon fino
a farsi male. Non riusciva a mettere a fuoco il lampadario sopra la sua testa,
e tanto meno le pareti della stanza. Tutto era una grossa macchia pallida e
indistinta, aloni di oggetti, frammenti di immagini che le sue cornee non
riuscivano a metabolizzare. Non più, almeno.
Chiuse gli occhi
inspirando profondamente, sentendo l’addome infossarsi in modo innaturale,
creando una conca, mettendo in vista le ultime costole della sua gabbia
toracica, troppo piccola. Gli comprimeva i polmoni, gli strappava il fiato
schiacciandolo sotto il fantasma di un peso che faticava a sopportare. Si
sentiva un uccello in una gabbia di carne, stretto fra le dita di un uomo.
Imprigionato. Finito. Tormentato. Senza ali per scappare. E il suo petto
sanguinava fra quelle mani, mentre la vita lasciava lentamente il suo corpo.
Ma non poteva
morire. Non doveva farlo.
Non aveva ancora
mantenuto le sue promesse.
Un colpo di
tosse gli frantumò le ossa, squarciandogli i muscoli del torace, strappandoli
in un unico ed inquietante clack.
Il suo corpo si
contorse su se stesso, mentre il dolore si scioglieva diventando liquido,
vermiglio sul palmo della sua mano che celava la bocca, proteggendo quel
segreto.
Deglutì a
fatica, mentre l’ossigeno si faceva fugace, volava via da lui, lontano,
intrappolandolo in una campana di vetro che ovattava ogni suono, ogni rumore.
Strisciò sul tatami, fino al flacone pallido ricolmo di pillole, le dita
tremavano stringendosi attorno al contenitore in un gesto di convulsa
disperazione.
Si ingozzò con
quelle pasticche, le sentì mischiarsi al sapore del sangue, nella sua bocca, e
poi bloccarsi fra le clavicole per qualche istante, creando un nodo a metà
della gola, soffocandolo prima di sciogliersi lentamente, lasciandolo libero di
deglutire.
Proteggi il villaggio e il nome degli Uchiha, non importa a che prezzo.
Proteggili.
La luna lo
fissava dall’alto, con quei grandi solchi scuri fra il pallore di latte e
miele. Sembravano due occhi, due enormi buchi neri che lo fissavano con aria
triste e lontana.
Piangevano.
Poteva sentire
ogni singola lacrima sulla sua pelle, mentre quelle due schiene ritte in segno
di orgoglio e onore non volevano saperne di chinarsi, di ricordargli per l’ennesima
volta che lui non era il figlio che avrebbero voluto. Quello che si meritavano.
Proteggi il villaggio della foglia.
Non c’era altro
modo.
«Lo capiamo, Itachi», era una
carezza sul viso, l’ultima. Gli sembrò di sentirne il tepore, dopo anni, la
morbidezza di quelle dita sottili da donna. Da madre.
L’amava, così
tanto che avrebbe ucciso chiunque le avesse fatto del male. Eppure ora era lui
a fargliene, a tradirla, a farla pezzi. Ma quelle scapole appuntite non
sembravano dare alcun cenno di dolore o sofferenza. Come le era stato
insegnato: nessuna emozione, nemmeno un briciolo.
Per un istante
la rivide incinta, con quella pancia gonfia, seduta sull’engawa
accanto a lui. Sorrideva mostrandogli come il suo addome si muoveva lentamente,
«Hai visto?» diceva, e le dita sulla sua schiena sembravano promettere che lei
lo avrebbe protetto sempre, difeso da ogni male. Perché era sua madre, perché
lui e quella pancia erano le cose più belle e speciali che la vita le avesse
mai regalato. Ed ora lui stava distruggendo ogni cosa.
«Itachi, promettimi
un’ultima cosa…»,
avrebbero potuto difendersi, attaccarlo e proteggersi. Voleva ucciderli
entrambi, ma loro non si muovevano.
Sentì le gambe
farsi sempre più molli davanti a quella richiesta, a quella frase sospesa
nell’aria come un minuscolo granello di polvere.
Cosa? Cosa doveva promettergli?
«… prenditi cura di Sasuke».
Sasuke.
Lo farò.
Quel nome lo
colpì con una tale forza da accartocciargli lo stomaco in una morsa crudele. La
nausea gli dava la testa mentre la katana fra le sue dita tremava, minacciando
di scivolare sul pavimento, lontano dai suoi palmi sudati e sporchi. Non aveva
più il controllo su un solo singolo muscolo del suo organismo, tutto si
lacerava in preda a quegli spasmi di dolore impalpabile che gli dilaniavano il
petto. Piangeva.
Sale bollente
sulle sue guance, sulla sua lingua, gli inzuppava le labbra tramutandosi in
piccole gocce di pioggia che s’infrangevano sul pavimento.
«Non avere paura», ma ogni parte del suo corpo
sembrava gridare.
Le orecchie
scoppiavano, come se qualcuno gli stesse perforando i timpani con un legno
appuntito. Passava da parte a parte del suo cranio, annebbiandogli la vita,
distruggendo quella maschera fredda che si era imposto fino a quel momento.
Colava sul suo
viso, sciolta dalle lacrime, diventava molle e gelatinosa, come carta
inzuppata.
«Paragonato al tuo, il nostro dolore svanirà in un
istante»,
e lo sapeva. Aveva ragione.
La fitta di un
momento, contro la sofferenza di una vita.
Li amava. Li
amava entrambi, ma era giusto così.
Mi dispiace, mamma. Mi dispiace.
La presa ferrea
sul manico della katana si fece più salda, consapevole.
Doveva proteggere
il villaggio, con tutte le sue forze, con ogni mezzo possibile. A qualsiasi
costo.
«Sono fiero di te, Itachi»,
era
un eco lontano, la deflagrazione di un colpo che riecheggiava nella sua testa,
schiantandosi contro la sua scatola cranica, ferendolo dentro.
Era la prima
volta in cui li vedeva entrambi orgogliosi di lui, di quel figlio sfuggevole,
modellato per essere perfetto. Ma la perfezione non esiste. Lui non era così.
Lo avevano
capito, lo avevano capito solo adesso.
«Sei davvero un buon figlio».
Tutto finì in un
attimo, la lama li trapassò entrambi, uno alla volta, mentre il sangue colava
sul pavimento, gli schizzava sul volto già sozzo, bruciandogli la pelle.
Il petto gli si
squarciò in due, mentre la spada strisciava sul legno, producendo un lievissimo
suono, imitando l’urlo che la sua bocca non era stata in grado di rilasciare.
Il corpo di suo
padre sopra quello di sua madre, inerme. Gli occhi aperti, vitrei, troppo
lontani da lui, sembravano ripetergli di nuovo quanto lo avevano amato.
Chiedevano
scusa, scusa per quello che gli avevano fatto, scusa per il tacito affetto
negato.
Scusa.
La porta
dell’entrata si aprì, seguita da quella voce infantile che stava aspettando.
Mi dispiace, Sasuke. Mi dispiace…
I suoi occhi si
aprirono con uno scatto, vedeva Sasuke davanti a lui, una chiazza informe di
chiaroscuro, più alto, più deciso, le spalle più larghe e dritte riflettevano
una sicurezza che non gli aveva mai visto addosso.
Era fragile,
Sasuke, come i petali di un fiore appena sbocciato, si ergeva vanitoso e
superiore, incurante che un soffio di vento avrebbe potuto farlo a pezzi.
«Come va con lo sharingan? Dimmi
fino a che punto sei diventato forte…», voleva vederlo combattere fino allo
stremo, fino alla fine. Itachi desiderava morire
davanti a lui, dargli quello che cercava da anni.
Sarebbe stato
l’eroe, il vendicatore, colui che aveva riscattato il nome degli Uchiha.
Avrebbe ucciso
suo fratello, l’uomo che aveva fatto a brandelli la sua innocenza, la sua famiglia.
Gli aveva distrutto ogni cosa, ed ora lui si sarebbe preso la sua rivincita.
Per mamma, per
papà, per se stesso. Per tutto il clan.
Ora capiva Shisui, capiva che cosa significasse essere felice.
Doveva mantenere
solo quell’ultima promessa, una sola. Proteggi
Sasuke.
Prenditi cura di lui.
Stava per
morire, i polmoni faticavano a riempirsi mentre cercava di raggiungere Sasuke,
premuto contro la pietra, in piedi, poteva sentirlo tremare da lì. Di terrore,
paura.
Paura di morire,
di non farcela, di essere debole.
Lo avrebbe
difeso, non avrebbe più avuto paura. Lui era lì per quello, era sempre stato lì
per lui.
«Sei diventato
molto forte, Sasuke» la voce gli graffiava la gola, ogni lettera, ogni parola
era un gorgoglìo, sangue sulle sue mani, nella sua gabbia toracica stanca,
stufa di alzarsi e abbassarsi, «… hai combattuto fino all'ultimo».
Era quasi
finita, quasi.
La mano tesa
verso di lui, gli toccò appena la fronte placando quel timore infondato.
Non avere paura, Sasuke.
Gli sfiorò la
testa, in un gesto gentile e dolce, in quel gesto di amore solo loro.
Mi dispiace, Sasuke. Mi dispiace.
Non ci sarà una prossima volta…
E mentre il suo
cuore rallentava, perdendo battiti, lascandosi andare a quella morte che lo
chiamava da tempo. Lo vide, il pettirosso nella neve – volava piano verso di
lui, basso, leggero.
Cantava felice.
Cantava.
Lo riportava a
casa.
Sorrise.