Rivedo
ancora il
treno
allontanarsi e tu
che asciughi quella lacrima.
Tornerò.
Le luci intermittenti della console di comando segnalano che mi trovo nei pressi di una stella supermassiccia che sta collassando su se stessa. Se voglio sperare di superare indenne la trappola che l’universo mi ha preparato dinanzi, devo attivare immediatamente gli scudi esterni per proteggere i motori e lo scafo. In assenza di gravità i movimenti sono più lenti e impacciati, ma riesco a raggiungere il computer e inserire i nuovi comandi. È incredibile come, a quasi un anno dalla mia partenza, non sia ancora riuscito ad abituarmi a vivere nello spazio. Ricordo l’ultima sera passata assieme a te come se l’avessi vissuta ieri. Il tempo quassù sembra non seguire regole: talvolta accelera trascinando la lancetta dell’orologio atomico - quello sincronizzato con il tuo sulla Terra - a velocità vertiginose; talvolta rallenta fino quasi a fermarsi, e allora dalla cupola della mia navicella posso osservare un universo immobile, i cui colori sembrano pennellate rabbiose sulla tela di un astrattista.
Com’è
possibile
un anno senza te?
Adesso scrivi, aspettami.
Il tempo passerà.
Penso a quella rosa che ho lasciato sul tuo cuscino prima di andarmene via: chissà se la conservi ancora o se l’hai già gettata via. Quella mattina non ti ho svegliata; non volevo che mi venissi a salutare alla stazione, perché temevo ti saresti messa a piangere. Eppure l’ho vista comunque una lacrima solcare il tuo viso, e da qui non potevo nemmeno asciugarla. Sono salito su quel treno di metallo azzurro, diretto alla base di lancio, senza nessun pentimento. Chissà che cosa avevo in mente? Forse pensavo che tanto un anno passa velocemente e l’amore trascende il tempo. E adesso mi trovo qui, nel quadrante inesplorato di una galassia sconosciuta, mentre dal motore della mia navicella proviene un rumore sinistro: temo che non abbia la potenza necessaria a sfuggire dal campo gravitazionale di quella maledetta supernova che sta collassando. Questa cabina di comando ormai si è trasformata in una discoteca di luci accecanti, e la foto di noi abbracciati e sorridenti passa davanti al mio sguardo, fluttuando poi verso un angolo. Se riuscirò a tornare, ti sposerò, lo prometto.
Un anno non
è un
secolo.
Tornerò.
Com’è difficile
restare senza te.
Spero mi avrai perdonato per
averti abbandonata così. Ogni
volta che guardo un tuo nuovo videomessaggio, in quel tuo sguardo
percepisco una
luce cupa mascherata dal sorriso. Forse avevi ragione a dirmi di
restare. Che
cosa ci ho guadagnato da questo viaggio? Sì, ho visto la
luce rossa di una stella
morente e quella bianca di una stella nascente; ho captato il segnale
lontano
di una stella variabile pulsante che sembrava musica e mi veniva voglia
di
danzare, di danzare con te. Ho compreso le equazioni che descrivono il
moto delle
galassie in formazione e ho raccolto campioni di materia primordiale,
ma in
tutto questo credo di aver perso te. E allora la domanda mi sorge
spontanea: ne
è veramente valsa la pena?
Spengo tutte le luci
intermittenti che segnalano il pericolo
imminente e attivo i comandi manuali. Le
sirene degli allarmi si acquetano e torna la pace; è un
silenzio surreale nel
quale per un attimo credo di sentire il respiro del cosmo.
Quanta nostalgia
senza te.
Tornerò.
Tornerò.
Quella stella supermassiccia
che mi ha agganciato si fa sempre
più buia: i suoi ultimi flash di luce si allungano e si
perdono in vortici
nello spazio
circostante. Se non mi allontano in tempo, prima che diventi a tutti
gli
effetti un buco nero, rischio di essere risucchiato. Sarei il primo
uomo a
varcare l’orizzonte degli eventi; un gran privilegio, ma non
potrei raccontarlo
mai a nessuno.
Disattivo tutte le
apparecchiature
superflue e convoglio la loro energia in parte ai propulsori inerziali
laterali e in parte ai
motori ausiliari; per
assicurarmi un risultato tangibile, uso persino
l’energia prodotta dal
generatore
di riserva, quello che di solito entra in funzione solo in caso di
avaria. L’unico computer che ho
lasciato in
funzione mi sta mandando i dati in tempo reale di ciò che
succede all’esterno;
oltre queste quattro pareti metalliche della mia navicella sembra
proprio che
si stia scatenando l’inferno! Qualcosa colpisce il parabrezza
blindato del
mezzo, creando una piccola ma spaventosa
incrinatura. Ora ho un nemico in più che mi ostacola: la
pressione
dell'atmosfera interna. Se il
vetro non regge ed esplode, l’interno della navicella
verrà ferocemente
catapultato nel vuoto dello spazio. Istintivamente indosso il casco
della tuta
da cosmonauta che già vesto; con questo addosso, in caso di
incidenti, potrò
sopravvivere per qualche istante in più. Improvvisamente il
computer
va in corto, le luci
si spengono e dai cavi fusi scendono cascate di scintille.
Mi torna
in mente la
volta in cui siamo andati a vedere i fuochi d’artificio in
riva
al mare e tu mi
hai baciato. Credo di sentire ancora la
tua voce
e il sapore di quel bacio…
Intorno a me c’è il ricordo dei giorni belli del nostro amore.
La rosa che mi hai lasciato si è ormai seccata
ed io la tengo in un libro che non finisco mai di leggere.
Quando le pareti della
navicella iniziano a dilatarsi capisco
che la fine è vicina. La
stella ormai si è
spenta, e quella sua massa supercompatta ha deformato irrimediabilmente
la struttura dello spazio-tempo. Tutto perde di significato: che
cos’è lo spazio senza
le tre dimensioni? Che cos’è il tempo senza una
direzione?
Sono attratto verso quell’infernale
abisso che è come un magnete; sono troppo vicino al campo
gravitazionale del buco
nero, non c’è nulla che io possa fare se non
pregare. Il
carburante è quasi esaurito
e ogni manovra risulta inutile quindi abbandono i comandi, slaccio la
cintura di sicurezza e mi lascio fluttuare. Il corpo perde
sensibilità, tanto che ho l’orribile sensazione
di essere spalmato
su
un’immensa superficie senza
fine. Scintille, rumori assordanti, scossoni.
La nostra foto deformata
ora sembra
un'opera liquefatta di Dalì che si dissolve
nell’acqua. Mi
chiedo per l'ennesima volta se ne
è valsa la pena, ma non trovo nemmeno la forza di darmi una
risposta.
Il mio orologio
atomico - quello sincronizzato con il tuo sulla
Terra - è impazzito: un secondo equivale
ad un mese o forse più. Chissà come ti muovi
veloce da una stanza all’altra, in
quella piccola casa bianca, su quella regione temperata di quel pianeta
verde e
azzurro che è la nostra culla. Chiudo gli occhi e penso a
te: se potessi
tornare indietro non credo che partirei. Al posto di quella rosa, sul
letto, troveresti
me.
Ti voglio tanto bene.
Il tempo vola, aspettami.
Tornerò.
Mi risveglio improvvisamente
affannato e sudato. Per un
attimo credo di aver solo sognato, ma quando gli occhi si abituano alla
poca
luce, riconosco l’interno della mia navicella. Mi manca
l’aria, tolgo il casco e
prendo un grande respiro. Se la scorta di ossigeno presente nella tuta
è terminata,
significa che sono rimasto privo di sensi per almeno un’ora.
Dagli ultimi dati
elaborati dal computer prima che smettesse di funzionare, si direbbe
che la
navicella sia finita direttamente dentro la singolarità
creata dal buco nero.
Non riesco a capacitarmi di essere sopravvissuto, ma sono felice. Cerco
nei dati un
riferimento, una qualche coordinata per capire in che zona
dell’universo mi ritrovo a
vagare. I motori sono andati, il carburante è finito, le
riserve d’ossigeno
dell’ambiente sono scese al trenta per cento. Quante
probabilità ho di riuscire a tornare?
Non molte, eppure alzo lo sguardo e oltre le finestre della cupola
qualcosa attira la mia attenzione: un pianeta azzurro
cosparso di vortici bianchi, e poco più distante la Luna.
Sono a casa!
Secondo l’orologio atomico - quello
sincronizzato con il tuo sulla Terra -
il mio viaggio è durato un solo giorno e, infatti, indica le
tre del pomeriggio
del giorno dopo la mia partenza, avvenuta in realtà dodici
mesi fa: sono tornato indietro nel tempo? Quella stella supermassiccia
è stata
la mia rovina e la mia salvezza; collocata in un quadrante inesplorato
di
quella galassia sconosciuta, si è trovata a collassare su
se stessa nel preciso momento in cui io passavo di
lì, per risucchiarmi e riportarmi
a
casa. In un lampo capisco che non si è trattato di una
coincidenza.
È stata una mossa azzardata da parte tua, perché
sarei
potuto rimanere compresso oltre l’orizzonte degli eventi
per un tempo infinito, e allora no, non ci saremo mai più
rivisti.
Pensami
sempre, sai,
e il tempo passerà.
Sei,
Quanta nostalgia
senza te.
Tornerò.
Tornerò.
Fiammate d'oro e rosso fuoco abbracciano le vetrate blindate: mi rendo conto che sto precipitando nell’atmosfera terrestre. Lo scudo termico della navicella è danneggiato, tutti gli apparecchi sono inutilizzabili, ma a me basta che funzioni l’airlock della capsula di salvataggio. Con movimenti impacciati entro in quella che è la mia unica possibilità di salvezza, mi assicuro del funzionamento dell’airlock e in seguito sgancio la capsula dalla navicella. Mi chiedo dove sia finita la foto di noi due abbracciati e sorridenti. Forse è rimasta in quella galassia sperduta, dall’altra parte dell’universo, a testimoniare che l’amore trascende lo spazio e il tempo.
Un anno non è un secolo.
Tornerò.
Pensami sempre, sai!
Tornerò.
Note autore:
Una versione revisionata del testo, la potete trovate nel mio blog a questo link.
"Tornerò" di Monique Namie
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