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Autore: graciousghost    18/04/2015    3 recensioni
[Prima Classificata al Contest "Pensami!" indetto da DonnieTZ sul Forum di EFP]
Sulle note nostalgiche di Ben Howard, lo scavo psicologico dentro l'anima avvelenata da un male ancora ignoto di Nathan Moore ha inizio; scandito solo dal regolare ticchettio di una stilografica, si snoda il filo greve dei suoi pensieri, tutti incentrati su un unico nome.
«Stai parlando di quel ragazzo, non è vero?» Il dottore indossò gli occhiali e sfogliò rapidamente i fogli che teneva sulla scrivania; tutti recavano la dicitura Nathan Moore, nell'angolo in alto a destra. «Dean», aggiunse poi, una volta trovata l'informazione di cui era andato alla ricerca.
«Dean», confermò il paziente, accompagnando quella parola con un cenno affermativo del capo. Non pronunciava il suo nome da mesi e d'un tratto gli parve inadeguato lì, sulle labbra e nelle ossa; Dean era ancora dappertutto.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Horror vacui

Horror vacui.




∫∫∫


Nathan Moore, prima seduta.

«Allora, da dove si comincia?»
«Dall'inizio. Si parte sempre dall'inizio, Nathan».
«Non me lo ricordo».
L'uomo sospirò sonoramente, sollevando il volto dalla pagina su cui aveva appena segnato la data dell'incontro, e cercò con insistenza lo sguardo del ragazzo. «Sono sicuro di sì».
«A nessuno importa niente dell'inizio. All'inizio andava tutto bene, com'è ovvio». Nathan lasciò andare la zip della felpa che aveva torturato sin dai primi minuti della seduta e ricambiò l'occhiata del dottore con la solita sfrontatezza. «È sempre dopo che le cose si incasinano».
«Stai parlando di quel ragazzo, non è vero?» Il dottore indossò gli occhiali e sfogliò rapidamente i fogli che teneva sulla scrivania; tutti recavano la dicitura Nathan Moore, nell'angolo in alto a destra. «Dean», aggiunse poi, una volta trovata l'informazione di cui era andato alla ricerca.
«Dean», confermò il paziente, accompagnando quella parola con un cenno affermativo del capo. Non pronunciava il suo nome da mesi e d'un tratto gli parve inadeguato lì, sulle labbra e nelle ossa; Dean era ancora dappertutto.
«Ricorda che non siamo qui solo per lui».
«Sono messo così male, allora?», la risata accennata del giovane si dissolse rapidamente, incapace di scalfire la compostezza del suo interlocutore. «Mio padre la paga cento bigliettoni all'ora, potrà almeno farsi una risata per compiacermi, ogni tanto».

Idealizzazione di sé.

«Cosa scrive, dottore?», Nathan divenne più inquieto e si sporse sul bordo della poltroncina in pelle, tentando di sbirciare il contenuto dell'agenda che lo psicologo nascondeva gelosamente. «Cristo, non c'è sempre un motivo per cui dico ciò che dico. Il più delle volte non ha neppure senso starmi a sentire».

Svalutazione di sé.

«Non si può proprio dire che lei sia un tipo loquace, eh?», il ragazzo scrollò le spalle con finta noncuranza e recuperò sigaretta e accendino dalla tasca posteriore dei jeans.
«Qui non si può fumare», il dottore inarcò un sopracciglio alla vista della fiamma, facendo segno al cartello in bella vista sulla porta in mogano.
«Pretende davvero che io rimanga rinchiuso qui dentro per un'ora intera a parlare di Dean senza neanche un piccolo aiutino?»

Dipendenza:

«No, sul serio. Deve smetterla di scrivere su quel quaderno del cazzo».
«Faccio solo il mio lavoro».
«Ho bisogno di una dannata sigaretta. E di parlare di quel coglione».

- fumo

- Dean Sullivan (?)


* * *

Dodici mesi fa:

Nathan lasciò rimbalzare il pallone da basket sul fondo della palestra, seguendone la traiettoria discontinua con lo sguardo spaventosamente assente; ogni tonfo faceva risuonare il campo da gioco di un timbro cupo, ma che il ragazzo non faticava a considerare rassicurante. La palla rotolò fino a toccare il muro dell'edificio e la palestra sprofondò nel silenzio – per un istante, rimasero sospesi nel vuoto: ma Nathan corse subito a riprenderla e tornò a palleggiare, con apparente indifferenza, vicino alle gradinate.
Seduto sulla prima fila di panche, Dean non sollevò il volto dalla punta delle consunte scarpe da ginnastica, nemmeno quando udì i passi dell'altro farsi più vicini. «Non puoi smetterla? Mi stai facendo venire il mal di testa», si lamentò, all'ennesimo rimbombo del pallone che si disperdeva come un'eco intorno a loro.
«Sai che non posso», rispose semplicemente Nathan, quasi la sua constatazione fosse un assioma la cui trasparente verità non poteva essere incrinata da lamentele banali come quella.
«Il vuoto in ogni sua forma, eh?», commentò sarcastico Dean, prendendo a massaggiarsi le tempie; l'altro ragazzo non parve turbato dalla sofferenza fisica – come se quella psicologica non bastasse – che infliggeva con le sue manie e non si curò di porre fine all'unico svago della mattinata.
«Già».

Riempire il vuoto – quale?

Per qualche minuto nessuno fiatò, ed entrambi si limitarono ad ascoltare il suono della campanella che annunciava la fine delle lezioni di quel tredici dicembre alla South High di Denver, Colorado; riuscivano quasi a percepire la leggerezza degli altri studenti stridere vistosamente con ciò che si stava consumando in quella palestra.
«Perché mi hai fatto venire qui? Non hai nemmeno voglia di farlo».
«Mi sentivo solo».
«Tu ti senti sempre solo», infierì il moro, scattando in piedi, «e io devo andare al lavoro», aggiunse, raccogliendo lo zaino dal pavimento.
«Devi continuare a parlarmi, Dean», la fronte di Nathan si corrugò appena, una minuscola ruga incrinò la perfezione della sua maschera di cera. «Non puoi andartene come se niente fosse», gli posò una mano sulla spalla, per tenerlo ancorato lì con lui. Sentì sotto il palmo il cotone della canottiera da basket e il sudore della sua pelle, ma quel contatto fu troppo breve per tranquillizzarlo; Dean si sottrasse con vigore alla presa e ben presto Nathan si ritrovò ad afferrare nient'altro che aria.
«Oh, certo, che stupido!», sbottò Sullivan, stizzito non tanto per il gesto in sé, quanto per l'effetto che quel tocco gli causava ancora, nonostante tutto – mi rendi così difficile odiarti, bastardo. Scacciò rapidamente quel pensiero e riprese a camminare a grandi passi verso l'uscita. «Sono sempre stato solo questo per te, un modo per colmare l'assenza», esclamò ancora, senza osare davvero spingere la maniglia della porta.
Colpiva duro, Dean, andava dritto al punto e non cercava affatto di farlo stare meglio; quegli occhi troppo chiari per non essere altrettanto sinceri sapevano dove guardarlo per ferire con precisione letale. Nathan chiuse le palpebre e lo cacciò via – non può essere così trasparente, non può; non riusciva più a tollerare quella dose quotidiana di sensi di colpa.
«Stronzo», disse soltanto e con quella parola s'arrese. A Dean, all'amore che sentiva per lui e al disgusto che provava per sé.
«Un fottutissimo niente che diventa abbastanza per lo spazio di una scopata».
Basta, basta. Sparisci.
«Stronzo».
Un altro pugno, l'ennesimo crollo; fin dove vuoi spingerti, Dean? Sono qui e sanguino, non è sufficiente?
«Sai, avevo l'esame finale di Storia oggi e mi è andato di merda», cazzo. «Oh, e mia madre non è rincasata neanche stasera», cazzo. «E probabilmente dopo il lavoro dovrò picchiare il ragazzo che ha sverginato mia sorella», cazzo. «Ma a te non frega mai di niente e di nessuno, se non di te stesso».
L'azzurro puro di Dean ora tremava di rabbia – può coesistere il fuoco con quell'argento che non conosce crepe? – e traboccava di contraddizioni – davvero è capace d'odio uno sguardo così?
«Hai ragione, a me non importa». È la resa; che ci fai ancora qui? Lasciami. Ma se tu ora vai via, io rimango senza scheletro e muoio.
«Sono stanco di te. Questa è l'ultima volta che mi vedi», alla sua minaccia Dean non credette neanche per un secondo; quante volte aveva già giurato che l'avrebbe lasciato?
«Lo ripeti da mesi, ma poi torni sempre».
«Sì, Nathan, io torno sempre. Perché senza di me sei fottuto», la porta si spalancò con un gesto secco della mano e il ragazzo tornò a respirare – lontano da lui.
A Dean fumare non piaceva per niente, lo faceva sentire sporco e impuro fin sotto la pelle; ma l'aria pungente dell'inverno di Denver lo spogliò di ogni presunta convinzione e gli fece correre le dita sulla sigaretta che teneva in una tasca interna dello zaino – in casi d'emergenza, aveva detto a Nathan mesi prima, e lui era tutte le sue emergenze.
Fumò in fretta, tossendo a ogni boccata, e la cenere si mescolò indistintamente alle lacrime.

«Sono fottuto in ogni caso», nella bolla ovattata della palestra, Nathan rimase da solo e precipitò nell'abisso.


* * *

Riempire il vuoto – quale?

Il ticchettio metodico che la penna dello psicologo produceva sulla scrivania rappresentava l'unico suono cui Nathan si ostinava ad aggrapparsi, pur di smettere di parlare; quelle confessioni gli bruciavano ancora sulle labbra tremanti.
«A quanto pare anche lei ha una mania, non è ironico?», il ragazzo si sciolse in una cinica risata, mimando con la sigaretta le evoluzioni sistematiche e sempre identiche a se stesse che il dottore riservava alla propria stilo; l'attacco non è forse la miglior forma di autodifesa?
«Era arrabbiato con te», l'uomo evitò accuratamente di rispondere all'insinuazione del paziente e riportò l'attenzione sull'episodio appena raccontato.
«È sicuro di avere una laurea?», il paziente levò un sopracciglio, sarcastico, indicando con un cenno del capo la parete su cui trionfavano i titoli di studio conseguiti dal dottore all'Università del Colorado. «Non le pare una conclusione un po' troppo semplicistica? Mi pare evidente che ce l'avesse con me».
Ancora una volta, il signor Thompson non diede soddisfazioni al giovane diciottenne e sostituì quelle blande accuse con un nuovo quesito, il più temibile: «perché?»
Nathan avrebbe voluto rispondere tante cose – in una domanda racchiudi il mio universo; se te lo rivelassi, riusciresti ad arginare il mio crollo? – e invece si limitò a un banale: «non mi sono comportato bene». Si passò distrattamente una mano sulle occhiaie profonde, ricalcandone le venature violacee con le dita, e ancorò il blu intenso e privo di sfumature dei suoi occhi al pavimento.
«Sebbene ti rassicuri pensarlo, non sei qui perché qualcuno ti ha obbligato», gli rivelò Thompson, scendendo in campo con la sua prima mossa. «Tu vuoi essere qui; hai perso tutto e ti serve qualcosa cui aggrapparti».
Nathan abbozzò un altro sorriso sagace – chi stava scalfendo l'altro, dopotutto? «Accidenti, sono colpito».

Darling I'll grow weary, happy still
With just the memory of your face
Gracious goes the ghost of you

{Gracious; Ben Howard}


* * *

Due giorni prima della discussione in palestra:

Nella penombra della propria camera da letto, Nathan fissava il soffitto con occhi stanchi e distanti; le tracce della sua recente sfuriata - i cocci dello specchio rotti, i cd scaraventati sul pavimento insieme alle mensole - ancora gravavano sull'atmosfera già tetra della stanza.
Dean l'aveva lasciato sbollire per ore, assorbendo passivamente parole ingiuriose e pugni veementi, finché Nathan aveva semplicemente smesso di provare interesse nei suoi confronti e si era disteso sul letto, nella stessa posizione in cui ora giaceva, immobile.
«Ti preferivo quando mi urlavi addosso», la voce del
moro s'impastò a causa del lembo della maglietta di cui si stava servendo per tamponarsi il labbro inferiore, «almeno sentivi qualcosa», concluse, sedendosi accanto a lui.
Il biondo non lo guardò, né sembrava prestare particolare attenzione alle sue parole; si coprì il volto con entrambe le mani, quasi a volerlo respingere dalla propria testa.
«Non fare il bambino, sai perfettamente che ci sono ancora, lì dentro», Dean gli prese le mani con delicatezza e le sostituì con le proprie, costringendolo a un contatto che entrambi sapevano di desiderare.
«Va' via», la solita condanna giunse puntuale a spezzare l'unico frammento d'interezza che sapevano concedersi; si scambiarono la pelle solo per qualche istante, prima che Nathan si sottrasse anche a quel gesto di riconciliazione.
«Non ti ho tradito, lo sai», Dean aveva ripetuto quella frase per tutto il giorno, ogni volta provando a convincere l'altro del suo significato. Ogni volta, aveva fallito.
«Va' via».
«Puoi ragionare per un minuto, per favore?», le dita di Dean lo cercavano istintivamente, incapaci di lasciarsi sfuggire anche la minima occasione di sfiorarlo, anche quando quella ricerca di aderenza – tra cuori, tra corpi – andava oltre ogni logica razionale.
«Va' via».
Raramente Dean lasciava perdere qualcosa in cui credeva, qualunque essere umano avesse davanti; era certo che in ogni anima si nascondesse una profonda purezza, anche in quella tanto impenetrabile di Nathan. Eppure, quando si alzò per abbandonare la camera, sorprendentemente sconfitto, realizzò che quel ragazzo lo stravolgeva di continuo, mettendolo di fronte a un altro se stesso verso cui provava timore e sospetto.
«Lui chi è?», prima di varcare la soglia, udì la flebile voce di colui che amava più di ogni altro al mondo torturarsi ancora; a quel suono supplichevole si maledì per aver incontrato Steve prima delle lezioni al bar della scuola, dove il suo fidanzato poteva vederli.
«Un vecchio amico», rispose a mezza voce e quel sussurro sapeva di bugia.
«Ci sei stato insieme?», domandò ancora il biondo, stavolta con voce apatica e priva d'inflessione, fida alleata di chi da sempre cela i propri sentimenti oltre una facciata d'ipocrisie.
Dean ci pensò un po' prima di parlare ancora; fino a che punto avrebbe saputo mentirgli? «Scopavamo soltanto»; quante menzogne sapevano raccontare quegli occhi stanchi?
«Come noi due, allora», la lingua di Nathan era così avvezza alle cattiverie da non distinguere più la persona cui ora le stava rivolgendo. Fu il colpo di grazia; a Dean quel claustrofobico spazio non bastò più.
«Certo, Nathan. Esattamente come noi due».

I've been worrying,
that I'm losing the ones I hold dear,
I've been worrying,
that we all,
live our lives,
in the confines of fear.

* * *

- Tendenza agli sbalzi umorali:
da mania ad apatia.

- Tendenza a sviluppare relazioni
intense e morbose.


La stilo dello psicologo vergava tratti sicuri e netti sull'agendina in pelle, inconfutabile prova di quanto inchiostro si potesse versare per il giovane Moore.
«Dunque gli hai dato del traditore», riepilogò, voltando pagina.
«Sempre più perspicace». Nathan si era alzato e ora osservava assorto il turbinio di neve che donava spensieratezza ai passanti, imbacuccati fino all'inverosimile – davvero la gente normale era capace di una felicità tanto mediocre?
«E hai demolito il vostro rapporto con due parole in croce», rincarò la dose il signor Thompson, senza temere di sembrare indelicato.
«Già».
«Per questo ce l'aveva con te, quando l'hai chiamato per vedervi in palestra».
«Touchè», Nathan distese le labbra nel suo consueto sorriso amaro e, forse per la prima volta da sempre, lo vide specchiato nel vetro della finestra.
Vide solo un fantasma avvolto nella nebbia, privo di contorni – privo di identità.
Vide solo uno spettro e si chiese dove si nascondesse l'unico cuore in grado di dargli un'essenza
.


Oh I will become what I deserve.

{The Fear; Ben Howard}


* * *

Nathan Moore, quinta seduta.

«Ti va di parlarmi di un momento felice? Non sembrano essercene stati molti, finora», il dottor Thompson era abituato ad assistere al crollo – in ogni senso possibile – dei propri pazienti ed era sempre riuscito a tenersene sapientemente a distanza, mantenendo un decoro professionale invidiabile. Ma qualcosa di diverso caratterizzava il caso di Moore; un'empatia mai provata, ancor prima dell'interesse prettamente clinico, lo spingeva a volerne sapere qualcosa in più della sua storia, a voler entrare in quella mente dalla quale tutti – o quasi – si erano sempre tenuti alla larga.
Nathan percepì una punta di coinvolgimento nella voce del dottore, ma evitò di fargli notare quanto poco consono si stesse rivelando il suo comportamento; dopotutto, quel particolare signore stempiato cominciava ad andargli a genio.
«Al contrario, ce n'erano tanti. Solo sapientemente nascosti da tutto il resto», rispose con disinvoltura, accendendosi la terza sigaretta.
«In questo modo fa meno male, adesso?»
«Fa male lo stesso».


* * *

In uno spazio e in un tempo indefiniti:

Dean si ripuliva febbrilmente le maniche della giacca dal sangue del ragazzo che giaceva inerme sul marciapiede; aveva gli occhi sbarrati, i sensi del tutto occlusi dall'odore pungente di ferro e le mani gli tremavano, mentre tentava di ragionare alla svelta.
«Sei arrabbiato con me?», accanto a lui, Nathan sembrava spaventosamente tranquillo; aveva le nocche gonfie e livide, contaminate da gocce scarlatte, eppure si preoccupava soltanto della possibile reazione di Dean a quel suo – ennesimo – gesto estremo.
«Che cazzo hai fatto?!», Dean stava dando di matto; il ragazzo sconosciuto non dava segni di ripresa e a Nathan non importava.
«Volevo solo aiutarti...», tentò quest'ultimo, afferrandolo dal giubbotto per evitare che crollasse sull'asfalto per lo shock.
«L'hai quasi ucciso, cazzo!», imprecò ancora Dean, tenendosi la testa fra le mani.
«Lui ti ha chiamato “frocio”!», sbottò allora Nathan, incapace di comprendere come potesse sopportare una simile offesa da un tizio qualunque, casuale testimone di un bacio furtivo che si erano scambiati all'uscita del bar.
«Non possiamo picchiare a morte tutti gli omofobi del Paese, Nathan!»
A salvare il biondo da quella sfuriata, che si preannunciava senza precedenti, giunse una sirena della polizia, probabilmente a pochi isolati dal quartiere in cui era avvenuta la rissa. Dean lasciò correre – per il momento, ci tenne a puntualizzare – e afferrò la mano di Nathan, esortandolo a darsele a gambe col cuore in gola per le strade di Denver.
Scapparono a lungo, senza badare a dove i loro piedi li conducevano, e si fermarono a riprendere fiato solo dopo parecchi minuti, nei pressi di un vecchio cantiere abbandonato. Nathan approfittò della pausa per baciare Dean fino a sottrargli quel poco ossigeno che gli era rimasto in circolo, sperando di farsi perdonare in quel modo poco convenzionale.
«Tu lo sai che è sbagliato, vero?», chiese Dean, determinato a non lasciarsi circuire da quella bocca tanto seducente e ad andare fino in fondo alla questione.
«Chiamare frocio un omosessuale? Certo», rispose Nathan, tentando di apparire il più convincente possibile.
«Mi riferivo alla questione dell'uccidere», sospirò l'altro, sottolineando accuratamente l'ultima parola e accompagnandola con un gesto eloquente della mano.
«Oh, giusto. Anche quello».
L'espressione sul volto di Nathan era talmente buffa – contrariata per essere stato rimproverato e, al tempo stesso, per nulla dispiaciuta per quanto avvenuto – che Dean non riuscì a trattenere una risata, alla quale ben presto si accodò anche l'altro.
Pareva quasi surreale ridere dopo una cosa così – amarsi dopo aver preso a pugni un ragazzo, vivere dopo aver quasi cercato di infondere morte – eppure quella notte rappresentava, sotto ogni punto di vista, la più alta forma di beatitudine possibile.


And no man is an island, oh this I know
But can't you see, oh?
Maybe you were the ocean, when I was just a stone

{Black Flies; Ben Howard}


* * *

- Instabile

- Facilmente incline a rabbia e violenza

«Hai uno strano concetto di felicità, non è vero?», il signor Thompson abbozzò un sorriso, sempre più incuriosito da quel caso che aveva per le mani.
Nathan prese un'altra boccata di fumo; s'instillava calma nell'unico modo che conosceva. «È uno dei ricordi più belli che mi rimane», spiegò, tornando a occupare il proprio posto sulla poltrona.
«Perché proprio questo?», insisté il dottore; la penna oscillava frenetica tra pollice e indice, ansiosa di riportare su carta – di fissare con indissolubile certezza – una motivazione che decifrasse quell'enigma.
Tutto quell'interesse nei suoi confronti lo lusingò non poco e Nathan avvertì l'impellente bisogno di comunicare ad alta voce ciò che il suo ego sapeva già.
«Ho fatto qualcosa per lui. Qualcosa di stupido, certo», specificò, roteando gli occhi al cielo, «ma per una volta non ero io al centro delle mie azioni. Credo di avergli provato, in un modo un po' contorto, che di lui mi importava davvero».


∫∫∫


Nathan Moore, undicesima seduta.

Nathan sgranò gli occhi a quella richiesta; credeva che dopo un numero considerevole di incontri pomeridiani finalmente il dottor Thompson l'avesse convocato per una diagnosi, non per un'altra dolorosa rievocazione.
«Le ho detto tutto», legittimò il suo rifiuto a parlare ancora – a spogliarsi dell'unico strato che voleva tenere solo per sé – alzando le mani, in segno di resa.
«Non mi hai detto la cosa più essenziale», obiettò l'analista, scrutandolo con uno sguardo indagatore oltre le lenti spesse degli occhiali.
«Quale?», domandò cauto Nathan, sebbene temesse di essere già a conoscenza della risposta.
«Il momento in cui hai capito di amarlo», spiegò l'altro, pesando l'ultima parola con cura, sperando di non essersi spinto troppo oltre.
Nathan si fece guardingo, irrigidendosi nella seduta e ancorando le mani ai braccioli. «Che importa?»
«Oh, quel momento è tutto. Il nostro egoista e cinico Nathan Moore apre il cuore a un altro essere umano e ne rimane tanto scottato da scegliere di andare in terapia», scherzò l'uomo, il cui umorismo stava diventando pericolosamente simile a quello del ragazzo seduto di fronte a lui.
«Davvero divertente», sussurrò quest'ultimo, irato per quella presa in giro di cattivo gusto.
«Ma sai che ho ragione», riprese il professore, tornando serio. «Vuoi che ti offra un rimedio? Mostrati».
«D'accordo. Ma probabilmente dopo dovrò ucciderla».


* * *

L'ultimo racconto:

Le parole che Dean spendeva per descrivergli l'ultimo videogioco che era riuscito a rubare dallo zaino di una matricola gli scivolavano addosso come minuscole gocce d'acqua; le depositò in un remoto angolo della mente, poiché la sua attività cerebrale si stava focalizzando su un'unica questione che di colpo gli apparì di massima importanza.
«Perché diavolo non sei come me?», gli diede addosso con veemenza, spinto dall'urgenza di conoscere la risposta, per lui inafferrabile. «Sei cresciuto in un quartiere simile al mio», e sei gay, «tua madre ha cambiato più di dieci uomini», e sei gay, «tuo padre non l'hai nemmeno mai conosciuto», concluse la sua perfetta sequenza logica con una sferzata che sapeva essere letale, evitando però di pronunciare l'altra caustica sentenza che li accomunava.
Dean sopportò pazientemente quella carrellata di colpi e aspettò che la rabbia cieca di Nathan svanisse dal suo sguardo prima di prendere la parola. «E sono gay, giusto?», sospirò, scostandosi un ciuffo scuro dagli occhi.
«E sei gay», Nathan strinse i pugni mentre sibilava quel termine che ancora percepiva come colpa e condanna al tempo stesso.
«Sarebbe bello poter dare alle nostre famiglie tutta la colpa del perché siamo come siamo, ma è tempo di assumersi le proprie responsabilità», commentò Dean, lasciando vagare lo sguardo nel vuoto del parco, mentre avvertiva quello di Nathan perforargli la pelle.
«Che intendi dire?», gli chiese quest'ultimo, aggrottando le sopracciglia, probabilmente più confuso di prima.
Davanti a quel volto perplesso, Dean s'illuminò del più luminoso dei sorrisi di cui era capace. «Tu fai delle cose sbagliate e ti piace pensare di esserne solo l'agente inconsapevole: mia madre mi ha abbandonato, sono autorizzato a essere un coglione», proferì l'ultima frase mimando la voce roca di Nathan, cosa che il diretto interessato non parve gradire particolarmente.
«E poi sarei io lo stronzo», borbottò il ragazzo tra i denti, incrociando le braccia sul petto, senza preoccuparsi di risultare infantile.
«La tua famiglia non definisce ciò che sei», Dean scandì le sillabe con calma infinita, lasciando a Nathan il tempo di metabolizzare quanto aveva appena detto.
«Meno enigmatico, Sullivan», il biondo si spazientì, credendo che al proprio fidanzato piacesse scherzare anche nei momenti meno opportuni.
«Davvero non ci arrivi?», chiese con delicatezza Dean, stupendosi, una volta di più, per quanto poco una persona che adorava sbugiardare le menzogne altrui fosse in grado di leggersi dentro. «Ciò che fai non definisce ciò che sei».
Nathan non riuscì a mascherare la sorpresa nel sentirsi rivolgere quelle parole, ma tornò al contrattacco con l'usuale spavalderia. «Allora spara, saputello, cosa mi definisce?»

«Il tono con cui litighi con il professore di Fisica quando mi difendi dall'accusa di aver copiato da te all'esame finale, ad esempio. Il modo in cui sollevi il sopracciglio quando qualcuno si avvicina troppo o quello in cui porti alla bocca una sigaretta – decisamente eccitante. Oh, e il colore dei tuoi occhi, ovviamente», concluse Dean, come se stesse ribadendo la cosa più naturale del mondo.
«Che hanno i miei occhi?», chiese di getto il giovane Moore, inchiodando le iridi blu scure sul volto di Dean, schiarito appena dalla luce dei lampioni.
«Sono bellissimi, non trovi?»
E no, Nathan non trovava che i suoi occhi tanto cupi fossero bellissimi, ma non replicò a quell'osservazione; lo baciò e basta, si aggrappò alle labbra e alla maglietta di Dean con uguale disperazione e lo amò infinitamente, solo in quell'istante – solo per la durata di un bacio.


Only love, only love.
Give me shelter, or show me heart
Come on love, come on love.
Watch me fall apart, watch me fall apart.

And I’ll be yours to keep.

{Only Love; Ben Howard}


* * *

«Allora...perché? Perché...è finita?», il dottore abbandonò penna e quadernetto sulla scrivania, concentrandosi sullo sguardo malinconico di Nathan – desideroso soltanto di trovare un senso logico a una rottura che pareva dolorosa anche a chi ne era semplice spettatore.
«Ricorda Steve? L'ho tradito con Steve», una confessione cruda e secca, priva di ogni motivazione, contaminò le labbra di Nathan con un peccato di cui il suo corpo aveva impresso tutte le dinamiche – prima quel messaggio, fingendosi Dean, poi l'incontro nel parco, il sesso veloce e sporco, la doccia fredda per riappropriarsi di una fugace integrità.
«Come?», il professore sgranò gli occhi di fronte a quella rivelazione del tutto inattesa, che giunse troppo in fretta perché potesse razionalizzarla.
«Ho tradito Dean. Con Steve», continuò Nathan, asettico, sfidando il dottore con lo sguardo più spietato di cui disponeva.
«E perché diavolo l'avresti fatto?», imprecò Thompson, mandando ufficialmente all'aria l'integrità professionale che si era costruito per tutta la vita.
«Nessun motivo in particolare», rispose il ragazzo, scrollando le spalle.
«Oh, andiamo! Tu sei tu, non fai niente senza motivo!»
«Si sta decisamente scaldando troppo», esaminò Nathan, osservando con sufficienza il volto accigliato dello psicologo, e piegò gli angoli della bocca in una smorfia senza accenno di riso. «È lei il dottore qui, lo capisca. Mi capisca», fu la prima richiesta esplicita che riuscì a formulare da quando aveva cominciato le sedute; una richiesta di aiuto, dell'unico tipo di aiuto di cui aveva avuto bisogno in quelle settimane.
«È per questo che sei venuto da me», quando l'ebbe finalmente realizzato, era già troppo tardi. Thompson era caduto nel gioco di Nathan come un pivellino alle prime armi, gli aveva permesso di condurre la partita e si era lasciato abbindolare da una parlantina brillante e una storia avvincente, la prima che gli capitava da mesi. «Tu non hai bisogno di qualcuno che ti dica che hai un disturbo psichiatrico della personalità», era stato stupido a pensare che Nathan avesse consapevolezza del male che causava, «volevi solo sapere perché hai lasciato che la vostra storia finisse», per qualche motivo, quella deduzione lo fece sentire indifeso, quasi si fosse esposto troppo davanti a un abile – e irritante – manipolatore.
«Un momento, io avrei cosa?», domandò Nathan a occhi sgranati, alzandosi in piedi di scatto – a un passo dal precipizio.
Il dottor Thompson si morse il labbro; se l'era lasciato sfuggire come un dilettante, aveva commesso il passo falso più grave di tutti, rivelare al paziente la diagnosi prima di averlo adeguatamente preparato.
Prese un respiro profondo, maledicendosi per il suo comportamento così poco ortodosso, e strappò l'ultima pagina della sua agenda, porgendola a Nathan in segno di scusa.


Diagnosi:
Horror vacui – terrore del vuoto.

«Disturbo borderline della personalità», lesse il giovane a voce alta, una volta preso il foglio con la mano esitante, mentre una ruga di disappunto e stupore si andava disegnando sulla fronte pallida.
«Mi dispiace», mormorò il dottore, incerto su quale sarebbe stata la mossa successiva di quel ragazzo tanto imprevedibile.
Nathan strinse il foglio nel palmo, tenendosi la testa con l'altra mano, e si chiuse nel silenzio per alcuni minuti, riflettendo sul significato di quelle parole, accompagnate dalla firma di un uomo che aveva il potere di influenzare la sua vita.
«Ciò che ho non definisce ciò che sono, non è vero?», concluse poi, parafrasando il discorso con cui Dean era stato in grado di dimostrare l'amore che provava per lui – e viceversa. Il dottore, a quella frase, si rilassò e convenne con un timido sorriso.
«È per questo che sono così ossessionato dal vuoto?», andò avanti Nathan, divorando il resto dello scritto con avidità. «Trauma da abbandono dopo la partenza della madre? Sono sul serio così ordinario?», sputò l'ultima parola con disgusto, incapace di accettare di doverla attribuire a se stesso.
«Temi la solitudine perché ne hai sperimentata una forma acuta in una fase in cui eri molto vulnerabile, è perfettamente normale», chiarì Thompson, tornando a darsi un tono degno del suo ruolo.
«Io non sono perfettamente normale!», lo sbugiardò Nathan, battendo un pugno sul bracciolo. «Non penso mai a quella stronza, la mia paura del vuoto non è riconducibile a lei!»
«Al contrario, lei è in tutto quello che dici e che fai», spiegò lo psicologo, lieto di aver riguadagnato il suo rispettabile status. «È la paura di essere tradito che ti spinge a tradire; ferire prima di morire. Tua madre l'ha fatto, ha scelto se stessa invece che la sua famiglia e tu ti sei comportato allo stesso modo».
«Lui mi aveva detto che le nostre famiglie non definiscono ciò che siamo...», disse sottovoce Nathan, appellandosi a Dean e alla fiducia che in lui solo riponeva quale estrema difesa dall'autodistruzione.
«Aveva ragione, ma ci influenzano più di quanto vorremmo. Su alcuni funziona più che su altri, certo», specificò il professore. «Cominceremo subito con la terapia», continuò poi, quando fu chiaro che Nathan non aveva intenzione di riprendere la parola. «Tu non sei senza speranze, il tuo cuore è più grande di quanto non pensi».
Il giovane inspirò profondamente, a occhi chiusi, prima di sentirsi pronto. «La prima volta che ci siamo incontrati ha detto che avrei dovuto cominciare dall'inizio», ricordò, esortando con una significativa occhiata il dottore a fare altrettanto.
Questi aggrottò la fronte, perplesso. «Non credo abbia importanza, adesso».
«Ce l'ha per me», insisté Nathan, risoluto a riaprire un ultimo – il più doloroso – tassello della sua memoria.
«Mi sembra che tu non stia afferrando la gravità della situazione».
«Vuole saperlo o no?»

* * *

Quattordici mesi fa - l'inizio:

La famiglia Moore – o meglio, quello che ne rimaneva – si era trasferita solo da pochi giorni in un piccolo appartamento nel quartiere sud di Denver, in cerca di un nuovo posto dove ricominciare a respirare. L'unico figlio di Jonathan Moore sedeva ora davanti a un bancone di un bar qualsiasi su una strada qualsiasi, con un unico preciso obiettivo davanti a sé.
«Una birra, grazie», ordinò al giovane barista, senza sollevare lo sguardo dalle venature marroni del tavolo, di cui aveva già avuto modo di saggiare i graffi con i polpastrelli.
«A te», gli rispose il ragazzo, dal cui tono di voce Nathan dedusse che dovesse avere pressapoco la sua stessa età. Sbatté la palpebre un paio di volte per staccarsi dalla patetica visuale che stava contemplando e lo guardò; in un istante, decise che non avrebbe fatto altro che guardare in quegli occhi cristallini per tutta la serata – o la vita intera.
«Quando stacchi?», gli chiese, forse troppo bruscamente, a giudicare dalla reazione stralunata del giovane.
«Come scusa?», tossì questi, strizzando gli occhi per essere certo di aver afferrato bene il senso della domanda.
«Ti ho chiesto quando finisci in questa merda di locale. Ho intenzione di portarti a fare un giro», spiegò Nathan, divertito da quell'imbarazzo tanto genuino che aveva fatto imporporare le guance dell'affascinante sconosciuto.
«Non so nemmeno come ti chiami», bisbigliò il ragazzo, guardandosi intorno per essere certo che nessuno dei colleghi avesse sentito quelle avances così poco discrete.
«E da quando c'è bisogno di conoscere il nome di qualcuno per farsi una scopata?»
«Ti è almeno passata per l'anticamera del cervello la possibilità che potessi non essere gay?», replicò stizzito il moro, d'un tratto torvo in volto.
«Ti prego, fai sul serio? Speravi davvero di passare per etero con quella maglietta?», insinuò Nathan, soffermandosi con sguardo languido sui pettorali che la maglia aderente faceva risaltare senza troppi sforzi.
«Tra venti minuti», rispose allora il barista, con un ampio sorriso che Nathan non faticò troppo a ricambiare. «Dean, comunque», aggiunse, porgendogli la mano.
«Nathan».


∫∫∫


Due mesi fa - la fine:

«Io ti tradisco e tu ti fai un tatuaggio? Che cazzo vuol dire?»
«Sono due lettere greche, alpha e omega. La prima e l'ultima dell'alfabeto, l'inizio e la fine».
«Che cazzo vuol dire?»
«Significa che questa è la fine per noi».
«Perché diavolo te lo sei fatto tatuare oggi, allora? Se mi odi, perché vuoi tenermi con te per tutta la vita?»
«Per non dimenticare l'inizio».


∫∫∫


And promise me this:
You’ll wait for me only,
Scared of the lonely arms.

And maybe, just maybe I’ll come home

Who am I, darling to you?
Who am I?

I come alone here

{Promise; Ben Howard}

***

Note dell'Autrice:

La storia partecipa al contest "Pensami!" indetto da DonnieTZ sul Forum di EFP.
È stata letta da Amens OpheliaAsphodela, prima di essere pubblicata; senza il loro aiuto e supporto probabilmente avreste letto qualcosa di molto meno degno di quanto sopra - sempre che sia decente, certo xD - per cui ci tengo a ringraziarle entrambe, di tutto cuore ♥. Un altro enorme grazie va alla mia cara amica Fox che ha creato quella meraviglia di banner che ho avuto la fortuna d'inserire nel testo.
Non voglio ammorbarvi più di quanto non l'abbia – presumibilmente – già fatto, ma ci tenevo a spiegare giusto due cose in croce.
Prima di tutto, vi lascio un link che mi è servito da guida nell'analisi del disturbo borderline e nella caratterizzazione del personaggio di Nathan Moore, che ho trovato incredibilmente difficile da gestire e a cui spero di aver reso giustizia. Ho consultato anche molti altri siti per tentare di essere il più convincente e credibile possibile, ma vi ho passato il collegamento a uno dei più concisi e diretti.
L'intera storia nasce dallo splendido album Every Kingdom di Ben Howard, fonte d'ispirazione di tutte le scene che ritraggono Dean e Nathan insieme; mi è parso doveroso omaggiarlo (ho praticamente ascoltato solo lui, in loop, per l'intera stesura della storia), collegando a ogni flashback una certa canzone che mi ha aiutato a scriverlo.

Spero che la storia via sia piaciuta e che mi farete sapere che ne pensate - nel bene e nel male :)
A presto,

Ayumu

   
 
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