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Autore: silent cloud    04/06/2015    4 recensioni
|Liberamente tratta dall'Eneide; Eurialo/Niso|
“Be’, l’abbiamo scampata per poco”.
Niso si voltò, il fiato corto e sulle labbra un sorriso tremante.
“Eurialo?”
Il sorriso gli morì sulle labbra. Tutto intorno a lui regnava il silenzio più profondo, tanto che il battito accelerato del suo cuore risultava quasi assordante.
“O, Zeus, no”, mormorò, riprendendo a correre nella stessa direzione dalla quale era venuto.
I rovi gli graffiavano i polpacci, le sue gambe stavano cedendo dalla fatica, ma il ragazzo non vi faceva caso. Vagava nel bosco, come un animale che ha smarrito il suo cucciolo e non ha idea di dove cercarlo, le mani protese in avanti per scansare eventuali ostacoli che gli occhi non potevano vedere a causa dell’oscurità. Neanche la luna era dalla sua parte, quella notte.
“Eurialo!” urlò, stremato, rialzandosi dall’ennesima caduta.
Ciò che ricevette in risposta fu l’urlo lontano di una voce straziata dal dolore.

[Questa storia partecipa al contest "L'amore non vuole avere, vuole soltanto amare", indetto da Road_sama sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Tantum infelicem nimium dilexit amicum

[Soltanto amò troppo lo sventurato amico]

 


 
Guardami, Eurialo.
Voltati verso di me, anche solo una volta.
Voglio essere l’ultima cosa che i tuoi occhi color del mare vedono.
 
 
Le urla disperate si diffondevano nell’aria ancor prima del bagliore delle fiamme o dell’odore del legno che arde.
Urla di madri costrette a vedere sgozzati i loro figli maschi e che poi venivano violentate, percosse senza alcuna vergogna né pietà da parte dei loro aggressori; urla di vecchi troppo lenti per riuscire a sottrarsi al fuoco, destinati a morire arsi dalle fiamme; urla di lattanti che non capivano cosa stesse succedendo, ma che piangevano lo stesso a pieni polmoni, come se volessero essere sicuri che chiunque sentisse la loro voce, prima che morissero.
Gli Achei, come psicopompi infernali, lasciavano una scia di cenere e sangue dietro di loro, mietendo vittime una dopo l’altra con una furia più animale che umana.
 
Un giovane dai capelli bruni, insieme a pochi altri che erano riusciti a scampare alla strage, correva per uno dei vicoli secondari che sapeva lo avrebbe portato fuori dalle mura della città il più in fretta possibile.
Il suo volto era incrostato di sudore, polvere e fuliggine, eppure insolitamente fiero. Il suo sguardo, sotto le sopracciglia corrugate in un’espressione grave, lasciava trasparire un desiderio di lotta, il sentore che mai si sarebbe arreso nonostante fosse costretto a fuggire.
Aveva ben stampati nella mente, il giovane, i volti delle persone che si travolgevano l’un l’altra nelle strade brulicanti di Troia: maschere di dolore e terrore, grottescamente deformate dalla paura e dallo smarrimento.
Fu forse per questo che il viso di un fanciullo, rintanato contro l’uscio di una porta in quel vicolo sudicio, le gambe rannicchiate contro il petto, lo colpì tanto da farlo fermare. Il bambino, che non poteva avere più di sette, forse otto, anni, se ne stava immobile, il volto rigato dalle lacrime, gli occhi spenti. Non un’emozione turbava i suoi lineamenti eleganti. I suoi ricci biondi risplendevano al tenue bagliore delle fiamme lontane, gli occhi gonfi scintillavano come due perle nella semioscurità.
Il ragazzo non seppe cosa lo spinse a precipitarsi verso di lui, rassicurandolo quando questi si ritrasse alla vista della spada che pendeva inguainata al suo fianco – forse il suo volto candido, né seppe spiegarsi perché se lo caricò sulle spalle, inutile fardello in un momento in cui ogni attimo perso poteva essergli fatale – forse il suo sguardo puro.
“Ho perso mia madre”, sussurrò il bambino tra un singhiozzo e l’altro, tenendosi stretto al collo del suo salvatore.
“Non preoccuparti, la ritroveremo”.
 
 
Corri, corri veloce come il vento. Per una volta, proteggi te stesso e lasciami indietro.
Non stare qui a guardarmi morire, Niso.
 
 
“Di’, Niso, tu ci arrivi lassù?”
“Neanche un gigante riuscirebbe ad arrivarci, Eurialo”.
“Di’, non è forse il melograno più alto di tutta la Sicilia?”
“Ne dubito”.
“Di’, Niso, perché sei sempre così serio?”
Perché tu non lo sei mai. Ma questo Niso non lo disse.
 
Il giovinetto dai capelli color del grano se ne stava pigramente sdraiato a terra, l’erba sotto di lui gli faceva da soffice manto. Le sue mani erano intrecciate sotto la nuca, a mo’ di cuscino.
“Niso”.
“Sì?”
“Non è che mi aiuteresti a prendere quel melograno lassù? Sembra il più dolce e succoso di tutti”.
Eurialo si girò su di un fianco per osservare l’amico, un largo sorriso gli illuminava il volto.
“Ti sembra che sia così solo perché è il più lontano di tutti”, rispose l’altro, ma nonostante ciò si alzò in piedi, lasciando cadere a terra la spada che fino a un momento prima stava lucidando seduto contro il tronco di un ulivo.
“E questo non fa di lui il più buono?”
“No, questo fa di te il più ingordo tra gli esseri umani”.
Niso sorrise appena: la risposta sembrava aver contrariato il fanciullo, che aveva incurvato le labbra in un broncio delizioso.
D’altra parte, davvero non si poteva negare che l’ingordigia fosse la forza motrice di Eurialo, puerilmente caparbio per quanto riguardava il cibo così come negli affetti.
Il suo fascino da Apollo adolescente portava chiunque a cercare di esaudire ogni sua richiesta, anche la più tacita. Era irriverente, egoista ed opportunista, ma con il suo sguardo limpido, la sua bocca grande che si lasciava sempre sfuggire parole di troppo, i ricci biondi sempre ordinatamente scomposti, attirava su di sé l’ammirazione e le invidie di ogni essere umano.
E lui si beava della debolezza altrui e capricciosamente desiderava che tutti lo amassero.
“Sei cattivo”, mormorò Eurialo, salendo a cavalcioni sulle spalle dell’amico più grande e allungando una mano per raccogliere il frutto tanto anelato.
No, sono sincero. Ma anche questo Niso non lo disse.
Si limitò ad osservarlo infilarsi in bocca una manciata di chicchi rossi con un’esclamazione di piacere.
Con la bocca appiccicosa del succo zuccherino del frutto, egli schiuse le labbra in un altro dei suoi sorrisi spontanei. Gli stava tendendo una metà spaccata del melograno, che aveva diviso con la spada, senza curarsi del fatto che il giovane guerriero l’avesse amorevolmente pulita e lucidata solo qualche minuto prima.
“Di’, non avevo forse ragione a dire che è il melograno più buono di tutti?”
Nel porgergli il frutto le sue dita affusolate si erano soffermate un attimo di troppo sulla mano di Niso, ne avevano sfiorato il dorso con una malizia irriverente che aveva fatto rabbrividire il ragazzo.
Incurante del liquido rosso che gli colava sul mento, sudicio di polvere, terra e succo di melograno, in quel momento Eurialo era più bello e umano che mai.
 
Trascorsero diversi attimi di silenzio prima che il minore tra i due parlasse di nuovo.
“Mi aiuteresti con il tiro con l’arco, questo pomeriggio?”
Ancora un’altra richiesta.
“Per favore. Sei il migliore, e l’unico che riesca a uccidere una lepre o un uccello anche a dieci stadi di distanza!”
La sua voce ancora acerba si impiccò in un acuto alla fine dell’esclamazione.
Niso lo osservava con uno sguardo divertito, un sopracciglio inarcato.
“Sai bene che non è affatto vero”.
“Chi se ne importa se è vero o no, io voglio che sia tu ad insegnarmi”. Eurialo si sporse verso di lui, posandogli una mano sulla gamba, gli occhi troppo lucidi perché brillassero di lacrime sincere.
“Non puoi dirmi di no, lo sai che non riesco a concentrarmi bene, con gli altri”, aggiunse con tono mellifluo, e nonostante una lacrima gli fosse scivolata da un angolo dell’occhio lungo una gota, le sue labbra stentavano a non incurvarsi in un sorriso.
Niso, ancora una volta, si ritrovò a pronunciare parole che non avrebbe voluto, lasciando che la sua volontà crollasse travolta da quella ben più solida del giovinetto.
Lo guardò a lungo allontanarsi di corsa verso l’accampamento, felice di aver ottenuto ciò che voleva.
 
 
Eurialo è un giovane dio, Eurialo non deve morire.
Il suo corpo ancora non immagina cosa possa essere la morte, ne ha solo sentito parlare da lontano. Ed è giusto che sia così, perché gli dei non conoscono la tristezza, non conoscono il dolore, non conoscono la morte. Gli dei non sono mai tristi e non piangono mai.
E così le lacrime sul suo viso non sono davvero lacrime, sono ambrosia.
Sorridi, morirò io al tuo posto.
 
 
“Di’, Niso, mi ami?”
La domanda giunse totalmente inaspettata, dopo una serata trascorsa tra vino e argomenti frivoli. Ma, conoscendo Eurialo, per lui anche l’amore era una frivolezza.
“Certo che ti amo”.
“Ma in quel senso?”
Niso non rispose. Come si poteva non amare Eurialo? Era il più bello tra i Troiani.
“Perché se non mi ami potrei morirne, lo sai?”
La testolina riccia si sporse verso di lui, osservandolo con aria beffarda. “Mi taglierei le vene dei polsi con la tua spada e mi lascerei morire dissanguato di fronte alla tua tenda”.
“Non essere sciocco”.
“Ma io sono estremamente serio”.
Eurialo si voltò verso il compagno, dopo aver intinto un dito nel calice di vino che quest’ultimo reggeva tra le mani.
“Mi immagino già il sangue che gocciola lungo le mie braccia, e il mio viso che perde colore, diventando livido e freddo, mentre tu dormi tranquillo nel tuo giaciglio senza sospettare niente”. Si portò il dito alla bocca, succhiandolo per un secondo, pensieroso.
“Non succederà”, rispose Niso seccamente.
“Oh, mia madre piangerà tanto”.
“Ti ho detto che non succederà”.
“Non puoi esserne così sicuro”.
“Sì, invece, perché tu non morirai mai”. O almeno non prima di me.
“Quindi mi ami?”
Niso, sospirando seccato dalla sua insistenza, alzò gli occhi al cielo.
“Sì, mi ami”, sentenziò Eurialo, con un grande sorriso soddisfatto.
Si accoccolò tra le braccia dell’amico, appoggiando una guancia contro il suo petto e prendendogli una mano tra le sue.
Le mani di Niso erano troppo grandi per essere quelle di un nobile, ma erano belle, forti ed abbronzate. Profumavano di erba appena falciata e di terra. Se ne portò una vicina al volto e ne annusò l’odore prima di lasciarci sopra un bacio. “Sei strano”, disse, cercando di scorgere nel suo viso almeno un’ombra di quello che stava pensando.
Niso si limitò a stringersi nelle spalle, portandosi alle labbra la coppa di vino con un sospiro. Il capo ricciuto del giovinetto premeva sopra di lui come un macigno, senza che egli riuscisse a trovare la forza per spostarlo.
In effetti era strano, si sentiva strano, ma forse erano i fumi dell’alcol ad annebbiargli la mente, forse era solo ubriaco.
Erano giorni, ormai, che Eurialo era l’unico suo martellante, doloroso pensiero. Si ricordava ancora quando lo aveva preso sulle spalle per la prima volta, delizioso fagotto tremante che pesava solamente poche dracme. Si ricordava di quando gli aveva insegnato ad usare la spada, delle nottate insonni trascorse insieme ad osservare il cielo, nel vano tentativo di insegnargli le costellazioni, mentre il fanciullo chiacchierava di argomenti puerili senza dargli ascolto.
Lo aveva visto crescere, farsi adulto. Adesso la sua voce non era più stridente, il suo corpo, per quanto delicato, era quello di un uomo e non più di un bambino. Ma Eurialo restava comunque puro, casto come un giglio, e lui non voleva essere così cattivo da coglierlo per poi guardarlo appassire in un vaso di coccio con solo poche dita d’acqua.
 
“E’ bello stare con te. Non è come stare da soli, ma non è nemmeno come essere costretti a stare con qualcuno”.
La voce vellutata di Eurialo ruppe il silenzio che durava ormai da diversi minuti.
“Nonostante tu sia decisamente troppo austero, e a volte perfino noioso, s’intende. Ma sai bene che mi accontento di poco”, aggiunse subito dopo, quasi fosse spaventato dalla serietà delle sue stesse parole.
Il suo capo era ancora appoggiato al petto di Niso, e attraverso il tessuto sottile della tunica poteva percepire il calore della sua pelle, il movimento regolare del suo torace che si alzava e abbassava. I suoi occhi azzurri andarono alla ricerca dello sguardo dell’altro, che lo fissava come se non lo vedesse veramente.
“Sei ubriaco”, mormorò con un sorrisetto divertito, sfilando delicatamente il bicchiere di vino dalle mani di Niso per portarselo alle labbra.
“Di’, non trovi che il vino sia il più grande dono che gli dei potessero farci?”, continuò impietoso, pungolando il fianco dell’interpellato con l’indice della mano libera per ottenere la sua attenzione. “E’ come se volessero dirci che sì, a differenza loro un giorno moriremo, ma con il vino possiamo sentirci dei anche noi per qualche minuto. Di’, Niso, non ti senti un po’ un dio in questo momento?”
“Sta’ zitto”, biascicò Niso, con la bocca impastata.
“Sei soltanto invidioso perché sono un grande poeta”, continuò Eurialo, scostando dal volto la mano malferma di Niso che gli aveva coperto le labbra nel vano tentativo di farlo tacere.
“Non sei un grande poeta, sei solo un ragazzetto dalla lingua troppo sciolta”, borbottò Niso con enorme sforzo.
La risposta destò un sorriso malizioso da parte di Eurialo.
“Sei ubriaco, e non capisci neanche quello che dici” ripeté con tenerezza, sollevando il busto per lasciare un bacio su una tempia del compagno.
“Sono felice”, ribatté Niso, portando un braccio a cingergli le spalle.
E lo era davvero. Solo in momenti simili, talmente gonfio di vino da non riuscire più neanche a pensare, si permetteva di provare un sentimento che si avvicinava quasi alla felicità autentica. Solo allora si liberava da quell’oppressione che gli attanagliava costantemente la bocca dello stomaco, ed era in grado di accettare che Eurialo riposasse sul suo petto, di stringerlo tra le braccia senza la paura di spezzare il fragile stelo di quel fiore prezioso.
 
 
Quello che non ti ho mai detto, è che sei molto più bello di me. Se solo riuscissi a trovare la forza di parlare, ti direi che il tuo corpo è tanto bello quanto lo è il tuo animo. Sei il migliore tra gli esseri umani.
Perdonami, Niso. Perdonami.
 
 
Eurialo se ne stava accovacciato a terra, in un angolo della tenda.
“Ti prego”, sussurrò, arricciandosi nervosamente una ciocca di capelli intorno alle dita.
“Ne abbiamo già parlato”, rispose Niso, senza osare guardarlo negli occhi, per paura che la sua risolutezza si sciogliesse come neve al sole una volta incontrato il suo sguardo.
“Non sono più un lattante, ormai. Posso esserti di …”
“Ho detto di no”.
Il giovinetto gli lanciò un’occhiata astiosa. Non lo aveva mai detestato come in quel momento.
 “Ti odio”, sibilò a labbra strette. “Ti odio, ti odio, ti odio”, continuava a ripetere, accorgendosi a malapena di aver incominciato a piangere come un bambino.
Niso lo osservava con la coda dell’occhio, sul volto un’espressione dura, severa.
“Se pensi che inscenare un simile teatrino possa farmi cambiare idea, ti sbagli di grosso”.
“E’ solo che…” balbettò l’altro, asciugandosi gli occhi e il naso con il dorso della mano nel tentativo di riacquistare il controllo di sé. “E’ solo che…”
Le parole gli si strozzarono in gola.
E’ solo che ho troppa paura per lasciarti attraversare da solo il territorio nemico. E’ solo che ti amo, stupido testardo, avrebbe voluto urlargli contro. Ma l’orgoglio, la peggiore delle prigioni create dall’uomo, gli serrava le labbra.
“Non mi interessa quello che pensi, ho deciso di venire, e verrò”, gli uscì invece dalla bocca.
Si alzò da terra e uscì dalla tenda senza aggiungere neanche una parola.
 
“Be’, l’abbiamo scampata per poco”.
Niso si voltò, il fiato corto e sulle labbra un sorriso tremante.
“Eurialo?”
Il sorriso gli morì sulle labbra. Tutto intorno a lui regnava il silenzio più profondo, tanto che il battito accelerato del suo cuore risultava quasi assordante.
“O, Zeus, no”, mormorò, riprendendo a correre nella stessa direzione dalla quale era venuto.
I rovi gli graffiavano i polpacci, le sue gambe stavano cedendo dalla fatica, ma il ragazzo non vi faceva caso. Vagava nel bosco, come un animale che ha smarrito il suo cucciolo e non ha idea di dove cercarlo, le mani protese in avanti per scansare eventuali ostacoli che gli occhi non potevano vedere a causa dell’oscurità. Neanche la luna era dalla sua parte, quella notte.
“Eurialo!” urlò, stremato, rialzandosi dall’ennesima caduta.
Ciò che ricevette in risposta fu l’urlo lontano di una voce straziata dal dolore.
 
Il sapore della terra misto a quello del sangue.
La voce sgradevole di un uomo che gli urlava contro in una lingua che lui non riusciva a comprendere.
I singhiozzi di Eurialo, raggomitolato non molto lontano in una pozza di vomito e sangue.
Tace, irrumator!
Silenzio.
Niso afferrò la spada.
“Non preoccuparti, ti proteggo io”. Bugie.
Ormai gli mancava anche la forza per stare in piedi. Non riuscì a scansare l’attacco del nemico, e la spada affondando nell’armatura produsse lo stesso rumore di un carapace di tartaruga fracassato contro una pietra.
Niso barcollò, tenendosi stretto il fianco da cui usciva un fiotto di liquido caldo.
“Non preoccuparti, ci penso io a questi porci schifosi”. Ma neanche si accorse di essere già crollato a terra, proprio sopra il corpo dell’amico.
Lo sguardo di Eurialo era rivolto verso il cielo. La luna, che prima si era fatta tanto desiderare, adesso splendeva alta e grande, illuminando il volto del giovinetto.
Il cielo si rifletteva negli occhi di Eurialo. Le labbra semichiuse erano macchiate da un rivolo rosso.
Il giovane guerriero strinse i pugni per non svenire, per raccogliere le sue ultime forze e sollevarsi carponi.
Un vento leggero faceva ondeggiare i fili d’erba macchiati di sangue, e portava alle sue narici l’odore dei fiori estivi già prossimi ad appassirsi.
 
Quando Niso si chinò a baciare le labbra di Eurialo, esse erano già fredde.
 
 
 
“Di’, Niso, mi ami?”
 
  
 
 

 
Note: Tantum infelicem nimium dilexit amicum: “soltanto amò troppo lo sventurato amico” (Eneide, IX, v. 430). E’ la frase che Niso pronuncia per proteggere Eurialo dai Rutuli, mentendo apertamente nel tentativo di giustificare la sua presenza nel campo nemico con la scusa che Eurialo lo aveva seguito solamente perché lo amava, ma non aveva di fatto avuto nessun ruolo nella vicenda. 
Tace, irrumator: “stai zitto, bastardo”.
   
 
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