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Autore: BettyLovegood    09/05/2015    5 recensioni
Alla fine l’unica cosa che gli riuscì di fare fu sorridere.
Sherlock alzò un sopracciglio leggermente confuso.
-Perché sorridi?- chiese.
John indicò il muro con lo smile.
-Perché sei tornato, non era questo forse il tuo messaggio?-
Sherlock annui, gli occhi leggermente lucidi, ma visibilmente sollevato dalle parole dell’amico.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note di B.
Questa storia di può definire un'alternativa al ritorno di Sherlock.
Niente Mary e quindi niente matrimonio in vista.
E' uscita così all'improvviso, dopo aver visto -e pianto- per l'ennesima volta il tuffo di Sherlock dal Bart's.
Amo Sherlock e John isieme.
Non so se ha un senso tutto ciò, ma spero vi piaccia.





Non posso morire, dottore. Non ancora. Ho delle cose da fare. Poi avrò tutta la vita per morire.
Carlos Ruiz Zafòn, il gioco dell'angelo.








Da quando lui non c’era più la vita di John aveva fatto un salto indietro.
Era di nuovo solo, nel suo vecchio appartamento, quello affittato dal ritorno dall’Afganistan.
Aveva nuovamente gli incubi, si risvegliava nel cuore della notte urlando il suo nome, come per impedirgli di gettarsi giù dal quel tetto.
Seguiva l’analista, per cercare di alleviare il dolore della perdita, per cercare di andare avanti.
 
Quel che era cambiato però era che ora aveva un lavoro.
Ora era il rispettato dottor Watson.
Da qualche parte aveva letto che per dimenticarsi i propri problemi a volte aiutava immergersi in quelli altrui.
Così lui lo faceva.
S’immergeva nei problemi di salute della gente, li curava, li aiutava, pensava solamente al lavoro e a niente più.
Ed era riuscito ad andare avanti in un certo senso, dopo due anni.
Lavoro, solo lavoro e niente più.
 
 
Non era mai tornato a Baker Street, non riusciva ancora a rientrare in quell’appartamento dove tutto urlava il suo nome.
E non ci sarebbe ritornato neanche quella mattina se non fosse stato per gli smile.
 
Il primo l’aveva trovato sull’assegno di un cliente.
Uno smile giallo, una faccina sorridente disegnata sull’angolo destro del foglio.
John rimase a fissarlo un attimo, un ricordo si stava facendo strada nella sua mente.
Lui che sparava al muro, seguendo il contorno di uno smile giallo.
Scosse la testa, non poteva permettersi di ricordare, faceva troppo male.
Posò l’assegno sul tavolo e si preparò ad accogliere il prossimo cliente.
 
-Sono tornato.-
John per un momento rimase fermo al suo posto, incapace di girarsi.
Per un momento,per  un solo piccolo istante aveva sentito la sua voce.
Ma non poteva essere lui, lui non c’era più ormai.
-Ehi, John che fai, non saluti un vecchio amico?-
Il dottore si voltò verso l’interlocutore lentamente.
Non era lui, ovviamente.
Era solo Mike, ritornato dal suo viaggio all’estero.
-Ciao Mike, allora come è andata la vacanza?-
John si finse interessato alle avventure dell’amico, sorrideva quando poteva e annuiva in continuazione.
Cercò di non pensare alla voce che aveva sentito, cercò di concentrarsi su Mike che faceva snowboard in Austria, Mike che parlava il tedesco, Mike che beveva cioccolata calda.
Ma c’era una cosa che lo deconcentrava, un piccolo segno sulla valigia dell’amico.
Di nuovo lì, era il secondo che vedeva.
Uno smile giallo.
Salutò in fretta Mike e uscì dallo studio con una scusa.
Aveva bisogno di pensare. Anzi, aveva bisogno di non pensare a lui.
Era solo una coincidenza, una strana coincidenza.
Lui non centrava, non poteva centrare nulla.
Lui non c’era più ormai.
 
 
Il terzo smile l’aveva trovato al pub, su un tovagliolo.
-E’ ritornato.-
John alzò gli occhi in fretta dal tovagliolo e guardò il cameriere.
-Chi?-
-Rooney.- il cameriere indicò il televisore che mostrava l’immagine del giocatore di calcio sorridente. –Aveva avuto un brutto infortunio e ora è finalmente ritornato.-
-Già.- mormorò John, per niente interessato.
Si alzò dal tavolo senza finire di mangiare, lasciò dei soldi e se ne andò.
Qualcuno gli stava giocando un brutto scherzo.
 
 
Il quarto era comparso sul muro di casa sua.
Una sorridente faccina gialla disegnata nella sua camera da letto.
John non riusciva a capirne il senso.
O forse semplicemente, non voleva capirlo.
Non poteva essere lui.
Voltò le spalle al muro ed uscì di casa in fretta.
 
 
‘Lo stavi aspettando, lo sappiamo. Dopo tanto tempo è finalmente ritornato!’
John fissò il titolo del giornale.
L’articolo parlava di un vecchio programma televisivo rimandato in onda a grande richiesta, che a lui non interessava.
Ma sotto la parola ‘ritornato’ se ne stava uno smile.
Il quinto della giornata.
 
John ormai ne era sicuro, qualcuno stava giocando con lui.
Forse era qualcuno del club di Anderson che voleva attirare la sua attenzione.
Doveva essere così, non c’era altra spiegazione.
Chiamò un taxi per ritornare casa e dimenticarsi di tutto, ma il sesto smile, disegnato sul vetro dell’auto gli fece cambiare idea.
-221b Baker Street.- mornorò al tassista.
Doveva tornare lì, in quell’appartamento e assicurarsi che aveva ragione.
Doveva constatare che lui non c’era più.
Erano passati due anni ormai.
Il taxi si fermò, John scese e allungò i soldi all’autista ma quest’ultimo scosse la testa.
-E’ già tutto pagato dottor Watson, buon ritorno a casa.-
John fissò il taxi che si allontanava, senza riuscire a proferire parola.
La musica di un violino lo ridestò e lo fece voltare verso l’appartamento.
Era solo un’allucinazione, un ricordo passato che tornava.
Non poteva essere vero.
Dopo la morte del suo amico aveva avuto parecchie di quelle allucinazioni ed erano passate solo grazie all’aiuto dell’analista.
La musica si fermò e John si mosse automaticamente verso la porta.
Appena entrò fu invaso dai ricordi.
 
-E’ la cosa più ridicola che abbia mai fatto.-
-Hai invaso l’Afganistan.-
John ride. Sherlock ride.
 
-Non sono uno psicopatico Anderson, sono un sociopatico iperattivo, informati.-
 
-Cosa diavolo stai facendo?-
-Mi annoio.-
Uno smile sul muro. Colpi di pistola.

 
John strinse i pugni, determinato a ritornare alla realtà.
Doveva uscire da quell’oceano di suoni, immagini, emozioni che l’aveva investito appena entrato.
‘Non è reale, non è reale’ si ripetè mentre muoveva dei passi verso l’appartamento della signora Hudson.
Bussò tre volte alla porta, senza ricevere alcuna risposta, così decise di entrare.
-Signora Hudson?- chiamò.
Silenzio.
-Signora Hudson, sono John.- entrò nella piccola cucina, leggermente preoccupato per l’assenza dell’anziana signora. –John Watson.-
Ancora silenzio.
Il suo primo pensiero fu che forse era uscita a fare compere, ma i mesi passati insieme al miglior consulente investigativo del pianeta gli avevano insegnato ad osservare i piccoli dettagli.
La porta dell’appartamento era aperta, il fornello del gas era stato spento da poco e sul tavolo giaceva ancora una tazza di tè piena.
La signora Hudson doveva essere ancora in casa.
Ma dov’era?
Il suono di un violino arrivò in suo aiuto. Poteva essere al piano di sopra.
Ritornò indietro, fino alle scale dove si bloccò.
Era sempre giallo e sempre sorridente ed era comparso all’improvviso sul muro.
Prima non c’era, John ne era sicuro.
Era il settimo.
 
Il violino suonava ancora, una musica dolce e lenta. Sembrava lo invitasse a salire.
‘Vieni John, vieni.’ Gli sussurrava.
Quel suono, sembrava così stramaledettamente reale.
Appena mosse i primi passi sulle scale la musica s’interruppe e John con lei.
Il dottore si sentì un codardo. Aveva paura di salire, paura di rivedere quell’appartamento doveva aveva passato i momenti migliori della sua vita.
C’era qualcosa che però lo spingeva ad andare avanti, una piccola parte di lui voleva andare fino infondo, scoprire il mistero di quegli smile. Mistero che gli portava a sperare l’impossibile.
Forse è ancora vivo, forse quei due anni erano stati solo un terribile incubo, forse ora lui se ne stava lì a suonare il violino, in attesa del suo ritorno.
 
John prese un grande respiro.
Lui era morto, si era buttato giù da un tetto, lui l’aveva visto.
Lui non c’era più, e l’unica possibilità di convincersi definitivamente di quella cosa era salire le scale e osservare l’appartamento vuoto.
 
E così fece.
Aprì la porta dell’appartamento lentamente, il suo sguardo saettò meccanicamente verso le due poltrone sistemate l’una di fronte all’altra.
Vuote.
Sospirò. Anche se se lo aspettava qualcosa dentro di lui si ribellò.
Tutto quello non aveva senso.
Gli smile, il tassista, la signora Hudson …
-Sai John credevo fossi riuscito a capire dove guardare, dopo tutti quegli smile.-
Una voce alle sue spalle. La sua voce aveva rotto il silenzio.
John non ebbe il coraggio di girarsi. Non era reale, non poteva esserlo.
-Signora Hudson le devo cinquanta sterline, ha vinto.-
Di nuovo la sua voce, forte e chiara.
John si voltò.
La signora Hudson sedeva sul divano, una tazza di te e un sorriso enorme in viso.
E al suo fianco c’era … lui.
 
Comodamente seduto sul divano sorseggiava il suo te caldo con tanta normalità.
Come se quei due anni non fossero mai passati.
Sherlock si alzò, poggiò la tazza sul tavolino e abbozzò un timido sorriso.
-Sorridi John, sono tornato.- disse, indicando lo smile sul muro. –Facile il messaggio, no?-
John non rispose, continuò a guardarlo senza riuscire a spiccicare una parola.
 
Due anni.
Due anni di sofferenza. Due anni di incubi. Due anni di pianti. Due anni di terapia. Due anni di dolore. Due anni di pura convinzione.
Due anni di bugie.
Lui non era morto. Non era mai voltato giù da quel tetto. Era vivo e se ne stava lì, di fronte a lui con quella sua stupida aria misteriosa, il suo stupido cappotto, il suo stupido sorriso e i suoi stupidi occhi lucidi che sembravano brillare.
-John, si sente bene?- chiese la signora Hudson, osservando il suo viso.
Doveva avere un’espressione strana dipinta in volto.
Non sapeva neanche lui cosa provare.
La sua parte razionale voleva correre da lui e abbracciarlo, stringerlo a se e dirgli che gli era mancato, che era contento del suo ritorno.
Mentre la sua parte irrazionale gli urlava di andare da lui e mollargli un pugno in faccia.
 
-Signora Hudson perché non va a preparare un te anche per John?- Sherlock parlava con l’anziana signora ma lo sguardo rimase fisso sul dottore. –Anzi un caffè andrà meglio.-
-Oh sicuro.- la signora gettò un’ultima occhiata a John, ancora fermo nella sua posizione e poi uscì dalla stanza, lasciandoli soli.
 
Per qualche secondo nessuno parlò.
Sherlock guardava John, e John guardava Sherlock.
Nessuno dei due sapeva esattamente cosa dire.
-Beh, sono di nuovo qui.- azzardò Sherlock.
John strinse i pugni. –Due anni Sherlock, due anni convinto della tua morte. Mi hai lasciato a piangerti per tutto questo tempo.-
Sherlock abbassò gli occhi, era forse dispiaciuto per John? No, Sherlock Holmes non provava cose del genere.
-Perché?- chiese il dottore.
-Beh, la rete di Moriarty andava distrutta e io..-
-No Sherlock, perché?-
Il consulente investigativo sbatté le palpebre, per un momento confuso, poi capì.
-Oh, beh, avevo organizzato tutto con Mycroft. Avevo intuito il piano di Moriarty.-
-Quindi Mycroft sapeva.- l’interruppe John.
-Si beh, qualcuno doveva aiutarmi.-
 
Certo, l’odioso fratello poteva sapere che era tutto un piano ma lui no.
-Chi altro sapeva del piano?-
Sherlock prese a tormentarsi le mani. –Molly e alcuni miei amici senzatetto.-
-Oh, certo.- sbottò il dottore, alzando leggermente la voce. – Molly Hooper e un centinaio di senzatetto potevano sapere che la tu era tutta una farsa!-
John si sentiva sempre peggio. Perché lui era stato tenuto all’oscuro di tutto?
-Non essere sciocco John!- Sherlock abbozzò un sorriso divertito. –Erano solo venticinque senzatetto.-
In quel momento la parte razionale del suo cervello andò a farsi benedire.
Si avvicinò a lui e gli mollò un pugno in faccia.
 
 
 
Seduti entrambi sul divano, Sherlock con in mano un impacco di ghiaccio che ogni tanto posava sul labbro gonfio e sanguinante.
Così li trovò la signora Hudson.
-Oh cielo, cosa ti è successo Sherlock?-
La signora non ricevette nessuna risposta, guardò un attimo i due uomini, ognuno evitava lo sguardo dell’altro, e  alzò gli occhi al cielo. A volte quei due sembravano due bambini.
-Voi due ora chiarite, subito.- ordinò, sbattendo con forza il vassoio con il caffè e i biscotti appena preparati sul tavolo.
John e Sherlock la guardarono leggermente stupiti.
-Oh, smettetela.- sbottò lei. –Quando ritorno voglio vedere dei sorrisi al posto di quei musi lunghi.-
Uscì dalla stanza, lanciando un ultimo sguardo di avvertimento ai due.
 
Rimasero ancora un po’ in silenzio, entrambi ancora sconvolti dall’uscita della loro vecchia padrona di casa.
John guardò Sherlock, che cercava di fermare la fuoriuscita di sangue dal labbro e sospirò.
Doveva far male, ma non provò neanche una volta rimorso per quel che aveva fatto.
-Lascia fare a me.- gli disse togliendogli l’impacco di ghiaccio dalle mani. –Sono pur sempre un dottore.-
Sherlock non obbiettò e si lasciò curare senza proferire parola.
 
John era ancora arrabbiato con lui, molto arrabbiato.
Gli aveva nascosto la verità e non riusciva a capire il perché.
Perché proprio a lui? Non era forse un suo amico?
Pian piano però la parte razionale stava ritornando, la parte che voleva stringerlo in un abbraccio per sentire che era davvero tornato.
Erano i suoi occhi che lo facevano sentire così.
Quegli occhi di un colore ancora indefinito –erano verdi o forse erano azzurri, John non riusciva capirlo bene.- colmi di quello che, ormai John aveva capito, era dispiacere.
Quegli occhi che lo analizzavano, lo studiavano in continuazione a cercavano di chiedergli scusa.
Quegli occhi da cui non riusciva a staccare i suoi.
 
-John.-
Il dottore si ridestò dai suoi pensieri al suono della sua voce.
Sherlock fermò la mano dell’amico, che premeva ancora  il ghiaccio sul suo labbro.
-John senti, mi dispiace.-
John abbassò la mano, ma non la staccò dalla sua.
Gli serviva quel contatto. Lui era li, era reale, era ritornato.
-Perché non potevo saperlo Sherlock?- chiese dopo quello che sembrò un’infinità.
Sherlock spostò un attimo lo sguardo sulle loro mani, poi ritornò a guardare il suo volto.
-I suoi uomini ti tenevano sotto tiro, non potevo farti sapere del mio piano oppure ti avrebbero ucciso. Loro dovevano credere che io ero morto, e dovevi crederlo anche tu. Mi dispiace John.-
 
Dopo le sue parole tutto il risentimento che provava era sparito.
Volato via come una bolla di sapone trascinata dal vento e poi puf!, scomparso.
-Sherlock io…- voleva dirgli grazie, voleva dirgli che gli dispiaceva per essersi arrabbiato, gli dispiaceva per il pugno. Ancora una volta Sherlock Holmes l’aveva stupito e l’aveva lasciato senza parole.
Alla fine l’unica cosa che gli riuscì di fare fu sorridere.
Sherlock alzò un sopracciglio leggermente confuso.
-Perché sorridi?- chiese.
John indicò il muro con lo smile.
-Perché sei tornato, non era forse questo il tuo messaggio?-
Sherlock annui, gli occhi leggermente lucidi, ma visibilmente sollevato dalle parole dell’amico.  
 
 
-Promettimi di non farlo mai più.- mormorò John dopo che Sherlock gli ebbe raccontato di come era sopravvissuto al tuffo dal tetto del Bart’s. –O almeno cerca di avvisarmi.-
Sherlock annuì, prese un sorso di te e guardò  John, nuovamente seduto nella sua vecchia poltrona.
-Come è stata la vita senza di me? – chiese.
John aveva un sacco di aggettivi con cui rispondergli: dolorosa, triste, vuota, buia, silenziosa, piatta, orribile …
-Noiosa.- rispose infine.
Sherlock sorrise compiaciuto –si era proprio quello che voleva sentire, John lo sapeva benissimo-  e gli passò un fascicolo.
-Beh, dottor Watson spero sia pronto per una nuova avventura.-
John lesse la notizia di un attacco terroristico a Londra.
Qualcosa si risvegliò dentro di lui, un brivido di eccitazione gli attraversò la schiena, sentì lì adrenalina ritornargli in circolo.
Sherlock era tornato. Il gioco era ricominciato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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