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Autore: but honestly    04/07/2015    3 recensioni
Mi guardai intorno. Avanzai ancora di un passo. «Cheryl, sei qui?» domandai ancora. Il corridoio si faceva più buio e tetro mano a mano che mi facevo prossimo alla parte finale. Un tempo mi avrebbe impressionato così tanto da provocarmi violenti brividi e, perché no, anche corse sfrenate del cuore caricato dall’adrenalina; ma ormai ero così abituato a trascorrere lì le mie giornate in cerca di una traccia che, in fondo, quasi non facevo più caso a quanto potesse risultare spettrale.
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tre e dodici del mattino. I microfoni erano stati sistemati tutti, come anche le telecamere proiettate verso ogni lato dell’angusto spazio che le ospitava. L’ultimo attrezzo posizionato era stato il registratore, adagiato su un supporto  a sostegno; il display mostrava la scritta “record” lampeggiante al di sopra di un timer: simbolo che tutto stava procedendo regolarmente.
 
Camminai in avanti. Il corridoio si faceva più stretto, la  moquette rossa più sbiadita e impolverata, il pavimento ligneo scricchiolava lentamente sotto i miei passi dosati. Improvvisamente era calato un silenzio quasi spettrale, potevo sentire il mio respiro regolare risuonare nella mia mente come un eco indistinto.
Avevo percorso quella stessa – breve –  distanza almeno un migliaio di volte, in cerca di una voce, un volto, un bagliore sinistro: una manifestazione qualunque che potesse darmi prova della sua esistenza. L’esistenza di Cheryl. La cercavo da così tanto che quasi non ricordavo quand’era che avevo cominciato.
«Sei qui?» la mia voce esitante risuonò nell’ambiente opprimente che mi circondava (o forse sarebbe stato meglio dire: che mi schiacciava, mi annientava), sbattè contro le pareti e tornò indietro.
 
Il nastro del registratore gracchiò sensibilmente.
 
Mi guardai intorno. Avanzai ancora di un passo. «Cheryl, sei qui?» domandai ancora. Il corridoio si faceva più buio e tetro mano a mano che mi facevo prossimo alla parte finale. Un tempo mi avrebbe impressionato così tanto da provocarmi violenti brividi e, perché no, anche corse sfrenate del cuore caricato dall’adrenalina; ma ormai ero così abituato a trascorrere lì le mie giornate in cerca di una traccia che, in fondo, quasi non facevo più caso a quanto potesse risultare spettrale. Il mio unico interesse era interagire con lei, sentire la sua voce e, soprattutto, capire per quale motivo era lì. «Mi riconosci? Sono Steven. Steven Stacy.» sorrisi, quindi sollevai la mano e l’agitai appena, in un cenno di saluto «Abbiamo parlato tante volte, noi due.». Nessuna risposta.
Ma non mi stupii. Cheryl non era mai stata particolarmente loquace. Avevo sondato il reticolo di corridoi bui e abbandonati di quel vecchio albergo per anni, in cerca di un segnale che provasse la sua esistenza, ancor prima di poterla chiamare per nome. Era tutto cominciato con un singhiozzo sommesso, un lamento appena percettibile. Non ricordo esattamente per quale motivo fossi lì, quel giorno. Tutto ciò che rammento con chiarezza è il momento in cui la intravidi: piccola e sola, celata dalla penombra di una tenda impolverata. Era poco più che un’ombra scura, ma i contorni definiti sembravano ritagliare la sagoma di una bambina. Era svanita poco dopo e, da allora, non avevo smesso di tormentarmi. Qualunque cosa fosse, qualunque creatura volesse manifestarsi, aveva un evidente bisogno d’aiuto che nessuno, fino a quel momento, le aveva fornito. E questa consapevolezza mi ossessionava così tanto da star male.
Era stato allora che avevo cominciato a cercarla. Quanto tempo era passato? Dovevo trovarla, dovevo provare a me stesso che ciò che avevo visto era reale.
Perché questo avrebbe cambiato tutto.
«Mi hai detto che ti piace giocare. Vorresti dirmi qual è il tuo gioco preferito?»
Poi, un giorno, l’avevo sentita. La sua voce. Era una voce acuta e sottile, appena percettibile nell’aria. E diceva solo un nome: Cheryl. L’aveva ripetuto per giorni, sempre dallo stesso punto, sempre in quello stesso corridoio, assieme a tante altre frasi sconnesse che non ero mai riuscito a decifrare del tutto. Parlava di giochi, di sua madre, ma erano tutte frasi tronche, mutile di parti che non riuscivo a percepire. Tutto ciò che mi appariva chiaro, in realtà,  era quel nome: Cheryl.
«Così la prossima volta potremo giocarci insieme. » feci un altro passo avanti.
 
Il nastro gracchiò di nuovo.
 
«Cheryl?» ancora qualche passo avanti. La temperatura sembrò abbassarsi di colpo. Mi stavo avvicinando all’epicentro dell’attività paranormale che mi ostinavo a studiare con tanta dedizione. Una parte di me era convinta che, in fondo a quel corridoio, prima o poi, l’avrei trovata ancora: piccola e mormorante, a spiarmi dietro un drappeggio rosso e intriso di polvere.
Ormai il buio mi aveva inghiottito, ma questo non mi impedì di procedere oltre. Conoscevo così bene quel piano che avrei potuto orientarmi ad occhi chiusi. Trascorrevo lì dentro le mie intere giornate, era tutto così familiare, per me, che avrei potuto dire di conoscerlo da sempre.
 
«Steven.»
Un soffio d’aria gelida mi sfiorò il volto. Mi sentii congelare. Raddrizzai la spina dorsale, irrigidito. «Steve… Steven.»  Qualcosa di ancor più freddo mi accarezzò la mano; era lei, ormai ne ero sicuro. Sorrisi, sincero, senza neanche rendermene conto.
«Sono qui!»
«Parla… con… me.».
Schiusi le labbra per parlare e un sapore ferroso mi riempì la bocca, mentre l’aria era pervasa d’elettricità. Doveva essere davanti a me, anche se non potevo vederla l’avvertivo, la sentivo vicina, così vicina da poterla toccare. Cheryl. Allungai la mano in avanti, senza sapere a cosa stavo effettivamente andando incontro, nel tentativo di stabilire, finalmente, un contatto. Un flash m’investì in pieno e, d’un tratto, fui come cieco e mi sentii incredibilmente stanco, come se tutta la mia energia fosse stata risucchiata via dal mio corpo. Barcollai. Cercai di articolare le parole, ma avevo la bocca impastata e intorpidita. Tutto ciò che fuoriuscì dalla mia gola riarsa fu un lamento sommesso e indecifrabile.
 
Il nastro scattò di nuovo.
 
«Abbiamo qualcosa! Ragazzi, abbiamo qualcosa!» esclamò Ronnie, in preda all’esaltazione, sollevando con cura il registratore e fermando il nastro con uno scatto secco del pulsante rosso in alto. Allison e Gary lo raggiunsero poco dopo, con dei sorrisi raggianti, barcamenandosi tra i numerosi cavi delle apparecchiature con le quali avevano disseminato quello stretto corridoio del terzo piano per catturare file audio-video di presenze paranormali. Insieme al resto della troupe, si allontanarono dal set che avevano allestito e si diressero verso Thomas, il tecnico, che era rimasto in una delle camere a monitorare tutto con delle telecamere connesse al suo portatile. Fu lui a scaricare il file audio ottenuto sul suo hardisk per permettere a tutti di riascoltarlo. «Fate silenzio, ragazzi,» ammonì preventivamente «E’ per questo che abbiamo lavorato fino ad oggi.». Poi avviò la riproduzione.
 
Si sentirono scricchiolii di passi, un gracchiare fastidioso e prolungato. Per un attimo, Allison dovette temere di aver fatto un ennesimo buco nell’acqua a causa dei disturbi acustici provocati dai microfoni posizionati male. Trattennero tutti il respiro, tutti quanti, per un lungo minuto.
Poi, tra le interferenze, si udì chiaramente una voce invocare il nome di qualcuno. Un nome che tutti conoscevano bene. Ci fu un applauso concitato, Ronnie strinse tra le sue braccia sua figlia di dieci anni e le stampò un bacio sulla fronte.
Thomas si passò le mani tra i capelli neri, il cuore gli batteva così forte che pareva sul punto di scoppiare e dovette prendere un profondo respiro per calmarsi.
 
«Andiamo a brindare di sotto,» propose poi Allison, che già aveva varcato la soglia della porta «Poi torneremo a sistemare le attrezzature.». L’intero gruppo di ricerca uscì dalla stanza, dirigendosi rumorosamente verso le scale che conducevano al piano inferiore.
«Credi che sia possibile?» domandò Gary a Ronnie, visibilmente scosso: era così impressionato che le dita delle mani gli tremavano senza che potesse darsi un contegno «Voglio dire… credi che fosse consapevole della nostra presenza lì? E’ vero che tua figlia ha delle doti comunicative eccezionali ma…» si passò nervosamente una mano al mento, sfregandoselo con decisione «…qualunque cosa quella voce fosse, se questo è tutto ciò che abbiamo ricevuto tramite il contatto, che percezione avrà avuto di noi?».
L’uomo si aggiustò il cappello da baseball che aveva in testa e scrollò le spalle, con un sorriso soddisfatto sul volto barbuto. «Non lo so, Gary. Io ho visto fare a quella bambina la stessa cosa che hai visto anche tu.» liquidò la questione con naturalezza, sollevando lo sguardo verso il soffitto scrostato. Posò il piede sul primo gradino, ma si voltò ancora, prima di proseguire. «Forse ha avvertito una voce, un volto. Magari stava passando di lì per caso e si è incuriosito.» si lasciò sfuggire una risata «Ehi, magari noi siamo i suoi inspiegabili fantasmi.».
Tutti gli studiosi abbandonarono il piano e il loro chiacchiericcio confuso si dissolse nell’aria. L’unico suono percettibile proveniva dal computer ancora acceso, che rimase in riproduzione su quel nastro gracchiante per un altro lungo minuto.
 
«Sei… qui? Cheryl?»

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Note finali: anzitutto, grazie mille per aver letto questa storia! L'idea mi è venuta dopo essermi documentata a proposito della Queen Mary, una nave infestata da spettri ubicata a Los Angeles. La domanda alla base del lavoro è "come ci percepiscono i fantasmi?". Spero che vi sia gradita. A presto!  
   
 
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