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Autore: workingclassheroine    08/05/2015    2 recensioni
Non ti fa più male, non esistere.
Non ti fa più male, sentirti invisibile.
Non ti fa più male, essere un signor nessuno.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, John Lennon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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23 agosto 2014

 

 

La puntina del giradischi sfiora il vinile, con un crepitio lieve che va ad infrangersi contro le pareti d'intonaco scrostato.

Una voce strascicata e soave invade la piccola stanza, e sembra davvero provenire da un altro mondo.

Prendi un respiro profondo, temendo che le voci nella tua testa riprendano a farti del male, a consigliarti in quel modo che è male.

Eppure quel popolo minuto, fatto da bisbigli e sussurri evanescenti, si è zittito anni prima -le sedute dallo psichiatra che sono state come acido giù per le loro corde vocali- e tu dovresti smettere di avere paura.

Gli unici suoni che senti sono le note lievi di Imagine, e questo riesce a rassicurarti.

Hai paura che ritornino, hai paura che un giorno ascolterai quella canzone e sentirai nuovamente la testa ribollire di urla.

Per questo la ascolti così spesso.

Per assicurarti che vada tutto bene.

E ogni giorno che passa senza che le voci siano tornate è una conquista.

Chiudi gli occhi, ondeggiando il capo al ritmo dettato dal pianoforte, e decidi che , è decisamente buona musica.

La voce di John Lennon ti carezza piano, e ti senti come le sillabe finali di quelle parole, che lui pronuncia con così tanta leggerezza, così tanta che sembrano non esistere.

Non ti fa più male, non esistere.

Non ti fa più male, sentirti invisibile.

Non ti fa più male, essere un signor nessuno.

Il tuo respiro rallenta, e il battito del tuo cuore è così lento e leggero che sembra non voler dare fastidio, quasi non volesse sovrapporsi a quella voce candida.

Ricordi il tuo primo incontro con John, lo ricordi talmente bene che una lacrima scorre lungo la tempia, ma tu resti lì, sdraiato sul tuo letto, senza asciugarla.

Ricordi le palme di Honolulu, la brezza marina che ti scompigliava i capelli.

Ricordi il profumo della biblioteca -libri vecchi, polvere e vite alternative- e ricordi un viso pensieroso fra gli scaffali.

Ricordi di aver pensato a quanto foste simili, tu e lui -due falliti con la testa piena di casini e le mani piene di mosche- e di averlo odiato, perché lui sembrava felice così e tu, tu non riuscivi ad esserlo.

L'umidità sulle tue tempie aumenta, e tu non meriti di fermarla.

Hai smesso di credere di meritare qualcosa molti anni fa.

La tua mano destra si infila nella fodera del cuscino, ed estrae una foto malandata, ritagliata da un qualche giornale.

L'uomo ritratto ha un'espressione calma, che ti trasmette serenità.

Non sta sorridendo, in quella foto, ma nei suoi occhi, velati da un paio di occhiali tondi, sembrano esservi galassie e oceani e continenti, per cui va bene così.

Una piccola goccia d'acqua si infrange contro la guancia dell'uomo, sciogliendo appena l'inchiostro, e questo ti fa venir voglia di piangere più forte.

Stringi la foto con una forza disperata e ingestibile, tale che la carta si spezza, dopo aver opposto una breve resistenza, separando le due metà di quel viso.

Ti fermi, e ti affretti a cercare del nastro adesivo, ma sai anche tu che quella foto non sarà più la stessa.

Possiamo cercare di rappezzare i nostri sbagli mille e mille volte, possiamo leccarci le ferite e possiamo ignorarle sperando che smettano di fare male, prima o poi.
Ma le cicatrici, beh, quelle sono una cosa diversa.

Ed è una cosa che non vale solo per le foto, ora lo sai.

Vale anche per gli uomini, per i cuori che battono.

Perché John era una persona, era un miracolo e una benedizione.

Come te.

Ti aspetti quasi che lui inizi ad urlare per il dolore, ma non lo fa.

Non ha urlato nemmeno quel giorno di tanti anni fa, quando eravate solo tu e lui e il resto era solo una macchia sfocata ed irrilevante.

Ricordi la sua bella mano stringere la tua con gentilezza, ricordi quella stessa mano premere all'altezza del petto per fermare la vita che già scorreva via.

Ricordi il sapore che avevano le tue parole quando lo hai chiamato, il lento viaggio dei proiettili verso quel corpo esile.

Lo rivedi muovere quei pochi passi, il volto deformato da una sorpresa che tardava a divenire terrore.

Ricordi i suoi occhiali cadere a terra, con un tonfo che è sembrato così forte da sovrastare persino le urla di sua moglie.

Lei ha urlato un sacco, quella sera.

Lui invece non ha urlato.

Ha sussurrato.

Ricordi il suono della sua voce sorpresa mentre mormorava "Mi hanno sparato", come un bambino alle prese per la prima volta con il male del mondo.

Ricordi i suoi occhi osservare prima te, e poi il proprio petto vermiglio, ma non sembravano occhi arrabbiati.

Ricordi di aver invidiato persino il modo in cui moriva, perché era bellissimo e nobile anche così, anche con la nuca che batteva sul pavimento.

Ricordi una voce anonima e sconosciuta che ti urlava contro, chiedendoti se ti fossi reso conto di quello che avevi fatto.

Ricordi le tue labbra sussurrare -perché nessuno aveva il diritto di urlare, - "Ho appena ucciso John Lennon".

Ricordi il metallo freddo delle manette contro i polsi, la tua copia de "Il giovane Holden" cadere a terra, con un frastuono insopportabile.

Tutti urlavano, anche le cose.

John Lennon non ha urlato, invece.

Ha sussurrato, ha sussurrato.

E questo è stato il motivo per cui non ti sei mai sentito come se avessi davvero ucciso un uomo, in tutti questi anni.

Ti sembrava solo di aver strappato l'ennesima foto, di aver sparato alla copertina di un album.

Un uomo con quattro proiettili in corpo avrebbe dovuto urlare.

Ma John Lennon non ha urlato.

Ha sussurrato.

E tu credevi andasse tutto bene.

In fondo, non si può mettere qualcuno sulla sedia elettrica solo perché ha sparato a una foto.

Ti ci è voluto del tempo, per capire.

Ti ci sono voluti due ragazzini che si guardavano attorno smarriti, con le guance bagnate, perché avevano perso il loro papà e non sapevano come attraversare le mille strade che avevano davanti, senza la sua mano nella loro.

Ti ci è voluto il dolore composto di una zia che fu madre e famiglia, le sue mani che tremavano e il volto asciutto e pallido.

Ti ci è voluta la voce di una moglie che chiedeva che tu restassi in prigione per tutto il fottuto tempo che ti restava da vivere.

Ti ci sono voluti gli occhi lucidi dei suoi compagni di band, che non sembravano poi così inumani e finti come lo credevi tu, mentre piangevano.

Ti ci è voluta la freddezza di Paul McCartney, gli occhi vuoti di chi ancora non ci crede e il volto deformato in una smorfia di dolore che, Dio, ti è sembrata così simile a quella di John mentre moriva, da farti chiedere se per caso non avessi sparato anche a lui.

Ti ci sono volute le lacrime di Ringo Starr, che non ti è mai parso così piccolo come in quel momento, gli occhiali scuri a celare le lacrime e il peso di una tragedia che gli curvava le spalle e gli spezzava la voce.

Ti ci è voluto il quieto crollare di George Harrison, lo sguardo di chi si pente di ogni cosa sbagliata detta o fatta nei confronti di qualcuno, come chi non può più rimediare e si lascia logorare all'interno da quel dolore, senza farlo notare.

Ricordi di esserti arrabbiato anche con quei tre, perché non avevano capito.

John Lennon aveva detto di non credere più nei Beatles, e tu avevi provveduto a punirlo.

Lo avevi fatto anche per loro, e allora perché non ti ringraziavano?

Ma loro continuavano a piangere, a restare in silenzio o ad urlare.

Ti ci è voluto l'odio del mondo, per capire.

Ora stai meglio -o peggio, dipende da come uno la vede- e durante la notte i sensi di colpa non ti lasciano dormire.

Sei arrivato persino a sperare che le voci tornino, perché persino quelle -persino quelle- ti fanno meno male dei ricordi.

Ti svegli che è ancora buio e silenzio, nella tua cella, in un bagno di sudore, e ti sembra di sentire una voce che sussurra "Mi hanno sparato", ancora e ancora.

Senti il suono delle lenti che si crepano, mentre un paio di occhiali cade a terra, ancora e ancora.

Senti quegli ultimi respiri affannosi -il sibilo della vita che sta fuoriuscendo dal corpo- ancora e ancora.

E fa male, ma è questo il prezzo da pagare se uccidi un padre, un marito, un amico, un nipote.

Se uccidi un uomo.

Il giornale posato sul tuo letto cattura nuovamente la tua attenzione, e lasci scorrere gli occhi sulle lettere.

"Rifiutata la richiesta di scarcerazione dell'assassino di John Lennon" strilla il titolo in grassetto nero, e per un attimo avresti voglia di piangere.

Non lo fai, perché hai già deciso che non ti importa.

Non importa, perché anche se il mondo non lo ha fatto, tu lo sai, intimamente sai, che John Lennon ti avrebbe perdonato.

 

 

E non importa, perché anche se il mondo non lo ha fatto, io ti ho perdonato.

E spero che tu riesca a sentirlo, questo mio perdono.

Anche se non urlo, Mark.

Anche se sussurro. 



Note.

Rieccomi, dopo la mia bellissima pausa greca!
Dato che con Smoke sto litigando (pardon) ho pensato di postare questa piccola os per farmi perdonare.
La data è quella dell'ultima richiesta di scarcerazione per Mark David Chapman.
Il popolo minuto, come credo sappiate, erano le voci che sentiva all'interno della propria testa.
Avevo letto questa intervista, tempo fa, in cui spiegava che solo recentemente era riuscito a realizzare ciò che aveva fatto.
Finalmente riconosceva John come un "padre, come un cuore che batte, direi", e non come "la copertina di un album
,  e diceva "è terribile che non ci sia più, e che questo sia successo per colpa mia".
INSOMMA VIVA L'ALLEGRIA.

In ogni caso, è davvero certo che John lo avrebbe perdonato, e per un attimo ho voluto crederci anch'io cc.
Mi dileguo, addio.

 

  
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