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Autore: Sea    14/05/2015    1 recensioni
Si sa, il blocco dello scrittore può farti impazzire ed Ed Sheeran stava cominciando a perdere colpi. Non voleva partire, per fuggire dai suoi problemi gli bastava il suo appartamento, non aveva bisogno di vacanze. Eppure si trovava lì, intrappolato dal suo manager, senza poter gestire la sua vita come una qualsiasi persona.
Non voleva che qualcuno interrompesse la sua solitudine, ma successe. Quell'incontro avrebbe trasformato la sua gabbia dorata in una via d'uscita, ma ancora non lo sapeva. Il suo deserto stava per trasformarsi in una florida oasi. Così, visse.
ATTENZIONE: IL CAPITOLO "TERZO GIORNO - PT II" è STATO MODIFICATO IN QUANTO MANCANTE DI UNA PARTE DELLA NARRAZIONE, ORA REINTEGRATA NELLO SCRITTO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era ovvio che non fosse riuscito a registrare nemmeno una nota, il pensiero del suo arrivo lo pietrificava. Si era alzato all’alba apposta per registrare. Si tolse le cuffie e le gettò sulla poltrona che aveva accanto. George lo rimproverava. Non riuscivano a capire quanto fosse nervoso e che quei rimproveri non facevano che peggiorare la situazione. Mancavano due ore e lui avrebbe voluto infilarsi in una macchina e andare all’aeroporto. J gli aveva promesso che sarebbe potuto anche scendere dalla macchina per aspettarla, giornalisti permettendo. Era necessario che li vedessero in quel momento, la giovane coppia di innamorati che si riunisce. Era perfetto per gli obiettivi delle macchine fotografiche. Niente baci, gli era stato proibito, ma non sapeva se avrebbe resistito.
  • Concentrati Ed! Dopodomani il pezzo deve essere online!
Si passò le mani tra i capelli, strizzando gli occhi e chiedendo a se stesso un ultimo sforzo.
Riprese le cuffie e chiuse gli occhi, mentre si schiariva la voce.
Mentre cantava, le immagini di quella settimana trascorsa con lei riaffiorarono come margherite al sole. Riuscì per un attimo a sentire la sua pelle sotto le dita. Quella sarebbe stata la volta buona e il singolo sarebbe uscito in tempo.
Più tardi, quando accostarono all’entrata dell’aeroporto, i giornalisti già affollavano l’ingresso, scattando foto della sua auto in arrivo. La sua guardia del corpo scese prima di lui, creando un varco insieme alle autorità aeroportuali. J lo seguì fino all’entrata, oltre la quale la massa di fotografi lo seguì come i topi col pifferaio magico. Ogni passo gli sembrò rimbombare, lento come una moviola, le domande che lo assalivano gli rimbalzavano addosso. Non esisteva più nulla da quando era sceso da quella macchina, la sua mente era focalizzata sul viso di lei che di lì a poco sarebbe apparso al gate.
  • Maledetti giornalisti – disse J, digrignando i denti.
Ed non rispose.
Quando giunsero all’uscita del gate, alzò lo sguardo sul tabellone forse qualche decina di volte per assicurarsi che fosse il posto giusto, infastidito da quella gente che lo fissava. Mancavano 15 minuti all’atterraggio e lui scalpitava, non riusciva a stare fermo. J gli disse più volte che più lui si agitava, più i giornalisti avrebbero infierito, quindi era meglio che lui stesse fermo, ma non ci riusciva, non ci riusciva in alcun modo.
Lentamente, una schiera di fan si accalcava attorno alla già corposa massa di fotografi. Le mani tese verso di lui chiedevano foto e autografi, in altri momenti sarebbe andato lì e avrebbe fatto il suo dovere, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu passarsi le mani nei capelli.
Voleva che sparissero tutti, che lo lasciassero solo a soffrire dell’attesa. Voleva sedersi, mettere la testa tra le gambe e contare i secondi. Voleva essere solo quando l’avrebbe vista, quando l’avrebbe abbracciata.
 

Il pilota aveva eseguito un atterraggio perfetto e lei cominciò a sentire la pressione salire, dopo 16 ore di calma piatta. Stava per scendere da quell’aereo e vedere Ed. Si chiese dove la stesse aspettando. La spia delle cinture di sicurezza si spense non appena l’aereo si fu fermato definitivamente e lei si liberò di quella trappola senza indugio. Fu un sollievo stendere le gambe dopo quelle ore insonni, non sapeva nemmeno che ora fosse ed aveva fame.
Afferrò la sua valigia e silenziosamente uscì da quel trabiccolo.
L’aeroporto di New York le sembrò immenso visto dalla pista di atterraggio e lei già si sentiva persa in quel posto, figurarsi quando ne sarebbe uscita. Prese un bel respiro e si accorse che era mattina: cominciava a mettere insieme i pezzi.
Non poteva ancora credere di essere lì, dall’altra parte del mondo, da sola, da Ed. Ed Sheeran.
Scese i gradini facendo attenzione a non cadere e quando fu a terra, seguì la fiumana di gente al pullman che l’avrebbe portata all’uscita. C’era una marea di gente, con enormi valigie e cappelli da turista. La maggior parte erano italiani, riusciva a distinguerne le parole.
Approfittò del tragitto per darsi una sistemata, ma aveva quasi paura di togliersi gli occhiali.
Non si era mai truccata e pettinata così velocemente.
Quando il pullman frenò, l’ansia cominciò ad assalirla. Non sapeva cosa le aspettasse al di là di quella soglia, ma avrebbe dovuto affrontarlo.
Mentre usciva dal pullman, un uomo richiamò la sua attenzione. Era in divisa.
  • Miss! Miss Sara!
Ecco, era nel panico.
  • We have to wait a few minutes while the other passengers go out the gate, then we can go though.
Quel tizio parlava troppo velocemente, ma aveva capito che forse dovevano aspettare qualcosa. La sua attesa si prolungava ancora, qualche dio nell’olimpo doveva davvero avercela con lei. Passarono buoni 5 minuti e l’ultima persona si allontanò verso il gate. Cosa ci sarebbe stato aldilà del lungo corridoio che ora percorreva con quella specie di poliziotto? Lentamente, un vociare la raggiungeva, sempre più forte di passo in passo. Le tremavano le gambe quando intravide la fine di quel tunnel.
Un passo, distingueva le macchine fotografiche. Un altro, distingueva i cartelloni delle fan. Un altro ancora e lo vide lì, immerso in quel mondo che non le apparteneva. La paura le fece seccare la gola, ma il suo sorriso e il passo che fece per andarle incontro, sciolsero il ghiacciaio che la teneva imprigionata da due settimane.
 

Non appena vide un paio di converse bianche spuntare da dietro l’angolo, seppe che era lei e il tempo si fermò, di nuovo. D’un tratto tutto il mondo svanì e il suo corpo galleggiava in aria verso l’unica direzione possibile. Quando lei ricambiò il suo sorriso, si chiese come fosse riuscito a farne a meno fino a quel momento. Afire love. Afire love. Realizzava il significato di quell’espressione come se la sentisse per la prima volta.
Sara lasciò la valigia e corse verso di lui, che aveva già le braccia aperte per accoglierla. Era lì. Stava bene. Non l’avrebbe più lasciata andare.
Sentì quelle dita infilarsi nei suoi capelli rossi, scompigliandoli completamente, ma a chi importava. La strinse così forte a sé da sollevarla dal suolo, quel tanto che bastava a farle credere di levitare. Affondò il viso nei suoi capelli, sentendo il profumo di salsedine che ancora li invadeva, come l’ultima volta. Come se il tempo non fosse mai passato.
Non aveva il coraggio di lasciarla per paura che potesse svanire da un momento all’altro come un’illusione, ma la sentì ridere e il mondo si rimaterializzò intorno a lui.
Per quanto il cuore gli battesse forte nelle orecchie, il rumore degli scatti divenne così insistente da risvegliarlo. Quando J si avvicinò a loro, fu costretto a lasciarla, ma gli lanciò un’occhiataccia. Incontrò i suoi occhi luminosi.
La medaglietta pendeva dal suo collo ed improvvisamente fu certo del fatto che non l’avesse mai tolta. Lo sentiva nelle sue mani, lo leggeva sulla sua bocca: si erano mancati.
Non riuscirono a scambiare una parola tanto era il baccano che li circondava. Vide le sue labbra muoversi, ma non riuscì a comprendere le sue parole, confuso dai flash, così – stanco di quella situazione – la prese per le spalle e la condusse via. Il poliziotto li seguì con la valigia di cui Sara sembrava essersi dimenticata.
Non vedeva l’ora che fossero a casa, da soli, per parlare e dirsi tutto ciò che avevano da dire.
Quegli avvoltoi li seguivano come fossero carne fresca, senza smettere di tentare di avvicinarsi, di fare domande, di scattare foto tutte uguali, creando per un attimo il panico quando dovevano passare dalla porta d’ingresso per tornare alla macchina.
Le autorità dovettero intervenire quando un giornalista gli si parò davanti, lasciando chiaramente intendere che non li avrebbe lasciati passare. Nascondeva Sara sotto la sua ala, cercando di risparmiarle il martirio di tutti quei flash, ma riuscì a provare sollievo soltanto quando sentì il rumore della portiera aprirsi. La spinse dentro e lui e J la seguirono.
Sara era seduta nella sua macchina.
  • Idioti! – imprecò J, non badando davvero alla loro presenza.
Ed si girò e vide l’aeroporto allontanarsi di secondo in secondo. Quando la sua mente ebbe abbandonato quelle preoccupazioni, il suo cuore riprese i battiti, rendendolo tachicardico nel sentire che Sara gli stava prendendo la mano.
  • Ciao. – disse confusa, ma sorridente.
Il più bel ciao che avesse mai sentito.
  • Sei qui.
Fu l’unica cosa che riuscì a dire lungo l’intero tragitto verso casa sua. Non sciolse il loro abbraccio fin quando J non cominciò ad interrogarla. Sapeva che lo avrebbe fatto e sapeva anche che non poteva fermarlo.
  • Allora. – cominciò. – Come ti chiami?
Vide il volto di Sara colorirsi, ma rispose quasi subito alla domanda, probabilmente sperando di aver capito bene la richiesta. La guardava come un babbeo, senza riuscire ad intervenire o ad aiutarla a sentirsi a suo agio e sperò che lei non notasse quanto la sua presenza in realtà lo confondesse. In bene ovviamente.
J lo guardava con quello sguardo che odiava, quello che diceva “Sei un mollaccione”. Non lo era. O, comunque, non sempre.
Lei non allentava la stretta delle loro mani e lui cercò di infonderle un po’ di coraggio avvolgendola col suo braccio. L’accostamento dei suoi tatuaggi alle sue spalle abbronzate non gli era mai sembrato così perfetto.
  • Cosa vuoi da Ed?
Ecco, la fatidica domanda.
  • J! – disse in tono brusco.
La vide arrossire: avrebbe pagato per conoscere i suoi pensieri in quel momento.
  • Lasciala in pace, sono soltanto le 8:30 del mattino e le hai già fatto il terzo grado.
  • Non fa niente. – disse lei, flebilmente, intimidita da quella situazione.
  • Sara De Amicis dice che non ci sono problemi, quindi fatti da parte. Allora, che cosa vuoi?
  • Niente, signore. – rispose decisa.
J la studiò per qualche secondo, mentre lui cercava di convincersi di non aver fatto una figuraccia. Per fortuna l’auto frenò, accostata al marciapiede antistante il suo appartamento.
  • Ed – lo chiamò J – ti aspetto più tardi in studio.
Ed aspettò che Sara scendesse dalla macchina per rispondergli.
  • No, ci vediamo direttamente domani. Non ho intenzione di discuterne.
Chiuse la portiera senza dargli il tempo di ribattere. Sara aveva la valigia tra le mani e l’auto era ripartita. La guardò, ancora in trans, sentendosi come se fosse appena sceso da una giostra. Frenò il suo istinto di abbracciarla, terrorizzato da possibili agguati dei giornalisti, così la guidò fino all’ascensore del grattacielo, ponendo una mano sulla sua schiena.
Aspettava soltanto di essere al sicuro, in casa, allora avrebbero potuto fare e dire ciò che volevano. Lei lo guardava di sottecchi mentre aspettavano l’ascensore e quando furono dentro disse:
  • Scommetto che andiamo all’ultimo piano.
Rise, prendendo le chiavi dalla tasca.
Al 77° piano, una porta in mogano gli si parò davanti. Infilò le chiavi nella toppa, cercando di controllare il tremito delle dita. Per cosa era agitato?
Aprì la porta e il tepore mattutino della casa li accolse.
Il rumore delle ruote sul parquet gli sembrò irreale, tanto quanto la sua stessa figura in piedi nel suo ingresso. Lasciò le chiavi in un portaoggetti e si girò verso di lei.
Era sempre la stessa: pantaloncini, converse, borsa di cuoio, capelli arruffati, solo che stavolta era a New York, in casa sua.
Fremette a quel pensiero. Ai suoi occhi era perfetta e non avrebbe voluto nessuna altra donna in quell’appartamento probabilmente per sempre. Non le lasciò il tempo di guardarsi intorno che le prese il viso e la baciò. L’incantesimo non si spezzò: lei era ancora lì e le sue gote rosse e lentigginose erano tra le sue mani. Il sapore delle sue labbra era lo stesso.
Immediatamente, lei portò le mani ai suoi capelli, facendogli perdere il controllo.
Fece scivolare le mani fino al suo bacino e la tirò su. Era un tizzone acceso.
La desiderava così ardentemente che credette di non arrivare nemmeno al divano.
Le tirò via i vestiti, senza dire una parola. Sentiva le sue unghie graffiargli la schiena, mentre le baciava il collo e la sentiva sotto di sé, stesa sui cuscini rivestiti di pelle bianca.
Mentre lei gli toglieva la maglietta, capì che in quel momento stavano comunicando. Ogni suo gesto, ogni sua espressione, riusciva a raccontargli anche più di quanto volesse lasciare intendere. Era nuda, in tutti i sensi e lui lo era altrettanto.
Non era un altro sogno. Stavano facendo di nuovo l’amore e fu come se l’avesse per la prima volta.
 

I suoi sensi erano attivi come se non avesse dormito soltanto 5 ore nell’arco degli ultimi tre giorni. Quando lui la sfiorava, anche soltanto con un dito, il suo corpo riprendeva a funzionare.
Ansimavano ancora, mentre lui teneva il capo poggiato sul suo petto e il suo corpo – Lei – era inequivocabilmente viva.
Non aveva programmato niente di tutto ciò che stava accadendo, a partire dal fatto di andare a New York.
Se solo fosse riuscita a tirare fuori la voce, gli avrebbe detto che voleva farlo ancora, ma la sua fronte sudata e le sue mani bollenti sui fianchi glielo impedivano. Sentiva quel momento molto intimo e lasciò che si incidesse nella sua anima. Ed e Sara. Sara e Ed. Ancora non riusciva a pronunciare i due nomi insieme e a sentirli in armonia, ma erano lì e lei avrebbe giurato che non poteva esserci nulla di più autentico.
Gli posò una mano sul viso, sentendo il suo respiro sfiorargli il polso e lui le baciò il palmo. Alzò lo sguardo e la raggiunse, cercando le sue labbra. Sentiva quel contatto così intensamente che stava cominciando a convincersi che la sua vita stava per cambiare radicalmente, cominciando dal fatto di dover ammettere di essersi inesorabilmente innamorata di Ed Sheeran.
Al pensiero di averlo ammesso a se stessa, le salivano le lacrime agli occhi. Una, una soltanto lasciò i suoi occhi e lui, invece di chiederle perché piangesse, gliela asciugò con un bacio.
Erano quelli i gesti che glielo facevano amare: il fatto che lui riconoscesse in quella lacrima un sentimento che non avesse bisogno di ulteriori spiegazioni o parole di conforto, faceva di lui un uomo fuori dal comune. Faceva di lui, Ed.
Lasciò che si stendesse accanto a lei, scivolando lentamente via dal suo corpo. Ogni suo movimento era per lei una prova che quella era la realtà.
Per diverso tempo rimasero lì, senza parlare, fino a che Sara non sbadigliò.
  • Vuoi metterti a letto?
Lo guardò, studiando quella premura nei suoi occhi. Doveva dormire, ma non ci sarebbe mai riuscita se prima non avesse fatto una doccia. Le bastò chiedere e lui si alzò, infilandosi di nuovo le mutande e dirigendosi verso la sua camera da letto in cerca di qualcosa di comodo da prestarle. Fu in quel momento, rimanendo sola, che riuscì ad osservare quella casa. In ogni angolo riusciva a vederlo lavorare, mangiare, riposare. Era quello il luogo che lui chiamava casa e lei ci era dentro. L’infinita vetrata che faceva da muro di cinta della casa, dava su una New York assolata e brulicante di vita. Guardando fuori, si sentì a disagio con la sua nudità, così si alzò e infilò la sua t-shirt, andando alla ricerca del bagno. Lo trovò senza sforzi e cercò da sola il necessario per fare quella doccia.
Quella casa era al livello dell’hotel di Sorrento, si facevano una bella concorrenza. Aveva quasi paura di toccare i mobili, aprire i cassetti, tanto le sembravano preziosi e delicati.
Saltò un metro da terra quando lui entrò senza bussare, spuntandole alle spalle.
  • Scusa, ti ho spaventata? – aveva indossato qualcosa di comodo.
  • A morte.
Sorrise alla vista di quel suo sguardo così sereno, così “casa”. Le sembrava che fosse felice di averla lì, a parte il fatto che avevano appena terminato di fare l’amore. Sperava già, in cuor suo, che sarebbe stato sincero come due settimane prima. Aveva fiducia e paura insieme, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine. Lasciò che le prendesse il necessario, piegato sulle gambe e curvo, alla ricerca di qualcosa nel cassetto più basso. Quei suoi movimenti, quelle spalle ricurve, le erano così teneramente familiari. Le sembrava di conoscere alla perfezione ogni sua forma e ne era ancora imbarazzata.
Doveva essere diventata rossa, a giudicare dal suo sguardo spaesato.
  • Io, forse…
  • No! – si affrettò a dire – Va tutto bene. – e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, stretta nella sua t-shirt.
Lesse sollievo sul suo viso. Lo abbracciò, spontaneamente, premendo il viso nel suo collo robusto e sentì la stretta venir ricambiata.
Dopo un lieve bacio, sparì sotto la doccia per i successivi 20 minuti e quando ne uscì, lo trovò intento a lavarsi i denti prima di darle il cambio. Non potè fare a meno di immaginare come sarebbe stata la sua vita con lui: la mattina colazione insieme, doccia a turni, guardarsi in quel modo che sa di buona abitudine, come accadeva in quel momento. Poi c’era il tour e lei rimaneva sola.
Mise un fermo a quei pensieri, rendendosi conto di star correndo come una Ferrari.
Asciutta, si accomodò sul divano ad aspettarlo, ma nel giro di cinque minuti Morfeo prese il sopravvento su di lei.
 

Si rendeva conto che il jetleg era pesante da sopportare, ma desiderava vedere i suoi occhi. Si consolava guardandola dormire placidamente, mentre le carezzava il capo. Profumava del suo bagnoschiuma e ciò implicava automaticamente che lei fosse di sua proprietà.
Sua madre aveva chiamato al cellulare e aveva risposto per lei, lasciandole intendere che sì, erano a casa sua e sarebbe rimasta lì. Tanto non avrebbe potuto fare di più che sbraitare al telefono. Almeno le aveva risparmiato il peso di parlare dell’argomento “vivo-a-casa-di-Ed” con sua madre.
Sentendo il suo respiro leggero, si rese conto che aveva paura della conferenza che li aspettava: lei era così innocente in confronto a quel mondo. Cosa avrebbe provato quando avrebbero dichiarato di essere ufficialmente fidanzati? Il mondo intero li avrebbe visti, ma avrebbero scorso soltanto una finzione e lui non voleva che lo fosse. Desiderava che quel gesto da programmato divenisse spontaneo e naturale. Reale, nel modo in cui queste cose dovrebbero essere sempre. Quel loro binomio non era uno scherzo, non per lui, ma come poteva pensare di privarla del suo futuro? Era per questo che aveva paura: voleva che lei inseguisse i suoi sogni, come stava facendo lui, ma quel piano non poteva prevedere da subito la sua presenza in scena.
Erano già quattro ore che dormiva ed era ora di pranzo. Si alzò, dopo averle dato un’ultima occhiata, ancora speranzoso che lei si svegliasse. Si diresse in cucina e con tutta calma preparò dei pancakes, canticchiando una canzone di Steve Wonder.
Lo sfrigolio del burro nella padella riempiva il silenzio di quella casa. Di tanto in tanto guardava l’uscio della porta, sperando di trovarvela, ma si trovò deluso ogni volta.
Quando l’impasto fu finito, prese la pila di pancakes e la portò sul tavolino di fronte al divano, trovandola ancora lì che dormiva.
Si inginocchiò accanto al suo viso e le sfiorò una guancia. Un piccolo movimento le fece incurvare le labbra e lui sorrise a quella vista. Si calò su di lei e le baciò quello stesso punto, piano, facendole finalmente aprire gli occhi. Aveva le occhiaie.
Vide i suoi occhi azzurri correre su di lui e poi si alzò, facendo cadere i piedi al suolo. Sbadigliò sonoramente e guardò la colazione sul tavolo.
  • Li hai fatti tu? – chiese, con la voce ancora impastata dal sonno. – Scusa se non ti ho aiutato.
  • Non fa niente. – rispose, sedendosi accanto a lei. – Hai dormito bene?
  • Ho dormito, è già molto. – non lo guardava ancora.
Quando avrebbero finito di mangiare, avrebbe dovuto parlarle della conferenza che li attendeva l’indomani, doveva prepararla alle possibili domande personali che le avrebbero fatto.
Posarono i piatti sul tavolino, dei pancakes non era rimasto nulla se non briciole. La luce filtrava dalle vetrate e lui si sentiva scoperto.
  • Sara – ebbe la sua attenzione – dobbiamo parlare della conferenza di domani.
  • Conferenza?  - lo guardò con sguardo interrogativo.
  • Sì. J ne ha indetta una così da cominciare a far indietreggiare i giornali. Dobbiamo dargli le informazioni che vogliono.
  • E devo esserci anch’io? – leggeva disagio nei suoi occhi.
  • Ti prego. Devi venire con me, ti prometto che non ti mollerò per un istante.
La vide far perdere lo sguardo sul pavimento. Le prese la mano, volendole trasmettere il suo stato d’animo.
  • Lo so che non ti va di farlo, ma voglio evitare a qualsiasi costo che i giornalisti ti perseguitino e scrivano di te cose poco piacevoli. Purtroppo questo mondo funziona così.
  • E dovrò farlo spesso?
  • No, dopo questa conferenza non dovrai farlo più. – la rassicurò e sentì la sua stretta farsi più forte, incoraggiata dalla notizia.
Fece intrecciare le loro dita, godendo del calore che emanava il suo palmo e si sedette più vicino a lei, aspettando le sue domande. Le stava chiedendo così tanto, eppure lei era lì ad accettarlo.
  • Cosa devo dire? – chiese, timida.
  • Ecco…io dirò che noi siamo fidanzati.
Lui stesso divenne rosso come un bambino nel sentire le sue stesse parole e abbassò lo sguardo per evitare di vedere i suoi occhi dilatarsi per la sorpresa.
  • Lo so che non lo siamo, ma è questione di pochi mesi, dopodiché…sarai libera di fare quello che vuoi. – fece una pausa. – Potrai tornare a casa.
Lei rimase immobile, senza distogliere gli occhi dal suo viso e Ed si sentì studiato da quella ragazzina che lo sconvolgeva, forse lasciando trasparire quel suo desiderio di averla davvero per sé. Non sapeva che Sara, in quell’occasione, condivideva i suoi pensieri e le sue paure.
  • E io dovrò rispondere alle loro domande?
  • Sì, ti chiederanno come ci siamo conosciuti, quando ci siamo fidanzati.
Le spiegò come funzionava una conferenza di quel genere e lei prese mentalmente appunti sulle risposte da dare.
  • E se mi chiedono qualcosa di cui non so la risposta?
  • Allora interverrò io, sta tranquilla.
La strinse al suo petto e desiderò che la sua presenza lì avesse altre motivazioni, ma doveva proteggerla. A costo di affrontare quell’irrazionale paura di fingere sentimenti reali.
Forse, un giorno, le avrebbe detto cosa pensava davvero.
 

J aveva lasciato un messaggio registrato, intimando Ed di farle comprare un vestito adatto all’occasione. Almeno per quella volta non avrebbe avuto a che fare con estranei che le dicessero cosa fare, perché lei lo odiava. Lo sapevate già, no?
Non sapeva come avrebbero fatto con i giornalisti, ma si fidò di lui e indosso degli occhiali troppo grandi e i vestiti più anonimi che aveva e – ansiosa – lo seguì fuori dalla porta.
Quando mise piede fuori dal grattacielo, si guardò intorno vedendo per la prima volta New York.
Mentre camminavano, stava attenta a non lasciare la sua mano per non andare a sbattere addosso a qualcuno, troppo intenta a guardarsi intorno. Si respirava un’aria del tutto diversa, ma era elettrizzante essere lì. Lo sentiva ridere per quella sua reazione, ma smise presto di farlo grazie ai pugni che gli mollava con la mano libera.
Con suo grande sollievo, entrarono in un negozio qualsiasi, una di quelle grandi catene commerciali nelle quali trovavi di tutto.
  • Cosa dovrei indossare? Non un abito elegante, spero.
Aveva accettato di partecipare, ma di certo non l’avrebbero addobbata per fargli un piacere. Si sarebbe vestita normalmente, senza eccedere in niente. Proprio da lei.
  • Non ce n’è bisogno. Per me, puoi indossare quello che vuoi. Spero solo che J non ci linci quando ti vedrà.
  • Perché mai dovrebbe farlo?
  • Per una pura questione di immagine che a me non interessa, quindi provati quello che vuoi.
Sguazzarono nei tre piani del negozio e arrivarono ai camerini col soltanto pochi capi.
Sara aveva dei gusti difficili, lo avrebbe imparato presto.
Entrò sola, lasciandolo ad aspettare fuori, lontano dalle ragazze che vagavano tra gli scaffali. La camicia gli copriva le braccia tatuate.
Guardandosi nello specchio del camerino, si disse che non sarebbe stata la ragazza che si aspettavano. Lei aveva i capelli corti, i fianchi larghi, troppo alta per lui. Non aveva un modo di vestire del tutto definito e parlava l’inglese solo per dare indicazioni ai turisti. Non era una cantante, un’attrice, una modella. Probabilmente sarebbero rimasti delusi.
Infilò prima un capo, poi l’altro, senza mai decidersi, troppo imperfetta per potersi convincere di essere pronta a quell’evento.
Finì per scegliere qualcosa che avrebbe potuto utilizzare anche in altre occasioni. Uscì dal camerino e gli fece cenno di potersi allontanare.
  • Allora? Aspettavo che uscissi per farti vedere.
  • Non volevo attirare l’attenzione.
Alla cassa, prese il suo portafoglio per pagare, ma Ed la precedette dando alla commessa la sua carta.
  • Questi non sono soldi che devi spendere tu, chiaro?
Non ebbe il tempo di ribattere che lui le circondò le spalle e la portò fuori. Persa nel suo profumo, appoggiò la testa alla sua spalla e passeggiò con lui in silenzio.
Non sapeva dove la stesse portando, ma il suo calore le bastava a farle passare la curiosità. Si diede della stupida da sola, quando si accorse di star fantasticando di nuovo. Quel modo di camminare insieme la rendeva così serena che già si immaginava a considerarla un’abitudine.
Non sapeva se il suo futuro fosse lì, ma per il momento l’idea di essere nello stesso posto con lui le bastava a farci un pensiero. Dovette rimproverarsi, stava di nuovo esagerando.
In un certo senso erano tornati al principio, erano in una nuova fase: non si erano confrontati su niente che li riguardasse come possibile coppia, quindi non sapeva lui cosa pensasse e quella sua inquieta paura non vedeva l’ora di tornare a tormentarla.
  • Ti va un caffè? – la distrasse dai suoi pensieri.
Entrarono in un piccolo Caffè sulla strada principale, uno di quelli in cui la gente si ferma a prendere caffè d’asporto e loro così fecero. Ed ne chiese per lei uno particolare, probabilmente immaginando che il loro caffè non le sarebbe piaciuto.
Lo assaggiò, sentendo la bevanda aromatizzata alla vaniglia.
  • Cosa c’è dentro? – rise.
  • Vaniglia, cacao e caramello.
  • Vuoi farmi salire la glicemia? – ma continuò a bere.
Prima che arrivassero all’ingresso del grattacielo, aveva già terminato la bevanda. Voleva dirgli che avrebbe voluto girare ancora per le strade, ma capì che forse era troppo rischioso, in un certo senso e comunque non le dispiaceva l’idea di stare a casa con lui.
  • Prima ha chiamato tua madre, stavo quasi per dimenticarmene.
  • Cosa?! Che le hai detto? – era già nel panico.
  • La verità. Che stavi dormendo e che saresti rimasta da me.
  • Hai detto a mia madre che resto a casa tua? Cioè, io resto a casa tua?!
Non lo aveva mica capito che avrebbe vissuto lì, in quella casa, ad aspettarlo che tornasse dagli studi. Non aveva capito che avrebbero dormito insieme, perché lo avrebbero fatto, c’era una sola camera da letto. Non aveva capito che voleva tenerla con sé.
  • Non ti lascio in albergo da sola.  – disse, uscendo dall’ascensore. – Non mi va.
Neanche a lei andava. Preferiva sicuramente stare lì e sentirsi a casa. Quando di chiusero la porta alle spalle, espresse la sua preoccupazione maggiore.
  • E mia madre come ha reagito?
  • Ha dato di matto per qualche secondo, poi si è rassegnata al fatto che era più sicuro per te e per la tua privacy. Non so cos’abbia detto a tuo padre.
  • Ma tu…sei sicuro?
Non le permise di aggiungere altro, poiché la abbracciò e Sara perse le parole. Posò le mani sulla sua schiena, analizzando quel suo gesto per dargli una spiegazione sensata.
  • Sono sicuro.
Quelle parole le accelerarono i battiti, ma poi aggiunse:
  • E tu?
E il suo cuore si fermò. C’erano migliaia di significati da poter attribuire a quella domanda, ma Sara sapeva in cuor suo che per lei ce n’era solo uno. Non fu in grado di rispondere a parole, così lo abbracciò più forte, sperando che bastasse a fargli capire quanto fosse assurdamente sconvolta e felice delle sue parole.
D’improvviso, tutte quelle fantasie non le sembrarono così assurde e gli abbracci nell’ingresso di quell’appartamento le sembravano già familiari.
Trascorsero il resto della giornata a scegliere cosa avrebbe dovuto indossare lui, anche se non era difficile decidere, a cercare qualcosa da mangiare per cena, senza trovare nulla, a scegliere un film da guardare insieme. Nonostante l’assurdità che permeava ogni momento di quella giornata, Sara si sentì nel posto giusto ogni volta che Ed le dava un bacio o una carezza.
 

Quella sensazione che sentiva nel petto lo riportò con la mente al momento in cui la incontrò per la prima volta. Si chiedeva chi fosse davvero quella ragazza, voleva scavarle nell’anima alla ricerca di quel tesoro al quale lei stessa lo stava guidando. Ogni giorno era come il primo. Ogni canzone aveva ritrovato senso.
  • Ti va di sentire la tua canzone?
Non l’aveva mai definita in quel modo davanti ad altri, ma sua lo era sempre stata. Voleva che lei fosse la prima ad ascoltarla, prima che venisse diffusa online. Era la sua e doveva esserlo anche in quel senso. La vide strabuzzare gli occhi, come se stesse prendendo coscienza di quel fatto solo in quel momento.
Prese la chitarra dal retro del divano, dove la lasciava sempre ed incrociò le gambe. Cominciò a cantare, guardandola lì, piccola nel suo magliettone, che lo ascoltava. Conosceva già le prime strofe, ma quando cominciò a cantare la seconda parte della canzone, lei cambiò espressione.
 
And if you hurt me, that's okay baby, there'll be worse things.
Inside these pages you just hold me and I won't ever let you go.
Wait for me to come home.
Wait for me to come home. Wait for me to come home.
Wait for me to come home.
You can keep me
inside the necklace you bought when you were sixteen, next to your heartbeat, where I should be.
Keep it deep within your soul.
And if you hurt me, that's okay baby, there'll be worse things. Inside these pages you just hold me
and I won't ever let you go.
When I'm away, I will remember how you kissed me under the lamppost back on Sixth street, hearing you whisper through the phone:
wait for me to come home.
 
Forse anche lei aveva ricordato quegli ultimi giorni, poiché aveva gli occhi pieni di lacrime e sorrideva, cercando di trattenersi dal piangere. La riconobbe per quella che aveva conosciuto in Italia, la ragazza qualunque che ora lo abbracciava, facendolo commuovere.
Dio, se erano sdolcinati. Probabilmente avrebbero fatto aumentare il livello di zuccheri a chiunque.
Più tardi, la aiutò a sistemare le sue cose nei cassetti vuoti e col pigiama che le stava due volte più grande, la strinse a sé coricandosi a letto. L’indomani avevano parecchio da fare, sarebbe stato meglio dormire, ma l’agitazione non lo permetteva ad entrambi. Sussurrarono a lungo al buio, raccontandosi cosa avessero fatto nelle ultime due settimane, poi, quando lei non resistette più alla stanchezza accumulata, si lasciarono andare al sonno.
Quel loro viaggio, pensò Ed stringendola, era appena cominciato.




Angolo autrice:

Allora, bellezze, innanzitutto grazie infinite per il numero di visite. Sono in crisi! Temo che il finale che ho scritto da poco sia deludente rispetto al resto della storia, quindi se rimarrete delusi (tra molti capitoli) saprò di essermelo meritato.
Ma pensiamo al presente: cosa ne pensate? In effetti questo è solo un capitolo di passaggio, di "importante" c'è solo il loro incontro, ma presto arriverà anche il prossimo capitolo.
Aspetto le vostre opinioni! :)
Bye!


L'aeroporto di NY:

L'appartamento di Ed:


L'abito che Sara compra per la conferenza:


E già che ci sono, ecco il link del video di Photograph. Guardatelo, in esso è racchiuso il senso che questa storia vuole dare al personaggio di Ed, l'essere umano con una storia, un passato, una famiglia. Buona visione!

https://www.youtube.com/watch?v=nSDgHBxUbVQ&list=FLs1FCs8ClIJthN39AExJidQ
 
  
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