Horror vacui.
∫∫∫
Nathan Moore, prima seduta.
«Allora,
da dove si comincia?»
«Dall'inizio.
Si parte sempre dall'inizio, Nathan».
«Non
me lo ricordo».
L'uomo
sospirò sonoramente, sollevando il volto dalla pagina su cui
aveva
appena segnato la data dell'incontro, e cercò con insistenza
lo
sguardo del ragazzo. «Sono sicuro di sì».
«A
nessuno importa niente dell'inizio. All'inizio andava tutto bene,
com'è ovvio». Nathan lasciò andare la
zip della felpa che aveva
torturato sin dai primi minuti della seduta e ricambiò
l'occhiata
del dottore con la solita sfrontatezza. «È sempre
dopo che le cose
si incasinano».
«Stai
parlando di quel ragazzo, non è vero?» Il dottore
indossò gli
occhiali e sfogliò rapidamente i fogli che teneva sulla
scrivania;
tutti recavano la dicitura Nathan Moore,
nell'angolo in alto a
destra. «Dean», aggiunse poi,
una volta trovata
l'informazione di cui era andato alla ricerca.
«Dean»,
confermò il paziente, accompagnando quella parola con un
cenno
affermativo del capo. Non pronunciava il suo nome da mesi e d'un
tratto gli parve inadeguato lì, sulle labbra e nelle ossa; Dean
era ancora dappertutto.
«Ricorda
che non siamo qui solo per lui».
«Sono
messo così male, allora?», la risata accennata del
giovane si
dissolse rapidamente, incapace di scalfire la compostezza del suo
interlocutore. «Mio padre la paga cento bigliettoni all'ora,
potrà
almeno farsi una risata per compiacermi, ogni tanto».
Idealizzazione di sé.
«Cosa
scrive, dottore?», Nathan divenne più inquieto e
si sporse sul
bordo della poltroncina in pelle, tentando di sbirciare il contenuto
dell'agenda che lo psicologo nascondeva gelosamente. «Cristo,
non
c'è sempre un motivo per cui dico ciò che dico.
Il più delle volte
non ha neppure senso starmi a sentire».
Svalutazione di sé.
«Non
si può proprio dire che lei sia un tipo loquace,
eh?», il ragazzo
scrollò le spalle con finta noncuranza e recuperò
sigaretta e
accendino dalla tasca posteriore dei jeans.
«Qui
non si può fumare», il dottore inarcò
un sopracciglio alla vista
della fiamma, facendo segno al cartello in bella vista sulla porta in
mogano.
«Pretende
davvero che io rimanga rinchiuso qui dentro per un'ora intera a
parlare di Dean senza neanche un piccolo aiutino?»
Dipendenza:
«No,
sul serio. Deve smetterla di scrivere su quel quaderno del
cazzo».
«Faccio
solo il mio lavoro».
«Ho
bisogno di una dannata sigaretta. E di parlare di quel
coglione».
- fumo
- Dean Sullivan (?)
* * *
Dodici mesi fa:
Nathan
lasciò rimbalzare il pallone da basket sul fondo della
palestra,
seguendone la traiettoria discontinua con lo sguardo spaventosamente
assente; ogni tonfo faceva risuonare il campo da gioco di un timbro
cupo, ma che il ragazzo non faticava a considerare rassicurante.
La palla rotolò fino a toccare il muro dell'edificio e la
palestra
sprofondò nel silenzio – per un istante, rimasero
sospesi nel
vuoto: ma
Nathan corse subito a riprenderla e tornò a
palleggiare, con
apparente indifferenza, vicino alle gradinate.
Seduto
sulla prima fila di panche, Dean non sollevò il volto dalla
punta
delle consunte scarpe da ginnastica, nemmeno quando udì i
passi
dell'altro farsi più vicini. «Non puoi smetterla?
Mi stai facendo
venire il mal di testa», si lamentò, all'ennesimo
rimbombo del
pallone che si disperdeva come un'eco intorno a loro.
«Sai
che non posso», rispose semplicemente Nathan, quasi la sua
constatazione fosse un assioma la cui trasparente verità non
poteva
essere incrinata da lamentele banali come quella.
«Il
vuoto in ogni sua forma, eh?», commentò sarcastico
Dean, prendendo
a massaggiarsi le tempie; l'altro ragazzo non parve turbato dalla
sofferenza fisica – come
se quella
psicologica non bastasse – che infliggeva con le
sue manie e
non si curò di porre fine all'unico svago della mattinata.
«Già».
Riempire il vuoto – quale?
Per
qualche minuto nessuno fiatò, ed entrambi si limitarono ad
ascoltare
il suono della campanella che annunciava la fine delle lezioni di
quel tredici dicembre alla South High di Denver, Colorado; riuscivano
quasi a percepire la leggerezza degli altri studenti stridere
vistosamente con ciò che si stava consumando in quella
palestra.
«Perché
mi hai fatto venire qui? Non hai nemmeno voglia di farlo».
«Mi
sentivo solo».
«Tu
ti senti sempre solo», infierì il moro, scattando
in piedi, «e io
devo andare al lavoro», aggiunse, raccogliendo lo zaino dal
pavimento.
«Devi
continuare a parlarmi, Dean», la fronte di Nathan si
corrugò
appena, una minuscola ruga incrinò la perfezione della sua
maschera
di cera. «Non puoi andartene come se niente fosse»,
gli posò una
mano sulla spalla, per tenerlo ancorato lì con lui.
Sentì sotto il
palmo il cotone della canottiera da basket e il sudore della sua
pelle, ma quel contatto fu troppo breve per tranquillizzarlo; Dean si
sottrasse con vigore alla presa e ben presto Nathan si
ritrovò ad
afferrare nient'altro che aria.
«Oh,
certo, che stupido!», sbottò Sullivan, stizzito
non tanto per il
gesto in sé, quanto per l'effetto che quel tocco gli causava
ancora,
nonostante tutto – mi rendi così
difficile odiarti, bastardo.
Scacciò
rapidamente quel
pensiero e riprese a camminare a grandi passi verso l'uscita.
«Sono
sempre stato solo questo per te, un modo per colmare l'assenza»,
esclamò ancora, senza osare davvero spingere la maniglia
della
porta.
Colpiva
duro, Dean, andava dritto al punto e non cercava affatto di farlo
stare meglio; quegli occhi troppo chiari per non essere altrettanto
sinceri sapevano dove guardarlo per ferire con precisione letale.
Nathan chiuse le palpebre e lo cacciò via – non
può essere
così trasparente, non può; non
riusciva più a tollerare quella dose quotidiana di sensi di
colpa.
«Stronzo»,
disse soltanto e con quella parola s'arrese. A Dean, all'amore che
sentiva per lui e al disgusto che provava per sé.
«Un
fottutissimo niente che
diventa
abbastanza per lo spazio di una scopata».
Basta,
basta. Sparisci.
«Stronzo».
Un
altro pugno, l'ennesimo crollo; fin dove vuoi spingerti,
Dean?
Sono qui e sanguino, non è sufficiente?
«Sai,
avevo l'esame finale di Storia oggi e mi è andato di
merda», cazzo.
«Oh, e mia madre non è rincasata neanche
stasera», cazzo.
«E probabilmente dopo il lavoro dovrò picchiare il
ragazzo che ha
sverginato mia sorella», cazzo.
«Ma a te non frega mai di
niente e di nessuno, se non di te stesso».
L'azzurro
puro di Dean ora tremava di rabbia – può
coesistere il fuoco
con quell'argento che non conosce crepe? – e
traboccava di
contraddizioni – davvero è
capace d'odio uno sguardo
così?
«Hai
ragione, a me non
importa».
È la resa; che ci fai ancora qui? Lasciami. Ma
se tu ora
vai via, io rimango senza scheletro e muoio.
«Sono
stanco di te. Questa è l'ultima volta che mi
vedi», alla sua
minaccia Dean non credette neanche per un secondo; quante volte aveva
già giurato che l'avrebbe lasciato?
«Lo
ripeti da mesi, ma poi torni sempre».
«Sì,
Nathan, io torno sempre. Perché senza di me sei
fottuto», la porta
si spalancò con un gesto secco della mano e il ragazzo
tornò a
respirare – lontano da lui.
A
Dean fumare non piaceva per niente, lo faceva sentire sporco e impuro
fin sotto la pelle; ma l'aria pungente dell'inverno di Denver lo
spogliò di ogni presunta convinzione e gli fece correre le
dita
sulla sigaretta che teneva in una tasca interna dello zaino –
in
casi d'emergenza, aveva detto a Nathan mesi prima, e lui era
tutte le sue emergenze.
Fumò
in fretta, tossendo a ogni boccata, e la cenere si mescolò
indistintamente alle lacrime.
«Sono fottuto in ogni caso», nella bolla ovattata della palestra, Nathan rimase da solo e precipitò nell'abisso.
* * *
Riempire il vuoto – quale?
Il
ticchettio metodico che la penna dello psicologo produceva sulla
scrivania rappresentava l'unico suono cui Nathan si ostinava ad
aggrapparsi, pur di smettere di parlare; quelle confessioni gli
bruciavano ancora sulle labbra tremanti.
«A
quanto pare anche lei ha una mania, non è
ironico?», il ragazzo si
sciolse in una cinica risata, mimando con la sigaretta le evoluzioni
sistematiche e sempre identiche a se stesse che il dottore riservava
alla propria stilo; l'attacco non è forse la
miglior forma di
autodifesa?
«Era
arrabbiato con te», l'uomo evitò accuratamente di
rispondere
all'insinuazione del paziente e riportò l'attenzione
sull'episodio
appena raccontato.
«È
sicuro di avere una laurea?», il paziente levò un
sopracciglio,
sarcastico, indicando con un cenno del capo la parete su cui
trionfavano i titoli di studio conseguiti dal dottore
all'Università
del Colorado. «Non le pare una conclusione un po' troppo
semplicistica? Mi pare evidente
che ce l'avesse con me».
Ancora
una volta, il signor Thompson non diede soddisfazioni al giovane
diciottenne e sostituì quelle blande accuse con un nuovo
quesito, il
più temibile: «perché?»
Nathan
avrebbe voluto rispondere tante cose –
in una
domanda racchiudi il mio universo; se te lo rivelassi, riusciresti ad
arginare il mio crollo? – e invece si
limitò a un banale: «non
mi sono comportato bene». Si passò distrattamente
una mano sulle
occhiaie profonde, ricalcandone le venature violacee con le dita, e
ancorò il blu intenso e privo di sfumature dei suoi occhi al
pavimento.
«Sebbene
ti rassicuri pensarlo, non sei qui perché qualcuno ti ha
obbligato»,
gli rivelò Thompson, scendendo in campo con la sua prima
mossa. «Tu
vuoi essere qui; hai perso tutto e ti serve qualcosa
cui
aggrapparti».
Nathan
abbozzò un altro sorriso sagace – chi
stava scalfendo l'altro,
dopotutto? «Accidenti, sono colpito».
Darling
I'll grow weary, happy still
With
just the memory of your face
Gracious
goes the ghost of you
{Gracious;
Ben Howard}
* * *
Due giorni prima della discussione in palestra:
Nella
penombra della propria camera da
letto, Nathan fissava il soffitto con occhi stanchi e distanti; le
tracce della sua recente sfuriata - i cocci dello specchio rotti, i
cd scaraventati sul pavimento insieme alle mensole - ancora gravavano
sull'atmosfera già tetra della stanza.
Dean
l'aveva lasciato sbollire per ore, assorbendo passivamente parole
ingiuriose e pugni veementi, finché Nathan aveva
semplicemente smesso
di
provare interesse nei suoi confronti e si era
disteso
sul letto, nella
stessa posizione in cui ora giaceva, immobile.
«Ti
preferivo quando mi urlavi addosso», la voce del moro
s'impastò a causa del lembo della maglietta di cui si stava
servendo
per
tamponarsi il labbro
inferiore, «almeno sentivi
qualcosa», concluse, sedendosi accanto a lui.
Il biondo non lo guardò, né sembrava
prestare particolare attenzione alle sue parole; si coprì il
volto
con entrambe le mani, quasi a volerlo respingere dalla propria testa.
«Non
fare il bambino, sai perfettamente che ci sono ancora, lì
dentro»,
Dean gli
prese le mani con
delicatezza e le sostituì con le proprie, costringendolo a
un
contatto che entrambi sapevano di desiderare.
«Va' via», la solita condanna giunse
puntuale a spezzare l'unico frammento d'interezza che sapevano
concedersi; si scambiarono la pelle solo per qualche istante, prima
che Nathan si sottrasse anche a quel gesto di riconciliazione.
«Non
ti ho tradito, lo sai», Dean
aveva ripetuto quella frase per tutto il giorno, ogni volta
provando a convincere l'altro del suo significato. Ogni volta, aveva
fallito.
«Va' via».
«Puoi ragionare per un minuto, per
favore?», le dita di Dean lo cercavano istintivamente,
incapaci di
lasciarsi sfuggire anche la minima occasione di sfiorarlo, anche
quando quella ricerca di aderenza – tra cuori, tra
corpi –
andava oltre ogni logica razionale.
«Va' via».
Raramente
Dean lasciava perdere qualcosa in cui credeva, qualunque essere umano
avesse davanti; era certo che in ogni anima si nascondesse una
profonda purezza, anche in quella tanto impenetrabile di Nathan.
Eppure, quando si alzò per abbandonare la camera,
sorprendentemente
sconfitto, realizzò che quel ragazzo lo stravolgeva di
continuo,
mettendolo di fronte a un altro se stesso verso cui provava timore e
sospetto.
«Lui
chi è?», prima di varcare la soglia,
udì la flebile voce di colui
che amava più di ogni altro al mondo torturarsi ancora; a
quel suono
supplichevole si maledì per aver incontrato Steve prima
delle
lezioni al bar della scuola, dove il suo fidanzato poteva vederli.
«Un
vecchio amico», rispose a mezza voce e quel sussurro sapeva
di
bugia.
«Ci
sei stato insieme?», domandò ancora il biondo,
stavolta con voce
apatica e priva d'inflessione, fida alleata di chi da sempre cela i
propri sentimenti oltre una facciata d'ipocrisie.
Dean
ci pensò un po' prima di parlare ancora; fino a che punto
avrebbe
saputo mentirgli? «Scopavamo soltanto»; quante
menzogne sapevano
raccontare quegli occhi stanchi?
«Come
noi due, allora», la lingua di Nathan era così
avvezza alle
cattiverie da non distinguere più la persona cui ora le
stava
rivolgendo. Fu il colpo di grazia; a Dean quel claustrofobico spazio
non bastò più.
«Certo,
Nathan. Esattamente come noi due».
I've
been worrying,
that
I'm losing the ones I hold dear,
I've
been worrying,
that
we all,
live
our lives,
in
the confines of fear.
* * *
- Tendenza
agli sbalzi
umorali:
da mania ad apatia.
- Tendenza
a sviluppare
relazioni
intense e morbose.
La
stilo dello psicologo vergava tratti sicuri e netti sull'agendina in
pelle, inconfutabile prova di quanto inchiostro si potesse versare
per il giovane Moore.
«Dunque
gli hai dato del traditore», riepilogò, voltando
pagina.
«Sempre
più perspicace». Nathan si era alzato e ora
osservava assorto il
turbinio di neve che donava spensieratezza ai passanti, imbacuccati
fino all'inverosimile – davvero la gente normale
era capace di
una felicità tanto mediocre?
«E
hai demolito il vostro rapporto con due parole in croce»,
rincarò
la dose il signor Thompson, senza temere di sembrare indelicato.
«Già».
«Per
questo ce l'aveva con te, quando l'hai chiamato per vedervi in
palestra».
«Touchè»,
Nathan distese le labbra nel suo consueto sorriso amaro e, forse per
la prima volta da sempre, lo vide specchiato nel vetro della
finestra.
Vide
solo un fantasma avvolto nella nebbia, privo di contorni –
privo di
identità.
Vide
solo uno spettro e si chiese dove si nascondesse l'unico cuore in
grado di dargli un'essenza.
Oh
I will become what I deserve.
{The Fear; Ben Howard}
* * *
Nathan Moore, quinta seduta.
«Ti
va di parlarmi di un momento felice? Non sembrano essercene stati
molti, finora», il dottor Thompson era abituato ad assistere
al
crollo – in ogni senso possibile – dei propri
pazienti ed era
sempre riuscito a tenersene sapientemente a distanza, mantenendo un
decoro professionale invidiabile. Ma qualcosa di diverso
caratterizzava il caso di Moore; un'empatia mai provata, ancor prima
dell'interesse prettamente clinico, lo spingeva a volerne sapere
qualcosa in più della sua storia, a voler entrare in quella
mente
dalla quale tutti – o quasi – si erano sempre
tenuti alla larga.
Nathan
percepì una punta di coinvolgimento nella voce del dottore,
ma evitò
di fargli notare quanto poco consono si stesse rivelando il suo
comportamento; dopotutto, quel particolare signore stempiato
cominciava ad andargli a genio.
«Al
contrario, ce n'erano tanti. Solo sapientemente nascosti da tutto il
resto», rispose con disinvoltura, accendendosi la terza
sigaretta.
«In
questo modo fa meno male, adesso?»
«Fa
male lo stesso».
* * *
In uno spazio e in un tempo indefiniti:
Dean
si ripuliva febbrilmente le maniche della giacca dal sangue del
ragazzo che giaceva inerme sul marciapiede; aveva gli occhi sbarrati,
i sensi del tutto occlusi dall'odore pungente di ferro e le mani gli
tremavano, mentre tentava di ragionare alla svelta.
«Sei
arrabbiato con me?», accanto a lui, Nathan sembrava
spaventosamente
tranquillo; aveva le nocche gonfie e livide, contaminate da gocce
scarlatte, eppure si preoccupava soltanto della possibile reazione di
Dean a quel suo – ennesimo –
gesto estremo.
«Che
cazzo hai fatto?!», Dean stava dando di matto; il ragazzo
sconosciuto non dava segni di ripresa e a Nathan non importava.
«Volevo
solo aiutarti...», tentò quest'ultimo,
afferrandolo dal giubbotto
per evitare che crollasse sull'asfalto per lo shock.
«L'hai
quasi ucciso, cazzo!», imprecò ancora Dean,
tenendosi la testa fra
le mani.
«Lui
ti ha chiamato “frocio”!»,
sbottò
allora Nathan,
incapace di comprendere come potesse sopportare una simile offesa da
un tizio qualunque, casuale testimone di un bacio furtivo che si
erano scambiati all'uscita del bar.
«Non possiamo picchiare a morte tutti
gli omofobi del Paese, Nathan!»
A salvare il biondo da quella sfuriata,
che si preannunciava senza precedenti, giunse una sirena della
polizia, probabilmente a pochi isolati dal quartiere in cui era
avvenuta la rissa. Dean lasciò correre – per
il momento, ci
tenne a puntualizzare – e afferrò la mano di
Nathan, esortandolo a
darsele a gambe col cuore in gola per le strade di Denver.
Scapparono a lungo, senza badare a dove i
loro piedi li conducevano, e si fermarono a riprendere fiato solo
dopo parecchi minuti, nei pressi di un vecchio cantiere abbandonato.
Nathan approfittò della pausa per baciare Dean fino a
sottrargli
quel poco ossigeno che gli era rimasto in circolo, sperando di farsi
perdonare in quel modo poco convenzionale.
«Tu lo sai che è sbagliato, vero?»,
chiese Dean, determinato a non lasciarsi circuire da quella bocca
tanto seducente e ad andare fino in fondo alla questione.
«Chiamare frocio un omosessuale? Certo»,
rispose Nathan, tentando di apparire il più convincente
possibile.
«Mi
riferivo alla questione dell'uccidere»,
sospirò
l'altro,
sottolineando accuratamente l'ultima parola e accompagnandola con un
gesto eloquente della mano.
«Oh, giusto. Anche quello».
L'espressione sul volto di Nathan era
talmente buffa – contrariata per essere stato rimproverato e,
al
tempo stesso, per nulla dispiaciuta per quanto avvenuto – che
Dean
non riuscì a trattenere una risata, alla quale ben presto si
accodò
anche l'altro.
Pareva quasi surreale ridere dopo una
cosa così – amarsi dopo aver preso a pugni un
ragazzo, vivere dopo
aver quasi cercato di infondere morte – eppure quella notte
rappresentava, sotto ogni punto di vista, la più alta forma
di
beatitudine possibile.
And
no man is an island, oh this I know
But
can't you see, oh?
Maybe
you were the ocean, when I was just a stone
{Black Flies; Ben Howard}
* * *
- Instabile
- Facilmente incline a rabbia e violenza
«Hai
uno strano concetto di felicità, non è
vero?», il signor Thompson
abbozzò un sorriso, sempre più incuriosito da quel caso che aveva per le mani.
Nathan
prese un'altra boccata di fumo; s'instillava calma nell'unico modo
che conosceva. «È uno dei ricordi più
belli che mi rimane»,
spiegò, tornando a occupare il proprio posto sulla poltrona.
«Perché
proprio questo?», insisté il dottore; la penna
oscillava frenetica
tra pollice e indice, ansiosa di riportare su carta – di
fissare
con indissolubile certezza – una motivazione che decifrasse
quell'enigma.
Tutto
quell'interesse nei suoi confronti lo lusingò non poco e
Nathan
avvertì l'impellente bisogno di comunicare ad alta voce
ciò che il
suo ego sapeva già. «Ho
fatto qualcosa
per lui. Qualcosa di stupido, certo»,
specificò, roteando gli occhi al cielo,
«ma per
una volta non ero io
al centro delle mie azioni. Credo di avergli provato, in un modo un
po' contorto, che di lui mi importava davvero».
∫∫∫
Nathan Moore, undicesima seduta.
Nathan
sgranò gli occhi a quella richiesta; credeva che dopo un
numero
considerevole di incontri pomeridiani finalmente il dottor Thompson
l'avesse convocato per una diagnosi, non per un'altra dolorosa
rievocazione.
«Le
ho detto tutto», legittimò il suo rifiuto a
parlare ancora – a
spogliarsi dell'unico strato che voleva tenere solo per sé
–
alzando le mani, in segno di resa.
«Non
mi hai detto la cosa più essenziale»,
obiettò l'analista,
scrutandolo con uno sguardo indagatore oltre le lenti spesse degli
occhiali.
«Quale?»,
domandò cauto Nathan, sebbene temesse di essere
già a conoscenza
della risposta.
«Il
momento in cui hai capito di amarlo», spiegò
l'altro, pesando
l'ultima parola con cura, sperando di non essersi spinto troppo
oltre.
Nathan
si fece guardingo, irrigidendosi nella seduta e ancorando le mani ai
braccioli. «Che importa?»
«Oh,
quel momento è tutto. Il
nostro egoista e cinico Nathan Moore apre il cuore a
un altro essere umano e ne rimane tanto scottato da scegliere di
andare in terapia», scherzò
l'uomo, il cui umorismo stava diventando pericolosamente simile a
quello del ragazzo seduto di fronte a lui.
«Davvero
divertente», sussurrò quest'ultimo, irato per
quella presa in giro
di cattivo gusto.
«Ma
sai che ho ragione»,
riprese
il professore, tornando serio.
«Vuoi
che ti offra un rimedio? Mostrati».
«D'accordo.
Ma probabilmente dopo dovrò ucciderla».
* * *
L'ultimo racconto:
Le parole che Dean spendeva
per
descrivergli l'ultimo videogioco che era riuscito a rubare dallo
zaino di una matricola gli scivolavano addosso come minuscole gocce
d'acqua; le depositò in un remoto angolo della mente,
poiché la sua
attività cerebrale si stava focalizzando su un'unica
questione che
di colpo gli apparì di massima importanza.
«Perché
diavolo non sei come me?», gli
diede addosso con veemenza, spinto dall'urgenza di conoscere la
risposta, per lui inafferrabile. «Sei cresciuto in un
quartiere
simile al mio», e sei gay, «tua madre ha
cambiato più di
dieci uomini», e sei gay, «tuo padre non
l'hai nemmeno mai
conosciuto», concluse la sua perfetta sequenza logica con una
sferzata che sapeva essere letale, evitando però di
pronunciare
l'altra caustica sentenza che li accomunava.
Dean
sopportò pazientemente quella
carrellata di colpi e aspettò che la rabbia cieca di Nathan
svanisse
dal suo sguardo prima di prendere la parola. «E sono gay,
giusto?»,
sospirò, scostandosi un ciuffo scuro dagli occhi.
«E sei
gay», Nathan strinse i pugni
mentre sibilava quel termine che ancora percepiva come colpa e
condanna al tempo stesso.
«Sarebbe
bello poter dare alle nostre
famiglie tutta la colpa del perché siamo come siamo, ma
è tempo di
assumersi le proprie responsabilità»,
commentò Dean, lasciando
vagare lo sguardo nel vuoto del parco, mentre avvertiva quello di
Nathan perforargli la pelle.
«Che intendi
dire?», gli chiese
quest'ultimo, aggrottando le sopracciglia, probabilmente più
confuso
di prima.
Davanti a quel volto
perplesso, Dean
s'illuminò del più luminoso dei sorrisi di cui
era capace. «Tu fai
delle cose sbagliate e ti piace pensare di esserne solo l'agente
inconsapevole: mia
madre mi ha abbandonato, sono autorizzato a
essere un coglione»,
proferì l'ultima frase mimando la voce
roca di Nathan, cosa che il diretto interessato non parve gradire
particolarmente.
«E poi sarei
io lo stronzo», borbottò
il ragazzo tra i denti, incrociando le braccia sul petto, senza
preoccuparsi di risultare infantile.
«La tua
famiglia non definisce ciò che
sei», Dean scandì le sillabe con calma infinita,
lasciando a Nathan
il tempo di metabolizzare quanto aveva appena detto.
«Meno
enigmatico, Sullivan», il biondo
si spazientì, credendo che al proprio fidanzato piacesse
scherzare
anche nei momenti meno opportuni.
«Davvero non
ci arrivi?», chiese con
delicatezza Dean, stupendosi, una volta di più, per quanto
poco una
persona che adorava sbugiardare le menzogne altrui fosse in grado di
leggersi dentro. «Ciò che fai non definisce ciò
che sei».
Nathan non
riuscì a mascherare la
sorpresa nel sentirsi rivolgere quelle parole, ma tornò al
contrattacco con l'usuale spavalderia. «Allora spara,
saputello,
cosa mi definisce?»
«Il
tono con cui litighi con il professore di Fisica quando mi difendi
dall'accusa di aver copiato da te all'esame finale, ad esempio. Il
modo in cui sollevi il sopracciglio quando qualcuno si avvicina
troppo o quello in cui porti alla bocca una sigaretta – decisamente
eccitante. Oh, e il colore dei tuoi occhi, ovviamente»,
concluse Dean, come se stesse ribadendo la cosa più naturale
del
mondo.
«Che
hanno i miei occhi?», chiese di getto il giovane Moore,
inchiodando
le iridi blu scure sul volto di Dean, schiarito appena dalla luce dei
lampioni.
«Sono
bellissimi, non trovi?»
E no,
Nathan non trovava che i suoi occhi tanto cupi fossero bellissimi, ma
non replicò a quell'osservazione; lo baciò e
basta, si aggrappò
alle labbra e alla maglietta di Dean con uguale disperazione e lo
amò
infinitamente, solo in quell'istante – solo per la durata di
un
bacio.
Only
love, only love.
Give me shelter, or show me heart
Come on
love, come on love.
Watch me fall apart, watch me fall apart.
And I’ll be yours to keep.
{Only Love; Ben Howard}
* * *
«Ricorda Steve? L'ho tradito con Steve», una confessione cruda e secca, priva di ogni motivazione, contaminò le labbra di Nathan con un peccato di cui il suo corpo aveva impresso tutte le dinamiche – prima quel messaggio, fingendosi Dean, poi l'incontro nel parco, il sesso veloce e sporco, la doccia fredda per riappropriarsi di una fugace integrità.
«Come?», il professore sgranò gli occhi di fronte a quella rivelazione del tutto inattesa, che giunse troppo in fretta perché potesse razionalizzarla.
«Ho tradito Dean. Con Steve», continuò Nathan, asettico, sfidando il dottore con lo sguardo più spietato di cui disponeva.
«E perché diavolo l'avresti fatto?», imprecò Thompson, mandando ufficialmente all'aria l'integrità professionale che si era costruito per tutta la vita.
«Nessun motivo in particolare», rispose il ragazzo, scrollando le spalle.
«Oh, andiamo! Tu sei tu, non fai niente senza motivo!»
«Si sta decisamente scaldando troppo», esaminò Nathan, osservando con sufficienza il volto accigliato dello psicologo, e piegò gli angoli della bocca in una smorfia senza accenno di riso. «È lei il dottore qui, lo capisca. Mi capisca», fu la prima richiesta esplicita che riuscì a formulare da quando aveva cominciato le sedute; una richiesta di aiuto, dell'unico tipo di aiuto di cui aveva avuto bisogno in quelle settimane.
«È per questo che sei venuto da me», quando l'ebbe finalmente realizzato, era già troppo tardi. Thompson era caduto nel gioco di Nathan come un pivellino alle prime armi, gli aveva permesso di condurre la partita e si era lasciato abbindolare da una parlantina brillante e una storia avvincente, la prima che gli capitava da mesi. «Tu non hai bisogno di qualcuno che ti dica che hai un disturbo psichiatrico della personalità», era stato stupido a pensare che Nathan avesse consapevolezza del male che causava, «volevi solo sapere perché hai lasciato che la vostra storia finisse», per qualche motivo, quella deduzione lo fece sentire indifeso, quasi si fosse esposto troppo davanti a un abile – e irritante – manipolatore.
«Un momento, io avrei cosa?», domandò Nathan a occhi sgranati, alzandosi in piedi di scatto – a un passo dal precipizio.
Il dottor Thompson si morse il labbro; se l'era lasciato sfuggire come un dilettante, aveva commesso il passo falso più grave di tutti, rivelare al paziente la diagnosi prima di averlo adeguatamente preparato.
Prese un respiro profondo, maledicendosi per il suo comportamento così poco ortodosso, e strappò l'ultima pagina della sua agenda, porgendola a Nathan in segno di scusa.
Diagnosi:
Horror
vacui – terrore del vuoto.
«Disturbo
borderline della
personalità», lesse il giovane a voce
alta, una volta preso il
foglio con la mano esitante, mentre una ruga di disappunto e stupore
si andava disegnando sulla fronte pallida.
«Mi dispiace», mormorò il dottore,
incerto su quale sarebbe stata la mossa successiva di quel ragazzo
tanto imprevedibile.
Nathan strinse il foglio nel palmo,
tenendosi la testa con l'altra mano, e si chiuse nel silenzio per
alcuni minuti, riflettendo sul significato di quelle parole,
accompagnate dalla firma di un uomo che aveva il potere di
influenzare la sua vita.
«Ciò che ho non definisce ciò che
sono, non è vero?», concluse poi, parafrasando il
discorso con cui
Dean era stato in grado di dimostrare l'amore che provava per lui
–
e viceversa. Il dottore, a quella frase, si rilassò e
convenne con
un timido sorriso.
«È per questo che sono così
ossessionato dal vuoto?», andò avanti Nathan,
divorando il resto
dello scritto con avidità. «Trauma da
abbandono dopo la partenza
della madre? Sono sul serio così ordinario?»,
sputò
l'ultima parola con disgusto, incapace di accettare di doverla
attribuire a se stesso.
«Temi la solitudine perché ne hai
sperimentata una forma acuta in una fase in cui eri molto
vulnerabile, è perfettamente normale»,
chiarì Thompson, tornando a
darsi un tono degno del suo ruolo.
«Io non sono perfettamente normale!»,
lo sbugiardò Nathan, battendo un pugno sul bracciolo.
«Non penso
mai a quella stronza, la mia paura del vuoto non è
riconducibile a
lei!»
«Al contrario, lei è in tutto quello
che dici e che fai», spiegò lo psicologo, lieto di
aver
riguadagnato il suo rispettabile status.
«È la paura di
essere tradito che ti spinge a tradire; ferire prima di morire.
Tua madre l'ha fatto, ha scelto se stessa invece che la sua famiglia
e tu ti sei comportato allo stesso modo».
«Lui mi aveva detto che le nostre
famiglie non definiscono ciò che siamo...», disse
sottovoce Nathan,
appellandosi a Dean e alla fiducia che in lui solo riponeva quale
estrema difesa dall'autodistruzione.
«Aveva ragione, ma ci influenzano più
di quanto vorremmo. Su alcuni funziona più che su altri,
certo»,
specificò il professore. «Cominceremo subito con
la terapia»,
continuò poi, quando fu chiaro che Nathan non aveva
intenzione di
riprendere la parola. «Tu non sei senza speranze, il tuo
cuore è
più grande di quanto non pensi».
Il giovane inspirò profondamente, a
occhi chiusi, prima di sentirsi pronto. «La prima volta che
ci siamo
incontrati ha detto che avrei dovuto cominciare dall'inizio»,
ricordò, esortando con una significativa occhiata il dottore
a fare
altrettanto.
Questi aggrottò la fronte, perplesso.
«Non credo abbia importanza, adesso».
«Ce l'ha per me», insisté Nathan,
risoluto a riaprire un ultimo – il più doloroso
– tassello della
sua memoria.
«Mi sembra che tu non stia afferrando la
gravità della situazione».
«Vuole saperlo o no?»
* * *
Quattordici mesi fa - l'inizio:
La famiglia Moore –
o meglio, quello
che ne rimaneva – si era trasferita solo da pochi giorni in
un
piccolo appartamento nel quartiere sud di Denver, in cerca di un
nuovo posto dove ricominciare a respirare. L'unico figlio di Jonathan
Moore sedeva ora davanti a un bancone di un bar qualsiasi su una
strada qualsiasi, con un unico preciso obiettivo davanti a
sé.
«Una birra, grazie», ordinò al giovane
barista, senza sollevare lo sguardo dalle venature marroni del
tavolo, di cui aveva già avuto modo di saggiare i graffi con
i
polpastrelli.
«A te», gli rispose il ragazzo, dal cui
tono di voce Nathan dedusse che dovesse avere pressapoco la sua
stessa età. Sbatté la palpebre un paio di volte
per staccarsi dalla
patetica visuale che stava contemplando e lo guardò; in un
istante,
decise che non avrebbe fatto altro che guardare in quegli occhi
cristallini per tutta la serata – o la vita intera.
«Quando stacchi?», gli chiese, forse
troppo bruscamente, a giudicare dalla reazione stralunata del
giovane.
«Come scusa?», tossì questi,
strizzando gli occhi per essere certo di aver afferrato bene il senso
della domanda.
«Ti ho chiesto quando finisci in questa
merda di locale. Ho intenzione di portarti a fare un giro»,
spiegò
Nathan, divertito da quell'imbarazzo tanto genuino che aveva fatto
imporporare le guance dell'affascinante sconosciuto.
«Non so nemmeno come ti chiami»,
bisbigliò il ragazzo, guardandosi intorno per essere certo
che
nessuno dei colleghi avesse sentito quelle avances
così poco
discrete.
«E da quando c'è bisogno di conoscere
il nome di qualcuno per farsi una scopata?»
«Ti è almeno passata per l'anticamera
del cervello la possibilità che potessi non essere
gay?», replicò
stizzito il moro, d'un tratto torvo in volto.
«Ti prego, fai sul serio? Speravi
davvero di passare per etero con quella maglietta?»,
insinuò
Nathan, soffermandosi con sguardo languido sui pettorali che la
maglia aderente faceva risaltare senza troppi sforzi.
«Tra venti minuti», rispose allora il
barista, con un ampio sorriso che Nathan non faticò troppo a
ricambiare. «Dean, comunque», aggiunse, porgendogli
la mano.
«Nathan».
∫∫∫
Due mesi fa - la fine:
«Io ti tradisco e tu
ti fai un
tatuaggio? Che cazzo vuol dire?»
«Sono due lettere greche, alpha e omega.
La prima e l'ultima dell'alfabeto, l'inizio e la fine».
«Che cazzo vuol dire?»
«Significa che questa è la fine per
noi».
«Perché diavolo te lo sei fatto tatuare
oggi, allora? Se mi odi, perché vuoi tenermi con te per
tutta la
vita?»
«Per non dimenticare l'inizio».
∫∫∫
And
promise me this:
You’ll
wait for me only,
Scared
of the lonely arms.
And
maybe, just maybe I’ll come home
Who
am I, darling to you?
Who
am I?
I come alone here
{Promise; Ben Howard}
***
Note dell'Autrice:
La storia partecipa al contest "Pensami!"
indetto da DonnieTZ
sul Forum di EFP.
È stata
letta da Amens
Ophelia e Asphodela,
prima di essere pubblicata; senza il loro aiuto e supporto
probabilmente avreste letto qualcosa di molto meno degno di
quanto
sopra - sempre che sia decente, certo xD - per cui ci tengo a
ringraziarle entrambe, di tutto cuore ♥. Un altro enorme
grazie va alla mia cara amica Fox
che ha creato quella meraviglia di banner che ho avuto la
fortuna d'inserire nel testo.
Non voglio
ammorbarvi più di quanto non l'abbia –
presumibilmente – già
fatto, ma ci tenevo a spiegare giusto due cose in croce.
Prima di tutto, vi
lascio un link
che mi è servito da guida nell'analisi del disturbo
borderline e
nella caratterizzazione del personaggio di Nathan Moore, che ho
trovato incredibilmente difficile da gestire e a cui spero di aver
reso giustizia. Ho consultato anche molti altri siti per tentare di
essere il più convincente e credibile possibile, ma vi ho
passato
il collegamento a uno dei più concisi e diretti.
L'intera storia
nasce dallo splendido album Every
Kingdom
di Ben Howard, fonte
d'ispirazione di tutte le scene che ritraggono Dean e Nathan insieme;
mi è parso doveroso omaggiarlo (ho praticamente ascoltato
solo
lui, in loop, per l'intera stesura della storia), collegando a ogni
flashback una
certa canzone che mi ha aiutato a scriverlo.
A presto,
Ayumu