N/A Challenge CK – LP (va bene, va bene, Cartoonkeeper
– LaraPink :P )
Scrivere una tartastoria ispirata ad una fiaba.
Naturalmente io ci ho schiaffato il mio solito stile
realismo-angst-sensualità. 4 U, baby :*
Spero che vi divertiate a leggerla. Io naturalmente mi sono divertita
tantissimo a far patire i nostri eroi; degna pausa tra le fatiche di fine anno
scolastico. Tartascrivere è… favoloso XD
Un abbraccio e vivete tutti felici e contenti!
“Every day is so wonderful
Then suddenly it's hard to breathe.
Now and then I get insecure
From all the pain, I'm so ashamed.
I am beautiful no matter what they say.
Words can't bring me down.
I am beautiful in every single way.
Yes, words can't bring me down....
So don't you bring me down today.”
Elvis Costello, Beautiful
Sedeva sul
gradino della zona centrale, fissando le pareti di carta del dojo. Aldilà, come
in un gioco di ombre cinesi, riusciva a vedere le forme dei suoi fratelli e del
suo maestro, impegnati in un intenso allenamento. Si erano divisi a coppie, e
mentre Donatello affrontava Michelangelo, Raffaello questa volta se la stava
vedendo con il maestro Splinter. Fino a poco tempo fa, avrebbero potuto allenarsi
in coppia tutti i fratelli, a due e due; adesso, il loro maestro doveva
prendere, a turno, il ruolo di avversario negli esercizi dei suoi figli.
Questa volta, Leonardo non li aveva voluti neanche
raggiungere nel dojo, ad assistere da spettatore a ciò che non avrebbe più
potuto fare. Con la scusa di voler leggere, era rimasto lì, da solo. La pila di
vecchi libri che Michelangelo aveva amorevolmente posto accanto a lui non era
stata toccata, però.
Non aveva
neanche più voglia di leggere.
Le forme si
muovevano rapide dietro la parete di carta. Apparivano e sparivano, visioni
oniriche e fugaci, come carpe koi guizzanti in fondo al lago ghiacciato.
Il giovane
mutante mascherato in blu sospirò, nella stanchezza, nel leggero intontimento
dei farmaci, nel sottile e costante dolore. Premette i polpastrelli sulle
palpebre chiuse, e arabeschi rossi e bianchi si rincorsero nel buio.
Distese le
braccia, poi spinse con le mani ai lati della sua seduta, per sollevarsi un po’
e cambiare posizione cercando di muovere meno possibile il bacino. La prospettiva
di non ricevere la solita fitta di dolore da quel che restava della coscia si
rivelò però una speranza vana.
Ne valeva la
pena? Ne era valsa la pena? Sì,
certamente, si diceva in continuazione.
Una gamba
vale una vita, vale una vittoria, vale la sconfitta del loro nemico. La sua
menomazione vale tutto questo.
Vale lei.
Eppure…
Il
moncherino in cicatrizzazione, sotto le bende, prudeva.
Ne era valsa la pena? La lotta,
la pioggia. Riflessi di lame, fulminee. Il dolore, il sangue. Le grida
concitate che lo chiamavano, su quel tetto. Le sue urla, verso il cielo, il
panico, i piedi fasciati dei suoi fratelli che battevano contro il cemento, schizzando
l’acqua che sotto di lui era rossa. E pelle a brandelli e carne, dilaniata, ed
il bianco orribile delle ossa; le braccia di Raph che lo tenevano, nelle
convulsioni, con l’avambraccio forte del fratello a premere sulla sua bocca,
col gusto di sangue e sudore, per soffocare le sue urla. Le mani di Donnie che stringevano,
dolore caldo e bianco, strazio, le sue dita a chiudere l’arteria. L’acqua
scrosciava forte, un lampo squarciava il cielo; Mikey, in piedi sopra il corpo
del nemico, sfilava la katana ancora incastrata tra l’orbita occipitale ed il
casco Kuro Kabuto. Poi il buio.
Leonardo
strinse gli occhi, al ricordo. Un intorpidimento dei sensi, febbrile, lo stava
cogliendo, ancora una volta. Le rimembranze si facevano vischiose e calde, i
pensieri si confondevano, la percezione dell’ambiente intorno a sé sfumava,
dilatando lo spazio in un’infinità nera. Iniziò a respirare più forte.
Il sangue. Il dolore.
Aprì gli
occhi di scatto, e prese un profondo respiro.
Grugniti
della lotta giungevano dalle ombre cinesi. Girò lentamente, con stanchezza, lo
sguardo ai libri accanto a sé, accarezzò il dorso di alcuni di loro. La mano
tremava appena. Michelangelo gli aveva portato di tutto un po’. Thriller da due
soldi nelle loro brossure accartocciate dalle intemperie. Grandi classici che
non aveva ancora letto. Qualche vecchio libro della loro infanzia.
Tra questi
ne spiccava uno appena un po’ più grande degli altri, con la copertina di un
marrone chiazzato e scolorito; sul dorso consunto si leggeva a malapena il
titolo in caratteri che una volta erano stati dorati, prima che piccole mani
verdi li sfiorassero centinaia di volte, portando via il colore dalla
scanalatura sbiadita delle lettere.
Leonardo lo
sfilò piano dalla colonna di libri, e se lo mise in grembo. Memorie di quattro
piccole tartarughe rannicchiate sotto una coperta, ad ascoltare Splinter
leggere loro una fiaba da questo libro, al caldo, al sicuro, tra odore di
incenso e latte e cemento, tornarono agrodolci alla mente.
Fiabe di A. C. Handersen.
Aprì il
libro, lo sfogliò a caso. Nella sua memoria, i colori delle illustrazioni erano
ancora più vividi di quanto apparissero adesso su carta. Castelli, principesse
e cavalieri, palazzi di ghiaccio, sirene, un piccolo fiammifero ad irradiare
una visione.
Gli occhi si
fermarono su una pagina in particolare. Le dita verdi carezzarono amorevolmente
una macchia, goloso lascito sulla carta di una merenda bambina. Era sempre
stata una delle sue fiabe preferite.
“…Il bambino prese uno ad uno i soldatini di piombo
e li mise sul tavolo, guardandoli meravigliato. L'ultimo gli sembrò molto strano:
rimaneva perfettamente diritto, magnifico come il resto della truppa, ma aveva
una gamba sola…”
Un sorriso
amaro sfiorò il volto della giovane tartaruga.
Una gamba sola.
Si sistemò
sul cuscino nel gradino, ricevendo ancora il solito spasimo. Per fortuna, la
terapia del dolore di Donnie era stata abbastanza efficace, e lo strazio
all’arto fantasma diminuiva di giorno in giorno, riducendosi ad un dolore sordo
e sottile, costante e familiare. Sì, una gamba valeva la morte di Shredder. La
sua famiglia, adesso, sarebbe stata al sicuro, almeno un po’ più al sicuro.
Allora
perché non si sentiva fiero, audace, come il soldatino?
I suoi
pensieri furono interrotti da un frusciare lieve, a malapena udibile, a pochi
passi da lui. Qualcuno si stava avvicinando, venendo dalle stanze da letto.
Leonardo non si allarmò, poiché sapeva esattamente chi fosse. Anche così, anche
nelle sue condizioni, i passi della ragazza, leggeri come piume, erano appena percepibili
sul pavimento.
Era lei. Sua
“sorella” Miwa.
Karai.
La tartaruga
mutante voltò il viso verso la ragazza, e le sorrise. La giovane umana gli
rispose con un cenno del capo, ancora assonnata. In pantaloncini e t-shirt
neri, avanzò con la solita andatura elegante e sinuosa, aggraziata danzatrice, per
sedersi nel cuscino a pochi piedi da lui. Sbadigliò senza curarsi di portare
una mano alla bocca, e si strofinò gli occhi.
I capelli
neri che scendevano ai lati del viso erano spettinati ed arruffati. La pelle
era pallida ed un po’ arrossata dal sonno sulle gote. Gli occhi a mandorla
sembravano piccoli e pungenti come quelli di un furetto, senza il kajal vistoso
e le bande rosse del consueto trucco. Le solite occhiaie scure cerchiavano le
orbite, come sempre da quando era stata portata a casa.
Lo sguardo
di Leonardo indugiò appena un attimo nei suoi occhi caldi, ambra e cannella, sulla
sua maglia oversize che le nascondeva le snelle forme, ed infine scese, veloce
e carico dell’imbarazzo lieto dell’azione proibita, ad ammirarle le cosce,
bianche come il latte, e le gambe, toniche e muscolose.
“…il soldatino di piombo, attratto dalla bellezza
della ballerina di carta, non smise di guardarla nemmeno per un attimo…”
L’adolescente
mutante si sentì invadere dal solito fuoco caldo, proprio al centro del petto. Il
cuore, ancora una volta, accelerò il suo corso, e pensieri invadenti ed
impudichi nuotarono nel suo cervello per poi trasformarsi in piccoli pesciolini
guizzanti nei suoi nervi, giù verso tutto il suo corpo, indugiando irriverenti
in parti di esso nascoste. Da quando Karai era venuta a stare con loro, non era
più riuscito a ingannare sé stesso riguardo ai sentimenti che aveva sempre
provato verso di lei. Da sempre, dalla prima volta che l’aveva vista.
Quei
sussulti nel cuore adesso avevano un nome. Amore.
Lui l’amava.
Contro ogni logica, l’aveva sempre amata, anche quando era una nemica, anche
quando era feroce ed invincibile. Nelle loro lotte tra i tetti, nei loro
sguardi, nelle parole taglienti come lame; nei loro giochi pericolosi, fatti di
attese al freddo e momenti rubati, di scintille di lame e tocchi elettrici di
pelle contro pelle. Quando lei era forte come l’acciaio, ed altrettanto
implacabile.
Non come
adesso.
Ora, lei non
era che la pallida ombra della guerriera di un tempo. Da quando era tornata definitivamente
alla sua forma umana, qualcosa in lei semplicemente non andava. Nel suo corpo,
nella sua mente.
Debole e
perduta, spaventata come una bambina, passava gran parte delle sue giornate a
letto, nella camera che avevano allestito per lei. Mangiava poco, parlava
appena. Piccoli monosillabi, sussurrati piano, ed a volte neanche quelli. A
volte, sembrava che non sentisse o non capisse quello che le si diceva. In
alcuni momenti, scoppiava a piangere senza un perché. Aveva paura, sussultava
ai suoni, spalancava allibita gli occhi a pensieri che l’afferravano senza
preavviso, rubandole l’aria d’intorno. Quegli occhi, una volta duri e
determinati, sensuali e implacabili, vagavano adesso sperduti sulle cose senza
vederle, privi della loro luce, perdendosi in infinità celate dietro le pareti.
La dura kunoichi
era diventata delicata e fragile, come una
ballerina di carta.
“…egli credeva che lei avesse una sola gamba come
lui e questa supposta infermità rinforzava il suo amore…”
Splinter e
le tartarughe l’avevano accolta con dolcezza. Anche Raffaello le si era sempre
rivolto con tatto e cordialità, nonostante il rancore che aveva provato una
volta nei suoi confronti. Donatello, i primi giorni dopo la tremenda battaglia,
mentre rattoppava un po’ tutti e seguiva il terribile infortunio del fratello
maggiore, aveva cercato di essere d’appoggio alla sorella acquisita nel modo in
cui era capace; aveva parlato a lungo con Kirby O’Neil per farsi illuminare sul
complesso mondo delle turbe mentali. Ma niente di scientificamente acquisito si
sarebbe potuto applicare ad una ragazza che era stata cresciuta da un feroce assassino,
che aveva amato questi come un padre, che aveva passato lunghi mesi della sua
esistenza sotto le sembianze immonde di una feroce bestia ed aveva infine
subito un lungo e invasivo condizionamento mentale. Così, nonostante le
attenzioni di tutti, lei rimaneva nel suo mondo chiuso e desolato, distratta,
lontana.
Con un’unica
eccezione.
Vi era una
presenza nella tana, solo una, che riusciva a raggiungere il suo castello di
carta.
Michelangelo.
Quando non era nella sua camera, la ragazza restava ore attaccata all’arancione,
lo seguiva di stanza in stanza, quasi che solo con la tranquilla allegria del
mutante potesse trovare almeno un po’ di pace dentro di lei. Si sedeva sullo sgabello,
a guardarlo cucinare. Lo seguiva in lavanderia, quando lui faceva il bucato.
Silenziosa e strana, si limitava a guardarlo, e ad ascoltarlo parlare.
E
Michelangelo aveva assunto molto volentieri il ruolo di supporto a questa nuova
sorella. Sembrava molto felice di essere d’aiuto, ed ancor più felice che
qualcuno s’interessasse a ciò che faceva, ascoltasse le sue ciance, gli desse
quell’importanza che lui aveva sempre sentito di dover affermare con forza nel
competitivo mondo familiare con tre fratelli maschi maggiori. Per una volta,
non era lui quello piccolo e debole, quello da aiutare. Per una volta, lui era
la guida.
Le ombre
lasciarono il loro palcoscenico di carta, e si materializzarono nella zona
centrale in molto corporei, e sudati, mutanti che avevano finito l’allenamento.
Chiassosi ed
ansanti, i tre fratelli diedero il buongiorno a Karai e si sedettero sui
gradini, continuando a prendersi in giro ed a commentare la lotta. Michelangelo
terminò in una sonora risata una battuta sagace nei confronti del fratello in viola,
questa volta sconfitto, poi regalò al suo fratello invalido un sorriso, chiedendogli
cosa stesse leggendo.
Leonardo
abbassò lo sguardo al libro di fiabe, ancora sul suo grembo.
“Uh…
niente…” mormorò.
Ma
Michelangelo, ancora euforico di adrenalina, si limitò ad annuire, gentile, e
poi spostò ad altri la sua attenzione. Continuò lo scherzo con Donatello, si
deterse con l’asciugamano che aveva al collo il sudore dal viso, poi si voltò
verso Karai.
Non le disse
niente. La guardò e basta, sempre sorridendo.
La ragazza
si alzò da dove era seduta, si avvicinò al mutante in arancione, e gli si
sedette accanto. Gli occhi di Michelangelo si fecero ancora più luminosi.
Mentre
Splinter stava continuando a spiegare qualcosa a Donatello e Raffaello,
Leonardo seguì con lo sguardo lo spostamento della ragazza. Poi osservò
Michelangelo.
Ed
improvvisamente, si sentì male.
Vi era negli
occhi azzurri del suo fratello più piccolo qualcosa di indefinibile, una specie
di esaltata celebrazione nello sguardo che a sua volta egli rivolgeva a Karai.
C’era come un’onda, un’increspatura dell’animo, qualcosa che Leonardo non si
aspettava di vedere lì. Michelangelo guardava Karai, ma non come un fratello
premuroso avrebbe guardato una sorella in difficoltà, no, lui la guardava come
Leonardo stesso l’aveva sempre guardata.
In quel
momento, il mondo della tartaruga in blu si chiuse e si restrinse ad un puntino,
ed un altro tipo di dolore lo invase. Una vertigine avvolse la stanza.
“…uno gnomo nero e gobbo come un diavoletto.
Innamorato follemente della ragazza, era un rivale pericoloso…”
Leonardo non
sentiva le parole, non prestava attenzione a nient’altro che agli occhi azzurri
del mutante più giovane; questi si muovevano a seguire il discorso tra il
maestro ed i fratelli, poi tornavano fugaci a Karai, si spostavano ancora
quindi tornavano alla ragazza, e posandosi su di lei cambiavano appena
espressione. Si caricavano di un’intensità adulta e bramosa.
Il mutante
in blu scosse la testa, stordito al pensiero. I farmaci, sicuramente i farmaci
stavano distorcendo le sue percezioni, confondendo i suoi sensi. Gli facevano
credere ciò che sicuramente non era, materializzavano paure ed insicurezze in
demoni grotteschi.
L’idea
stessa era talmente assurda da essere quasi inconcepibile! Come poteva immaginare
che suo fratello, il suo piccolo e buffo fratellino, limpido ed ingenuo come un
bambino, provasse per la loro sorella acquisita nient’altro che un puro
affetto? Karai era la figlia di Splinter, la loro sorella maggiore a lungo
perduta e finalmente ritrovata. Lei era adesso la loro famiglia. Ma,
d’altronde, non era lui stesso caduto in quei pensieri incestuosi che adesso
cercava di negare al fratello? Non aveva lui, Leonardo, ammesso ormai a sé
stesso che quello che provava per Karai non era né puro né fraterno? Non aveva
dissuaso Donatello da indagini sul DNA della loro matrice umana, terrorizzato dall’ipotesi
che Splinter, oltre ad averli cresciuti come propri figli, non fosse, per via
del mutageno con cui erano stati tutti a contatto, anche dal punto di vista
genetico in un certo senso loro padre?
Lo
stordimento cresceva incalzante nella sua testa, accelerando il respiro in
rumorosi sibili. Il turbinio delle voci dei fratelli intorno a lui lo stava frastornando.
Il loro scherzare, troppo enfatizzato. Sentiva la testa martellargli, calda,
come sotto l’effetto di una forte febbre. Le risate, trascinate un po’ troppo, erano
insopportabili. Le loro bocche, così rumorose. I loro sguardi, gettati verso di
lui, nel patetico tentativo di coinvolgerlo, così fastidiosi; il loro odore di
sudore, e Karai accanto a Mikey, e suo padre, in piedi bonario, ed ancora voci
e voci e voci, come lo stridere di unghie sulla lavagna, e la loro presenza, invadente,
pesante, quasi a premere sul petto, togliendogli l’aria, e rumori, rimbombi,
boati lontani, suoni distorti, voci voci voci…
Lampi, e pioggia…
Il sangue. Il dolore. Lo slancio, sulla gamba
rimasta. La sua katana, impugnata a due mani, a trafiggere l’occhio del nemico,
che lo guardava, stupito. Il ferro dentro le cervella molle.
Il rombo del tuono.
“Basta!”
Tutti
congelarono, al suo urlo, e si girarono a guardarlo.
Leonardo si
prese la testa tra le mani. Goccioline di sudore si erano condensate sulla sua
fronte. Trasse un profondo respiro, poi tolse le mani, e si guardò intorno. I
suoi familiari lo fissavano, in silenzio, allarmati.
“Cose
succede, Leo?” chiede Donatello, alzandosi in piedi e dirigendosi verso di lui.
No! L’ultima
cosa che voleva in quel momento Leonardo era farsi visitare dal fratello. Come
un caso clinico, come uno dei suoi esperimenti su un vetrino. Continuare ad
essere il suo paziente ammalato, il povero guerriero caduto, il soldatino nella
scatola con una gamba sola, l’essere debole da curare, e compatire. Continuare
a suscitare la sua pietà. Lontano, doveva stare lontano…
Tese le
braccia davanti a sé.
“Niente”
rispose, ancora leggermente ansimante. Il suono della sua voce lo riportò alla
realtà rammentandogli chi fosse, o meglio, chi fosse stato. Leonardo, il
leader, il guerriero, il fratello maggiore. Provò senso di colpa e vergogna,
disgusto di sé stesso per aver ancora una volta fatto preoccupare la sua
famiglia, per essersi comportato da malato, da debole, da folle.
“Io, io sono
solo stanco… – cercò le stampelle, ai suoi fianchi, le afferrò con foga – Ho
solo bisogno… bisogno…” Armeggiò per mettersi in piedi, il dolore s’irradiò dal
moncone per tutto il corpo, quando lo mosse. Goffamente, cercando di
bilanciarsi, traballante. Ridicolo.
Donatello si
era fermato ad un passo da lui; adesso anche Michelangelo e Raffaello l’avevano
raggiunto.
“Solo… devo
solo riposare un po’…” mormorò, più a sé stesso che a loro. Gamba, stampelle,
gamba, nel difficile compito di salire il gradino, bilanciando il corpo, che
sembrava sempre voler cadere, mentre l’istinto gli suggeriva un appoggio che
non c’era più, che non ci sarebbe più stato, per salire questi due maledetti
gradini, adesso troppo alti, troppo scomodi.
Mentre si
allontanava, poteva immaginare dietro di sé gli sguardi scambiati tra di loro
dai fratelli, e quello abbassato di suo padre, poteva sentire dietro la sua
nuca la loro compassione; ma ciò che gli bruciava il petto come fuoco, era lo
sguardo morbido e dimesso, spaventato e confuso dei marroni occhi umani, che probabilmente
non erano rivolti verso di lui.