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Autore: Gondolin    12/01/2009    3 recensioni
Non esistono bene e male, qui. Le sfumature sono troppe, e il nero prevale su tutte.
Non esiste giustizia. C'è solo una sfida per la sopravvivenza.
Keith e Toleph, il disprezzo per la vita. Lada, l'incoscienza di chi ancora non ha visto l'abisso. Dieliah e La Strega, l'odio che ha radici profonde. Fenrir, il padre dei Licantropi.
Che vinca il più forte.
Che vinca il più crudele.
[regalo di Natale per muztco. Non chiedetemi Natale di che anno, però. Il ritardo è il mio mestiere, i Lycan un po' meno, quindi mi auguro che siano venuti bene]
Aggiunto CAPITOLO BONUS riguardante fatti antecedenti la storia (che proseguirà, non abbiate timore!).
Genere: Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Lycan Chronicles




Questa storia è stata scritta per la mia amica muztco, e il suo unico scopo è di divertire me e lei e chiunque altri la voglia leggere. Anche se vi sono riferimenti a luoghi e avvenimenti reali, dai quali ho tratto ispirazione, i dati sono del tutti imprecisi dal punto di vista storico e geografico e mi servono solo come pretesti per narrare una storia di lupi mannari.

I personaggi sono tutti di mia invenzione, quindi di mia proprietà, ma se volete usarli siete liberi di farlo (dubito che a qualcuno interessi riciclare 'sti tizi, ma non si sa mai...) basta che me lo facciate sapere.

Le citazioni sono la mia ultima fissa. Spero che gli sproloqui di proprietà altrui in cima ai capitoletti non vi turbino.



Parte Prima





Cada la tua spada senza filo, dispera e muori!”

William Shakespeare – Riccardo III



Il sole già iniziava a calare sulla piana sconvolta dalla battaglia, ma l'intensità dello scontro non diminuiva. L'ala destra dell'esercito romano era stata ormai quasi annientata dalla cavalleria cartaginese, mentre il centro e l'ala sinistra ancora reggevano contro i temibili elefanti di Annibale. I legionari non si lasciavano spaventare tanto facilmente, e di quei bestioni in Italia se n'erano già visti al tempo di Pirro. Eppure iniziavano a stancarsi di quel nemico dalle risorse apparentemente illimitate. Per ogni cartaginese ucciso sembravano spuntarne altri due.

Il centurione Aemilius, uno dei pochi ufficiali rimasi in vita nell'ala destra, però non aveva smesso di combattere con foga e di incitare i suoi, ormai decimati, a resistere ancora. Per un soldato romano la sconfitta non esisteva, ed egli era un vero legionario, un uomo duro, temprato da un'infanzia di lavoro nei campi e da una giovinezza segnata da mille battaglie.

-Per tutti gli dei! Voglio vedere il colore delle loro budella!- urlò. Era ormai una giornata intera che gridava ordini, e aveva la gola riarsa e bruciante. La voce di un ufficiale era come un'arma: doveva essere ben affilata per superare il fragore assordante della battaglia, il cozzo metallico e ininterrotto delle armi, l'urto degli scudi, le stridule grida dei morenti.

Gli uomini attorno a lui avanzarono di qualche passo con la forza della disperazione, facendosi largo tra una moltitudine di nemici. Il terreno sotto i loro piedi era scivoloso per il sangue versato. Aemilius spinse in avanti la spada con forza, conficcando la corta lama nel ventre di un cartaginese poco più alto di lui. Aveva tutti i muscoli indolenziti e non sentiva più il braccio sinistro, che reggeva lo scudo. La corazza gli pesava sulle spalle sfregandogli dolorosamente la pelle, ma non ci faceva caso. L'unica cosa che contava era farsi uccidere decentemente. Perché, per quanto poco onorevole fosse non avere fiducia nella perfetta macchina da guerra romana, un uomo sensato come lui si poteva facilmente rendere conto della loro disperata situazione. Un nemico gli venne incontro con la spada puntata dritta al cuore, ma Aemilius riuscì a scansarsi. La mischia però gli impedì di evitare del tutto il colpo, che lo colse ad una spalla. Rovinò addosso ad un compagno, ma questi riuscì a restare in piedi e a proteggerlo dal colpo che giungeva per finirlo. Mentre si rialzava dal fango, il centurione lo ringraziò: -Ti devo la vita, Marcus.-

Conosceva i suoi uomini uno per uno, ne ricordava i nomi sin dal primo giorno in cui era stato assegnato al loro comando. Erano tutti come fratelli, e nel corso degli anni si erano salvati più volte la vita a vicenda. Per quanto alcuni del gruppo originale fossero morti, mai si era vista una carneficina come quella che si stava svolgendo quel giorno a Canne.

-Non ce la facciamo, signore!- gridò disperato Iulius, uno dei più giovani, che combatteva alla sinistra di Aemilius.

-Ce la dobbiamo fare- ribatté cupo il centurione, parando un colpo con lo scudo. Il sangue usciva copioso dalla ferita alla spalla destra e la spada gli sembrava pesantissima; ciononostante alzò l'arma per difendersi da un nuovo attacco del cartaginese. L'uomo sembrava stanco quanto lui, e questo gli diede la possibilità di difendersi. Marcus, alla sua sinistra, staccò di netto il braccio all'uomo.

-Iulius ha ragione, signore- gridò il soldato, tentando di coprire le grida dell'uomo a cui aveva mozzato il braccio -Non siamo più in grado di combattere.-

-Un romano non si arrende!- ringhiò Aemilius, sbattendo di taglio lo scudo sotto il mento di un nemico e spaccandogli la mascella. Accanto a lui, i suoi uomini resistevano come potevano, combattendo come leoni. Erano dei valorosi, indomiti e fedeli a Roma e al loro centurione. Aemilius, ritrovò nelle sue stesse parole energia per resistere. -Un romano non si arrende!- ripeté.

I suoi risposero con un ruggito levarono alte le loro grida di battaglia -Per Roma!- e -Per la gloria, per la vittoria!- e ancora -Ammazziamo questi cani!- ma soprattutto urlarono: -Onore alla settima legione!- e ripeterono più volte le loro grida, scandendo una parola per ogni colpo dato o parato. -Onore- stoccata -alla- parata -settima- affondo -legione!-

Proprio mentre sembrava che le cose iniziassero a migliorare giunsero dalla parte opposta del campo di battaglia le grida di vittoria del cartaginesi. Paura e scoraggiamento presero possesso anche dei cuori più valorosi, e ovunque nella piana i romani iniziarono ad arretrare. Ma anche in quel momento il perfetto addestramento dei legionari stava salvando la vita a molti di loro: ancora nessuno si era dato disordinatamente alla fuga, volgendo le spalle al nemico e provocando in questo modo una carneficina.

Il centurione Aemilius piantò saldamente i piedi a terra, deciso a non cedere un solo palmo di terra. -Soldati!- chiamò, senza smettere per un attimo di combattere -La battaglia non è ancora persa! E se anche questa battaglia dovesse essere perduta, noi non saremo qui a fare da testimoni ad una sconfitta di Roma! Che la nostra vittoria sia celebrata in tutto l'impero o che la nostra morte sia ricordata attraverso i secoli!-

Non ci furono grida quella volta. Solo il mortifero fragore delle spade accolse le parole di Aemilius. Un colpo di spada si andò ad infrangere contro il suo elmo, lasciandolo stordito per qualche secondo. Si portò istintivamente lo scudo davanti al volto, e ciò gli salvò la vita, poiché un nemico aveva alzato la lunga lama per staccargli la testa. Ignorando la carne lacerata della spalla che ululava di dolore, alzò la spada per attaccare, e tracciò con la punta un segno rosso sul braccio del suo assalitore. Parò un colpo ed attaccò nuovamente, avanzando di un passo per darsi maggior slancio, e infilò la lama nella gola del nemico. Non ebbe però forza sufficiente a tenere la spada, che cadde insieme al corpo nel quale era infilzata.

-Vi difendiamo noi, signore- affermò il giovane Iulius, accorgendosi dell'accaduto. I soldati si strinsero maggiormente attorno al loro comandante, ma ciò non impedì il disastro che incombeva su tutti loro. Uno alla volta furono feriti, uccisi o disarmati. Anche con le loro ultime forze continuarono a combattere, raccogliendo da terra le armi dei caduti, inciampando nei cadaveri dei compagni, sanguinando da numerose ferite.

Aemilius si reggeva in piedi per miracolo, protetto dagli ultimi della sua centuria, quando un uomo piuttosto basso si gettò letteralmente su di lui tenendo la spada come un pugnale. Lo colpì in pieno petto. Il centurione capì di essere spacciato nell'istante il cui sentì la punta della spada toccare la sua corazza. Poi un dolore lancinante, non molto diverso da quello di molte altre ferite, gli morse la carne. Per un momento credette di essere morto e gli si mozzò il respiro, ma fece in tempo a cadere all'indietro e ad accasciarsi a terra prima che l'oscurità calasse su di lui.











I am a little more provocative than you might be, and there's your shock 'n' then your horror on which I feed, so can you tell me what exactly does freedom mean, if I'm not free to be as twisted as I wanna be?”

Disturbed – Divide



A prima vista Keith Morrison era il tipico ragazzo ricco e spocchioso, abituato a comandare e ad essere ubbidito. E questa immagine superficiale era nello stesso tempo molto lontana e molto vicina rispetto alla realtà. Era davvero abbastanza viziato, ma non così tanto da non rendersi conto di esserlo. La tendenza delle persone a fare ciò che diceva era data tanto dai suoi soldi quanto dal suo innegabile fascino. A vent'anni compiuti da poco, Keith era al massimo del suo splendore. Era alto e piuttosto muscoloso, ma non era imponente né aveva l'aria da culturista. I capelli biondo cenere erano sempre sapientemente spettinati, e alcuni ciuffi gli ricadevano sulla fronte ampia. Solitamente si vestiva in modo molto trasandato e si ribellava a tutte le convenzioni sociali. Amava scandalizzare e si divertiva a scoprire quale profondo orrore potessero suscitare comportamenti anche solo di poco fuori dalla norma.

Il padre non gli imponeva regole. Mugugnava e sbuffava ogni volta che doveva dargli dei soldi, che Keith riusciva a spendere a velocità spaventosa, e si arrabbiava un po' quando doveva tirarlo fuori dai guai o andare a recuperarlo in giro dopo qualche bevuta eccessiva, ma per il resto evitava di immischiarsi nella vita del figlio.

Fortunatamente, fino a quando Keith aveva avuto sedici anni sua madre si era occupata di lui con una certa severità, e gli aveva insegnato un po' di disciplina e l'aveva fatto studiare. Con la morte della madre il ragazzo aveva perso la disciplina ma non l'amore per lo studio. Era incostante, ma aveva una mente brillante e molta curiosità. Conosceva le scienze naturali, sapeva suonare perfettamente pianoforte e sassofono, stava studiando chitarra, era dotato per la matematica, conosceva a menadito la storia e parlava correntemente inglese, italiano, francese e russo. Se la cavava decentemente col latino e si le sue ultime passioni erano il giapponese e il disegno.

Conosceva praticamente tutta Londra, ma aveva pochissimi amici. Anzi, forse aveva un solo vero amico, Toleph. Gli era stato accanto sin da quando Keith aveva memoria, e probabilmente lavorava per la sua famiglia da prima che lui nascesse, anche se all'apparenza non dimostrava più di trentacinque anni.

Toleph era un tipo davvero singolare, a cominciare dal nome. Non esisteva in nessuna lingua, se l'era inventato lui. Inoltre era l'unico lycan immortale di cui si avesse notizia dopo i figli di Fenrir, dei quali si erano perse le tracce nella notte dei tempi, quando ancora gli dei pagani regnavano su gran parte del mondo.

Il padre di Keith l'aveva scovato in una palestra di boxe clandestina completamente fatto e pronto a battersi con un tizio grosso come un armadio. Il perché un rispettabile uomo d'affari si trovasse in un luogo simile era presto spiegato: il signor Morrison era in realtà un uomo di fiducia tanto della mafia russa quanto di quella italiana. Oltre che per i criminali, la sua famiglia era un punto di riferimento per tutti i lycan del paese, soprattutto per quelli che non si facevano troppi scrupoli ad ammazzare. Una volta assunta la forma di lupo non si lasciano impronte digitali né tracce in alcun modo riconducibili ad un essere umano, quindi il signor Morrison aveva deciso di sfruttare la cosa a proprio vantaggio. Da ragazzo si era fatto strada partendo dal basso, poi aveva pian piano costruito la sua organizzazione. Da anni non si sporcava più le mani di persona.

L'ultima volta che l'aveva fatto era stato per vendicare la morte della moglie. Lei era umana, e non era stato difficile ucciderla, per quanto protetta da numerose guardie del corpo. Neppure trovare i suoi assassini e i mandanti dell'omicidio era stato difficile per il signor Morrison. Conosceva bene tutte le famiglie più potenti. Per alcune egli era uno dei killer che tenevano sul libro paga, mentre per altre era un grave pericolo. Colpire uno dei suoi familiari era un avvertimento classico, ma il padre di Keith aveva sempre sospettato che ci fosse stato qualcos'altro dietro.



Gimme fuel, gimme fire, gimme that which I desire!”

Metallica – Fuel



Keith si lasciò cadere sul sedile anteriore della limousine e sogghignò. Tol alzò gli occhi al cielo -Cosa hai intenzione di combinare oggi?-

-Oggi nulla- rispose innocentemente il ragazzo -Ma pensavo di fare un viaggetto in Italia.-

-Tuo padre non te lo permetterà mai- rispose laconico Toleph.

-Per questo ho bisogno del tuo aiuto- fece Keith con un sorrisetto furbo, avvicinandosi a Tol per sussurrare come se qualcuno avesse potuto sentirli -Di te si fida.-

-E di te, giustamente, no.-

-Appunto...- ammise Keith -Quindi tu mi devi aiutare. E poi naturalmente verrai con me.-

-Ascolta, a volte tuo padre è iperprotettivo, ma sul fatto di andare in Italia credo che abbia ragione. Lo sai che là si è fatto nemici potenti- cercò di farlo ragionare Toleph.

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo -Non mi metterò nei guai stavolta, te lo prometto. Non ho intenzione di farmi ammazzare, ma non voglio che la paura mi impedisca di vivere la mia vita. E poi- aggiunse con un altro sorriso dei suoi -A chi verrebbe mai in mente di usare proiettili d'argento per far fuori il figlio di un killer?-

-Tuo padre ha sempre sospettato che ci fossero dei vampiri dietro l'omicidio di tua madre. Se fosse vero saprebbero perfettamente come farci fuori.-

Ma per quanto si sforzasse, Tol non riusciva a fare il duro a lungo con quel ragazzo, e non riusciva ad essere severo come avrebbe voluto. Lo aveva visto nascere e crescere, lo aveva tenuto sulle ginocchia quando ancora non camminava, aveva ascoltato i suoi primi balbettii incoerenti; era stato per lui come un padre, e tutto il suo contegno militaresco andava a farsi benedire ogni volta che Keith tirava fuori una delle sue folli idee con quel sorrisetto furbo che sembrava dire: “Sarà terribilmente divertente!”

In mezz'ora Toleph si trovò a promettere di mentire al signor Morrison e di accompagnare Keith in Italia.









Lunga e diritta correva la via...”

Francesco Guccini – Canzone per un'amica



L'autostrada si stendeva come un infinito nastro grigio d'asfalto. Lada guidava senza fretta, cantando a squarciagola le sue canzoni preferite dei Manowar, che si era copiata su cassetta apposta per il viaggio. Il suo magro stipendio le serviva per mantenersi all'università, e già era tanto se si era potuta permettere una macchina usata e piuttosto male in arnese: un'autoradio con lettore CD era fuori discussione. Forse fare tutto il viaggio dall'Inghilterra in auto non era stata un'idea geniale per quel povero vecchio motore, ma a Lada non piacevano gli aerei e gli aeroporti, e poi ne aveva approfittato per fare alcune soste in giro per l'Europa. Doveva ammettere che, per quanto le facesse piacere tornare a trovare i genitori e gli amici d'infanzia, quell'estate le era venuta voglia di viaggiare all'avventura. E la sua dose di viaggio avventuroso e disorganizzato per le capitali europee se l'era appena gustata; era pronta a rilassarsi.

La grigia nebbiolina che le aveva tenuto compagnia dall'inizio del viaggio si mischiò ad una pioggia sottile ed insistente quando raggiunse la Puglia. Era mai possibile che ogni volta che tornava nella sua terra natale questa dovesse momentaneamente assumere il clima londinese? Lada sbuffò, stringendo più forte le mani sul volante per il nervosismo. Lei a Londra ci studiava, ed era diventata casa sua, ma tornare in Puglia le piaceva. C'era solo quel maledetto dettaglio del clima che sembrava volerla prendere in giro.

Come se la natura non mi avesse fatto già abbastanza scherzi” rifletté rabbiosamente. Cercò di scacciare il pensiero, ma più ci provava e più sentiva la furia crescere in lei, come sempre. Non era una tipa collerica, ma c'era quell'unico argomento che la mandava davvero fuori di testa.

Respirò profondamente. Dopo vent'anni avrebbe anche potuto smetterla di prendersela tanto, ma essere un licantropo non era una cosa che le sembrava di poter mandare giù tanto facilmente. Già normalmente era una ragazza piuttosto impulsiva, come del resto quasi tutti i giovani, ma quando diventava un lupo la sua tendenza a cacciarsi nei guai aumentava in maniera preoccupante. E si trasformava quando era arrabbiata. Probabilmente accadeva perché il suo corpo si preparava reagire ad eventuali attacchi, ma non poteva sbranare sua madre solo perché le ordinava di mettere in ordine la stanza, o un professore solo perché era severo.

Per quanto cercasse di evitarlo però, era una chiamata radicata in lei troppo profondamente perché potesse permettersi di ignorarla. E Lada questa tirannia sulla sua vita proprio non la poteva soffrire.

Cercò di concentrarsi su qualcos'altro, come per esempio l'assurdo rosa di cui si era tinta le punte dei capelli e l'urgenza di trovare un parrucchiere. O su quale fra i mille golosi piatti della cucina barese le avrebbe fatto trovare la madre per cena. Dopo qualche attimo tornò a canticchiare rilassata, filando sulla strada semi deserta e ignorando la pioggia.









Dei Licantropi

Un giorno Fenrir, si invaghì di una fanciulla di stirpe mortale, e chiese a Odino di donargli per un giorno forma umana. Il dio esaudì il suo desiderio, e per una giornata intera il lupo corteggiò la fanciulla. Quando finalmente questa gli si concesse, il giorno era quasi trascorso, e Fenrir iniziò a mutare la sua forma mentre si giaceva con lei. Egli fuggì prima che la trasformazione fosse completata. Chiese a Odino di poter tornare nuovamente da lei, ma questi non acconsentì. Gli dei infatti avevano iniziato a temere Fenrir a causa della sua immensa forza, e tramavano contro di lui. Essi intendevano imprigionarlo con una corda magica, all'apparenza simile ad un nastro di seta. Fenrir però non era a conoscenza dei loro piani e non capì perché Odino gli rifiutasse il favore. Per giorni vagò furibondo per i boschi, non sapendo cosa fare, finché non incontrò una creatura strana, dall'aspetto fragile e malato, che gli disse d'essere una strega figlia di antichi dei e di poterlo aiutare. Essa era la prima della stirpe dei vampiri, e la causa della nostra perpetua inimicizia. Essa lo ingannò ed egli non rivide mai più la sua amata. Ciò che non sapeva era che ella aveva concepito un figlio, proprio nel momento in cui egli iniziava a trasformarsi. Per questo possiamo mutare la nostra forma. Nulla ha a che vedere con noi la luna, simbolo della Dea, alla quale sono devoti i nostri eterni nemici.







Mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino...”

Francesco Guccini - L'avvelenata



Bari era completamente diversa da qualunque altra città si potesse immaginare. Era una grande e ambigua folle alla quale era difficile sottrarsi. Sul lungomare, file di eleganti edifici guardavano fieri verso il mare, dritti nella loro imponente e marmorea bellezza, cullati dallo sciabordio delle onde. Nell'interno invece enormi palazzoni sbucavano dal nulla in mezzo a casupole basse e a strade piene di immondizie come doni votivi a quei giganti di cemento armato. Come in ogni grande città, non esisteva il silenzio, ma a Bari i rumori avevano una consistenza diversa. La folla in perenne movimento era tutto un vociare; non si trattava però di un mormorio indistinto ma di un insieme di grida quasi armoniche nella loro insensata e stridula lotta per il dominio dei canali uditivi dei passanti. Ma ciò che ci interessa in questa storia è specialmente un piccolo locale un po' fuori mano. La periferia poteva non essere un bel posto, ma i veri cuoi neri di Bari erano il quartiere San Paolo e Bari Vecchia, il centro della città, la parte che in ogni altro posto è la più ambita e la più raffinata.

Il locale non era molto più che un piccolo bar con musica dal vivo, suonata da un paio di gruppi di ragazzi della zona, ma per Lada era un piccolo paradiso. Conosceva il gestore e le due cameriere. Lei stessa aveva lavorato lì per un breve periodo e chiamava per nome tutti i clienti abituali. Era stato uno dei primi posti “trasgressivi” dove era stata da ragazzina, il primo locale in cui le era stato permesso di mettere piede dopo il tramonto, perché anche i suoi lo conoscevano. Così, il giorno dopo il suo arrivo, Lada si era fiondata al Blue Wolf. Il nome era piuttosto assurdo e pretenzioso, e il riferimento ai lupi faceva sempre rabbrividire la ragazza.

Dopo aver salutato tutti quelli che conosceva, Lada notò due tizi che sembravano decisamente fuori posto. Passando loro accanto notò che parlavano inglese, e pensò che dovevano essere dei turisti. Certo però che quel locale era tutto fuorché turistico.



There's a devil waiting outside your door.”

Metallica - Loverman



Keith si voltò per un attimo verso la porta. La ragazza che era appena entrata non lo vide neppure, ma lui rimase a fissarla per un momento. -Tol- borbottò aggrottando le sopracciglia -Quella ragazza...-

-Ha dato anche a te una strana sensazione?- Il giovane annuì e Toleph ridacchiò -Allora non le stavi solo guardando le tette.-

-Non fare lo scemo! E poi anche se fosse carina, sotto quei vestiti da barbona, non si vedrebbe.-

-Parla quello che all'ultimo ricevimento di suo padre si è presentato in ciabatte- ribatté Tol, appoggiandosi allo schienale della sedia e sorseggiando la sua birra.

-Ma sopra avevo lo smoking- sghignazzò Keith -E poi faceva caldo- aggiunse, come se si fosse trattato di una spiegazione perfettamente razionale. Sapevano bene entrambi che in realtà Keith amava provocare e il caldo era stata solo una scusa. -Comunque, tornando a quella tizia...-

-Sì, è una di noi- lo interruppe Toleph.

-Come fai ad esserne certo?- chiese Keith sospettoso. L'altro non gli rispose e il ragazzo alzò gli occhi al cielo -Non è possibile, tu sei sempre un passo avanti rispetto a noi comuni mortali!- si lamentò invidioso.

Tol mise su una falsa aria di superiorità, poi ridacchiò -Io ti definirei tutto fuorché un comune mortale, Keith.-

  
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