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Autore: BlueWhatsername    09/07/2015    4 recensioni
" [...] Liam sospirò, divertito. E scosse il capo, senza proferire risposta; sorseggiò ancora il vino, facendosi scorrere sulle labbra l’acre sapore fruttato che faceva da retrogusto. Perché spiegarglielo? L’avrebbe capito da sola, prima o poi.
Tanto valeva aspettare che quella luce bruciasse anche lei: calda come il fuoco, incandescente come il Sole. "
****
With true love and affection xxx
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Liam Payne, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*toglie le ragnatele dal profilo*
*si fa spazio tra il disordine*
*saluta tutti cercando di schivare qualche mattone*

NON FATE LA ANTIPATICHE, DANNAZIONE T_T
*si schiarisce la voce*
10.025 parole – esclusa questa nota – scaturite da tante idee confuse e quel tempo che mi sono ripresa per poter tornare a fare quel che volevo e che mi piaceva. So, here I am.
Non so quante ancora avranno voglia di leggere qualcosa di mio e quante vorranno invece prendermi a parolacce (non sarebbe una novità), btw sono qua *agita la mano saltellando*
Non metterò dediche o altro, preferisco che la simbologia (sì, avete letto benissimo) rimanga tale, perché io so che chi deve capire, capisce <3
Sì, insomma, sono qua. Sono io. Non potevo proprio lasciare questo profilo a marcire, le storie incomplete e quant’altro, e… Beh, insomma,
BLUE’S BACK.
Vorrei poter ringraziare a modo mio ogni singola persona che mi ha aiutato in questo… Percorso. Vorrei poter dire ad ognuna di loro quanto abbiano fatto per me.
Ma penso loro sappiano quanto le ringrazio e quanto io voglia loro bene <3
(Si riconosceranno in queste parole, lo so)
E quindi niente, mi avete riconosciuta dalle note scleranti, mh? LOL

BLUE’S BAAAAACK.
 
Spero di sentirvi, fosse anche per qualche parolaccia in compagnia(?) <3
E spero di non essere arrugginita, in tal caso, cercherò di sciogliermi(?), promesso.
Bye :3

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La luce soffusa del pomeriggio che appassiva in sera rimandava l’immagine di una casa tranquilla, ospitale e confortevole. I muri rosa dell’esterno facevano un bel contrasto con le tende bianche alle finestre ed il cancelletto verde sulla strada proseguiva in un piccolo viale acciottolato snodato tra le aiuole fiorite. C’era profumo di fiori, profumo di buono. La porta era di un bel viola melanzana, sormontata da una vetrata giallo ocra e con un campanello in finto ottone vicino al quale troneggiava una bella targa per i nomi dei residenti.
Non poté impedirsi di sorridere mentre entrava in quel luogo magico che era diventato il suo rifugio. Ed ormai da un bel po’.
Un portaombrelli vicino alla porta ne conteneva un paio – se fossero stati rotti non ne sarebbe stata affatto sorpresa – mentre il tappeto all’entrata portava farfalle e fiori colorati – dopotutto, non l’aveva mica scelto lei così infantile e… Poco adatto, rammentò a sé stessa sorridendo appena ed imboccando a passo spedito la stradina acciottolata che l’avrebbe condotta verso il luogo che aveva sognato per tutta la mattina, fino a dopo pranzo, quando si era quasi scapicollata per fuggire da quell’ufficio asettico e triste che era costretta a frequentare ogni santo giorno.
“L’angolo della tristezza” , come amava definirlo qualcun altro, riferendosi al poco spazio a sua disposizione, nell’angolo della stanza che era costretta a dividere con altre tre persone, immersa tra le scartoffie e l’odore di chiuso che proveniva dai vecchi documenti d’archivio che era costretta a maneggiare ogni giorno. Questo le ricordò nuovamente quella vocetta insistente che non l’abbandonava mai e che il più delle volte prendeva il sopravvento in una maniera quasi insopportabile, fino a stordirla e portarla all’esagerazione… Era una polemica insostenibile, le ricordava sempre quel qualcuno, mentre le dava di gomito dopo ogni litigata, quando a forza le si affiancava per disturbarla mentre faceva i piatti – anche in quel momento si sentiva in dovere di sfiancarla, renderla isterica quasi, ma sempre pronta a mordersi il labbro pur di non sorridere a quel suo continuo insistere, nemmeno fosse stato un bambino giocoso e capriccioso… Dannatamente insopportabile.
Oh, se lo era.
Lo ribadì più volte a se stessa, quasi per auto convincersene ancora di più, mentre cercava le chiavi in borsa – la cartellina con i documenti malamente infilata sotto l’ascella e un ginocchio tirato su, nemmeno fosse stata una contorsionista divisa tra una prova fisica e l’evitare che nel frattempo la gonna le si arrotolasse troppo lungo le gambe: se le si fosse strappata avrebbe completato quella giornata nel modo migliore, visto il caffè che era già caduto quella stessa mattina sulla scarpa nuova. Quei dannati completi, perseverò la vocetta con perentoria arroganza, ma perché indossarli poi… Quel suono maligno la punse ancora, nonostante tentasse di ignorarlo; ed era cosa quanto mai impossibile visto la marcata insensibilità dei piedi a forza di stare in quella posizione scomoda e la caduta a terra clamorosa della cartellina: nemmeno a dirlo si era aperta malamente, lasciando che i fogli volassero ovunque.
Strabuzzò la vista, trattenendosi le labbra tra i denti mentre la mano continuava a frugare imperterrita nella borsa, seppure senza alcun successo.
Oh no, non avrebbe detto parolacce ad alta voce, no signore. Se le sarebbe ingoiate, altroché… Ne diceva fin troppe in ufficio, di parolacce – non sentita, ovviamente – perseverare anche a casa le pareva così… Facile, visto il modo in cui quei dannati fogli si divertivano a sparpagliarsi ovunque.
Vento del cazzo.
Lo sillabò, eppure le sembrò come il suono dell’hallelujah, quasi quel dannato pezzo di carta avesse davvero potuto sentirla e vergognarsi del suo indegno comportamento. Sorrise, soddisfatta tra sé e sé, prima che un altro maledetto protocollo andasse ad incastrarsi vicino al portaombrelli – lo mancò con la scarpa di poco, rischiando quasi di ammazzarsi sul tacco instabile.
Porca vacca.
E poi uno sotto al tappeto, mentre una folata di vento le faceva mangiare qualche capello, oltre a quelli che le stavano finendo nel naso.
Mentre finalmente agganciava le chiavi della porta con il mignolo della mano – il resto delle dita era stato probabilmente risucchiato da quello strano buco nero munito di chiusure e tasche che si ostinavano a mettere in commercio senza nemmeno uno straccio di foglio con le istruzioni - sbuffò, agganciando col piede un altro foglio che se ne voleva svolazzare chissà dove, mentre si tirava i portachiavi tra i denti e si passava una mano tra i capelli corti per darsi almeno una sistemata ed evitare di morire soffocata. Raccolse in fretta la cartellina, inciampando più volte per recuperare il resto – qualcuno doveva mostrarle la legge che obbligava a portare i tacchi in ufficio, in ogni caso, asserì mentalmente, infilando finalmente le chiavi nella toppa e respirando a fondo, almeno per darsi una parvenza di normalità.
Non che fosse facile, comunque. Si sentiva sudata ed avvertiva i corti capelli scuri appiccicati alla base del collo, lì dove sbattevano contro il colletto della camicia ormai stropicciata ed incollata ad ogni curva del suo busto – la cazzo di giacca era la cosa che più odiava, in ogni caso, perché pareva fatta apposta per limitarle i movimenti.
Sbuffò nuovamente, facendo scattare la serratura e gioendo internamente del silenzio che le sue orecchie riuscivano ad avvertire.
Musica, per il suo mal di testa cronico.
Non era inusuale che rientrasse a casa in quel perfetto stato di rintontimento misto a nervosismo – cosa che non giovava a nessuno visto e considerato che poi diventava intrattabile per il resto della serata, ma il trambusto dell’ufficio e del traffico non l’aiutavano affatto a superare la stanchezza dell’intera giornata… Anzi. Effettivamente c’era una sola cosa che pareva l’aiutasse a superare tutto – la vocetta acida nella sua testa provò a zittire quel pensiero melenso ed in completa opposizione con lo stato d’animo tenuto fino a quel momento, ma non vi riuscì, vinta dall’inevitabile sorrisetto compiaciuto che le si dipinse sulle labbra. Un sorrisetto che sapeva di tante cose e che non avrebbe accennato a spegnersi – lei lo sapeva bene – nemmeno se in quel momento le avessero detto che doveva saltare un braciere a piedi nudi – qualcosa sarebbe forse riuscito a farle più male di quei tacchi maledetti?!
Certamente no.
Fu quella la riflessione che l’attraversò mentre li scalciava malamente al lato della porta e poggiava la cartellina con la borsa sul mobile vicino allo specchio dell’entrata: l’ingresso era silenzio, la cucina aveva la luce spenta e l’ambiente era così tanto quieto che per un secondo si chiese stupidamente se non avesse sbagliato casa.
Impossibile, constatò, il labbro superiore che automaticamente si stava piegando in una posa scocciata, visto il casino immane che c’era in giro: e dire che glielo aveva anche detto di essere ordinato. Di mettere a posto le sue cose, di non lasciare le scarpe in giro – inorridì, sorpassando quelle maledette trainer dalla suola alta che non le piacevano nemmeno un po’ ma che lui si ostinava comunque a portare… Che le stesse facendo un dispetto? Non c’era da stupirsene, dato  quanto riusciva ad essere schifosamente
… Il non trovare un aggettivo da rivolgergli nell’arco di cinque secondi le lasciava uno strano sapore in bocca, di stupore ma anche quel gusto di vendetta non consumata che la caricava ancora di più a dirgliene quattro nel momento in cui lo avrebbe rivisto.
Oh, se glielo avrebbe detto.
Annuì, soddisfatta del ragionamento appena fatto, mentre si accingeva a prendersi un bicchiere di succo. La cucina pareva stranamente in ordine, non una macchia d’olio sul fornello, non una briciola in giro, anche il lavandino sembrava fosse stato risparmiato dei piatti sporchi. Non accese la luce, preferendo agire nella penombra della tapparella semi aperta, la luce che filtrava debole e che creava strane strisce luminose sul pavimento.
Sospirò, sfilandosi la giacca e poggiandola sullo schienale di una sedia. Lentamente estrasse la camicia dalla gonna, avvertendo la liberazione che quel gesto le donava, l’aria che riusciva a toccare la sua pelle e quel vago senso di stanchezza che si stava impadronendo sempre più di lei ad ogni secondo che passava: chiuse gli occhi, assaporando i suoni spenti della casa dormiente: lo scricchiolio dello sportello in alto, quello che lei gli chiedeva sempre di riparare ma che lui si dimenticava costantemente di accomodare, vuoi perché era sempre indaffarato, vuoi perché… Beh, sembrava nato per non darle retta, altro non poteva certo aspettarsi; il ticchettio dell’orologio in soggiorno, quell’inusuale scandire che suonava metallico ma dolce insieme, quello che non poche volte l’aveva aiutata a dormire quando si era ritrovata stanca morta a chiudere gli occhi sul divano, il corpo affaticato e la mente rattrappita dai troppi pensieri – sorrise ed aguzzò ancora di più l’orecchio.
In automatico, poggiò una mano dietro di sé, a toccare il bordo del lavandino, quasi il suo corpo stesse cercando un punto stabile su cui potersi fermare, come a voler meglio assaporare quell’attimo di intimità con quel luogo che a fatica aveva conquistato e che le era costato non pochi sacrifici – e non solo a lei.
Chiuse la mano a pugno, rilassandosi.
La mente si distese – provò una fitta di desiderio che fossero le sue membra a poterlo fare. Il respiro si regolarizzò.
L’acqua. Le poche gocce che colpivano il fondo del lavandino, come un ritmo lontano, un canto di battaglia che pareva in eterno controtempo con le lancette dell’orologio: si ritrovò a scandire un ritmo immaginario con la pianta nuda del piede, mentre un sorriso pigro le curvava le labbra.
Ancora. E ancora.
 E quel silenzio, quel vibrare autonomo della non presenza che la circondava, proprio quella musica atona che fino a quel momento l’aveva cullata, si infranse, al tonfo sordo di un rumore così… Riconoscibile. Sobbalzò di scatto, come se si fosse risvegliata da un sonno profondo, ristoratore: gli occhi le bruciavano dalla stanchezza, le tempie le stavano scoppiando.
E se solo pensava che aveva anche la cena da preparare quasi le saliva il vomito. L’orologio al polso non segnava nemmeno le sei e mezza, aveva ancora tutto il tempo che voleva a disposizione per progettare una pasto che fosse anche solo lontanamente commestibile. Fosse stato per lei sarebbe vissuta di cupcakes: di quelli poteva dirsi senza dubbio la regina, ammise la vocetta acida nella sua testa – la stessa che a fatica si era fatta spazio tra le ultimi idee confuse e che stava aspramente tentando di prendere il sopravvento.
Un altro tonfo.
E un altro ancora.
Chiuse gli occhi, reprimendo un gemito di frustrazione.
E la memoria fu subito pronta a ricordarle che pure se aveva vissuto fino a pochi secondi prima nella convinzione che quella casa fosse il paradiso silenzioso in cui aveva sperato, in realtà c’era poco di paradisiaco in ciò che la stava aspettando.
Al piano di sopra. Tra le risa. E gli strilli.
O forse era stata la vocetta acida nella sua testa a fare da tramite tra la mente e quelle imprecazioni a stento trattenute?
Mosse qualche passo fuori dalla cucina, mentre gli occhi seguivano il profilo delle scale con cupa rassegnazione. Era quello avere una famiglia, allora. Alzarsi la mattina, andare al lavoro, rientrare e voler sbattere la testa contro il muro per la troppa stanchezza. Ah no, le suggerì quella infida voce che stava diventando ormai un po’ fastidiosa, era anche bruciare la prima frittata fatta in completa autonomia e dover correre ai ripari con un toast al volo; era sbattere ad ogni angolo quando ancora non ci si ricorda bene della sistemazione dei mobili e trattenere parolacce per non svegliare l’intero vicinato; era starsene a ripulire le stoviglie fino a tardi, perché chi diamine si alzerebbe la mattina all’alba per farlo? Era litigare – perché lui a volte proprio gliele levava di bocca certe risposte – e minacciarlo con un cucchiaio sporco solo il momento dopo – e che gran minaccia; ed era anche rientrare a casa stanca morta e sopportare tutto, si disse con un pizzico di malumore ad invaderle le ossa.
Malumore, sì, ma di quelli strani. Un malumore tale che le saccheggiava lo stomaco in un modo particolare, quasi non vedesse l’ora di arrivarci, a casa. Di sopportare tutto. Di litigare con lui – costringerlo a stirare, anche, quante volte era successo. Quanto era bello farsi pace, solo il secondo dopo? Stringergli le guance tra le mani fino a mordergli il naso per puro dispetto, sentirlo ridere e bofonchiare come un vecchio orso scorbutico. E poi ridere, quando provava ad appendere i quadri, visto che non esisteva persona più predisposta al mondo per metterli storti. E baciarlo, magari di sorpresa. E stringergli la mano, dopo cena, con la pace del giardino ed il rosa del tramonto – era sempre stata una romantica, un maledetto cuore di panna pronto a sciogliersi per ogni minimo suo accenno di sorriso.
Ah, che sorriso aveva lui.
Pure la vocetta acida fu costretta a zittirsi a quella considerazione involontaria. Ma vera.
E scoppiettante come il fuoco eterno che governa il sole.
E lui era un po’ quello. Una stella bruciante, costantemente ardente, inderogabilmente viva.
Una luce costante.
E se anche il sole – quello vero – si fosse spento, lui non lo avrebbe fatto. O almeno, non sarebbe mai accaduto per lei.
Non fin quando avrebbe continuato a fare quelle considerazioni da quindicenne con qualche rotella andata e tanti ormoni in circolo, si accinse a ricordarle il rumore stridente di quella sua coscienza così maledettamente cinica, a volte.
Ma che importava? A nessuno sarebbe importato delle sue riflessioni. A nessuno che non si trovasse al piano di sopra e che di sicuro la stava aspettando. E sorrise, ancora. Come in un vecchio rullino di foto identiche. Uguali ma diverse, perché era proprio questo quello che lui le trasmetteva: lo stesso amore, ogni volta, ma in una forma sempre nuova.
 
 
 
 
“Se magari la piantassi potrei fare un discorso serio, mh?”
Inutile provarci non lui, come voler tenere un leone in gabbia mentre questa è aperta.
Improponibile, assolutamente.
E difatti lo sguardo che Liam le rivolge è denso, così carico e pieno di cose che cercare di capire dove voglia arrivare con quella sua occhiatina all’apparenza stupida è quasi follia: sciacqua l’ultimo piatto nel lavandino, primo di riporlo ad asciugare e sfilarsi i guanti – che gli stanno stretti, oltretutto, considerato che non lava le stoviglie tutti i giorni, ma per una volta vederlo litigare con il sapone è stato divertente.
Ed anche cercare di grattarsi il naso senza l’utilizzo delle dita ma solo strofinando la faccia contro il muro – ma che problemi ha quel ragazzo? Se l’è sempre chiesta, in verità, ma mai che abbia avuto una risposta soddisfacente, eh.
Che poi nemmeno può dargli più del ragazzo, Dio… Ormai è diventato un uomo, non ha niente del diciottenne che ha conosciuto nei corridoi del college, nulla che le possa anche solo ricordare vagamente quel ragazzetto timido che era preda di tanti – troppi – scherzi, che era andato al ballo da solo al primo anno e che si era ritrovato con un rospo nel letto solo l’anno dopo perché era stato così sbadato da farsi rubare la chiave della stanza.
Che fine ha dunque fatto quel visino concentrato quando prendeva appunti di filosofia? Quel cipiglio remissivo ma deciso allo stesso tempo quando era solito rispondere ai quesiti del professore senza esitazione? Dove se ne sta quel sorrisetto pacato che ha avuto il potere di conquistarla?
 
«Quell’edizione del libro di filosofia è sbagliata...»
Un sorriso. Uno solo.
«Davvero? E quindi...»
 
Così è andata, lei ancora se lo ricorda bene. E poi si ricorda le uscite e il gelato preso al chiosco fuori dal campus, quello al cioccolato con cui riusciva a macchiarsi fin sopra al naso. E poi ricorda tante altre cose, accavallate e confuse, ma le ricorda in ogni minimo dettaglio, come se fossero accadute un giorno o solo un secondo prima.
Le ricorda perché ogni volta che guarda Liam le pare che il suo cuore non possa contenere più amore di quello.
Lo osserva con un cipiglio attento, seduta – acciambellata – sulla sedia com’è, il pigiama di pile le sta morbidamente largo, è confortevole e Charlotte non vede l’ora di sprofondarci completamente, al di sotto delle morbide coperte che l’attendono in camera. Sospira, passandosi una mano tra i capelli corti, togliendosi dal viso qualche ciocca fastidiosa che persevera a volerle dare a tutti i costi fastidio.
E non pare l’unica ad avere quell’intento, constata stizzita, mentre lui le passa accanto e le strizza una guancia come si farebbe con una bambina. Le ammicca con divertimento, mentre fa il giro del tavolo solo per poter prendere la cartellina con i documenti che si porta appresso dall’ufficio ogni sera, visto il suo maniacale modo di essere preciso – almeno in quello, se lo fosse anche con i vestiti che si ostina a lasciare in giro il mondo sarebbe un posto più bello, conclude lei in una mota divertita e amara nello stesso momento.
Si dà poi dell’idiota mentre lo vede sedersi proprio di fronte, i documenti del lavoro tra le mani e un bicchiere di vino proprio lì accanto – la bottiglia di rosso che hanno aperto per cena se ne sta mezza vuota, aspetta solo di essere scolata del tutto, e lei l’accontenterebbe anche se non si sentisse lo stomaco chiuso come un rubinetto otturato.
Non sembra molto interessato a darle retta, nota con uno sbuffo annoiato, e la cosa le crea qualche problemino col fatto che non possa prendere quel bicchiere e mollarglielo in faccia- il contenuto del bicchiere, meglio, ma dopotutto poi toccherebbe a lei ripulire il casino e non ha proprio la forza di lavare via lo sporco.
Velocemente gli molla un calcio sotto la sedia a cui lui risponde con un grugnito annoiato: lo vede sfogliare quei fogli, mentre prende un sorso di vino. Inarca un sopracciglio, bisbiglia qualcosa mentre le rivolge un mezzo sorriso nemmeno tanto convinto… Sta tentando di tenerla buona o cosa?
Non che la cosa sia facile, eh. Lo sanno entrambi, ed anche da molto tempo.
Ma Liam ha un modo così particolare di imporle le cose – esiste un verbo del genere che possa essere preso in considerazione? – che lei nemmeno se ne rende conto di assecondarlo davvero. La cosa le è sfuggita di mano, in effetti… Non che abbia mai potuto farci qualcosa, comunque. Charlotte lo sa da sé che Liam non le ha ordinato mai niente, in realtà, ma che è stato per un qualche strano meccanismo se si è ritrovata invischiata in quella situazione assurda che… Beh, non che le dispiaccia poi così tanto, ripensandoci.
Quel giovane uomo che ha davanti, così tanto dissimile dal ragazzo timido che ha conosciuto anni prima, ha solo trovato il modo per farsi amare, e non c’è cosa più bella e naturale a questo modo. Lo pensa spesso, quando è nel letto e non riesce a dormire e quindi si mette a contare le macchie opache del muro del soffitto; lo pensa quando fa colazione e sa che dovrà preparargliela lei, o sbadato quale è riuscirà a fare un macello in meno di dieci secondi; ci pensa quando lo guarda o lo sente parlare, quando lo becca assorto a studiare i documenti del lavoro o qualche alla sera gli porta la sua tisana preferita, con lo zenzero che profuma come nulla al mondo, e che a lui piace tanto.
Lo pensa e basta e non può che sentirsi fortunata come nessun altro al mondo.
Gli molla l’ennesimo calcio allo stinco, stavolta lo sguardo che Liam le rivolge è forzatamente neutro.
E tranquillo.
Charlotte lo sfida con gli occhi, simula un sorriso ammaliatore che poco si addice alla sua tenuta casalinga, quasi trasandata. Ma dopotutto, è regola categorica del mondo femminile che in casa non ci sia alcun obbligo particolare, se non quello dell’essere scalze e comode.
“Allora?” gli chiede poi, sospirando piano. In attesa.
In agonia, meglio.
Liam inarca un sopracciglio, prendendo un altro sorso di vino: se lo gusta lentamente, le labbra collidono in perfetta armonia tra loro quasi a voler imprimere ancora meglio il sapore di quel liquido vermiglio – Charlotte si passa inconsapevolmente la lingua sul palato, sa che se lo baciasse in quel momento avrebbe quel sapore speziato in bocca fino alla mattina dopo. Non che la cosa le dispiaccia poi tanto, ma ha altro a cui pensare che non sia quel suo giocare lento e sinuoso, come la danza di un serpente ammaliatore che sa perfettamente quanto la sua vittima sia attratta: Liam la fissa con gli occhi che scintillano, divertiti, non l’invita esplicitamente a chiedere nulla ma è come se lo facesse, tale e quale ad una bestia pronta a colpire alla prima mossa falsa.
Non che Charlotte disprezzi tale trattamento, in fin dei conti lo ama anche per quel sapere essere… Loro.
Loro e basta, senza preliminari stupidi o sciocchi compromessi.
Ama il modo che ha Liam di fissarla come se avesse voglia di mangiarsela, e altrettanto sa che non vede l’ora di lasciarsi divorare. Da lui, da quello che le scatena dentro, da tutto ciò che ha da offrirle e che le fa apprezzare appieno la vita palpitante che ha in corpo.
Reprime un brivido, mentre tenta di non dar peso al modo che ha lui di giocherellare con uno scontrino sul tavolo: lo prende tra pollice e indice, lo accartoccia, lo stringe con prepotenza, per poi spiegarlo nuovamente. Come un carnefice che si diverte a vedere stramazzare la vittima e poi la lascia inspiegabilmente libera… Per ricominciare quel ciclo di morte solo il secondo dopo. Charlotte non riesce a staccare gli occhi di dosso dalle sue dita lunghe e forti, ha serie difficoltà a concentrarsi su cosa vorrebbe dire, visto come i pensieri stanno evaporando ad una velocità inaudita.
E se solo lui la piantasse, magari.
Charlotte si siede compostamente sulla sedia, inspira ed espira un paio di volte, rivolgendogli uno sguardo deciso, accompagnato da un sorriso limpido. Stanco, ma pur sempre bellissimo: Liam non può fare a meno di pensarlo mentre mette via i documenti nella cartellina e si stravacca per bene, stendendo le lunghe gambe sotto al tavolo.
La schiena gli duole, vorrebbe solo sdraiarsi sul letto e dormire, chiudere gli occhi e sentire il profumo di lei che lo pervade – come ogni volta, quando se la trova così vicina da doverla quasi trascinare su di sé, per farla star comoda.
Liam lo sa che lei adora dormire in quel modo, accucciarsi su di lui e ricoprirlo col suo corpo, quasi a volergli fare da scudo per i brutti sogni che potrebbero disturbarlo la notte; ed allungare inconsapevolmente una mano al suo viso, durante la notte, per stringergli quel naso che le piace baciare durante il giorno; o afferrargli una mano e portarsela addosso: non andare via, pare disegnare con le labbra socchiuse dai respiri cadenzati del sonno.
Liam sa questo e molto altro, ma non sa se avrà mai la forza di dirle tutto: è consapevole che è troppo e che non può essere gestito, come potrebbe lui trovare anche solo le parole giuste?
Allora si limita a fissarla da sotto le palpebre semi abbassate, spossate da quella lunga giornata interminabile: la testa gli martella insistentemente ma non ha il coraggio di dirglielo, lo vede dall’espressione concentrata degli occhi scuri e dal modo in cui ha esposto il labbro superiore – quello inferiore tra le morsa ferrea dei denti – che sta per dire qualcosa. E che vuole, magari, tenerlo ancorato a quella sedia chissà ancora per quanto. Sorride tra sé e sé, Liam, allungando la destra a stringere una delle sue, sul tavolo: Charlotte aggrotta le sopracciglia, senza parlare, e se la conosce bene sa già che tra poco le guance le si imporporeranno.
Le sta bene quel rosso addosso, gli fa venire in mente tutte le volte che è capitato, e quante volte.
Troppe perché possa contarle, ma la sua mente non lo tradisce mai quando si tratta di lei, e di tutte le cose che fa o che dice, quando si tratta di ogni più piccolo particolare la riguardi. Si sente così stupido, a volte, quasi un tredicenne che enumera le sottigliezze che gli fanno perdere la testa, i dettagli più insignificanti, i pregi ed i difetti, come se essi possano essere stilati e messi in ordine per poi avere un qualche scopo preciso.
Ma la realtà è che l’amore è sempre lo stesso, che sia a trenta o a tredici anni, solo cresce e si trasforma, tale e quale al corpo che lo ospita e che lo alimenta. L’amore che prova in quel momento per lei è il medesimo nato anni prima, solo… Diverso, ma uguale a se stesso. Si è fatto uomo con lui, è germogliato, e di sicuro lo accompagnerà per tanto tempo a venire.
Sempre.
“Sei malinconico?”
La domanda di lei lo risveglia da quel torpore dolciastro che l’ha cullato nei suoi pensieri fino a quell’istante: solleva gli occhi e la trova là, la stessa di sempre, intenta ad accarezzargli il dorso della mano col pollice, gli occhi vigili e concentrati a seguire i movimenti del suo dito chiaro contro quella pelle più abbronzata e leggermente ruvida della sua.
Liam annuisce per riflesso, stringendo le labbra tra loro e cambiando intreccio alle dita: salda la stretta, aumenta quel dolce attrito tra le loro pelli sollevando le loro mani allacciate, come una cortina tra i loro visi.
E poi si porta le dita di lei alla bocca, in un accenno appena pronunciato di un bacio che si infrange lieve come l’aria e caldo come il fuoco. Charlotte rabbrividisce, non riuscendo a trattenere comunque un sorriso stanco, ma felice.
“Sei pensierosa?” rilancia allora Liam, tirando dolcemente indietro la mano ed andando ad intrecciarla con l’altra dietro la nuca: si stiracchia, i muscoli in tensione fanno male, il sospiro che emette subito dopo pare rimbombargli nelle orecchie fino a fare male “Non hai un buon colorito, Charlie…”
Solo lui la chiama così, è uno strano modo quello che hanno le labbra piene di Liam di articolare quei suoni: li enfatizzano, li caricano di significato – di emozioni, le stesse che le scatenano in petto, al solo sentirlo parlare.
“Ho fame” ammette allora lei, passandosi i palmi aperti sul viso e trattenendo uno sbadiglio soffocato: ha fame, ha sonno, si sente su di giri e poi triste solo il secondo dopo, ha l’energia di una pila carica ma allo stesso tempo non vorrebbe far altro che dormire, e la testa – quella dannata testa che non la lascia mai in pace – martella come se si stessero divertendo a trapanarla. Da dentro, incessantemente, un ronzio sordo che le fa salire il battito del cuore a mille e che l’innervosisce, la sfianca, le fa quasi venire da vomitare.
Insomma, uno schifo totale.
“Gelato?” propone lui facendo per alzarsi ed andare verso il freezer: uno spuntino dopo cena non ha mai ammazzato nessuno, dopotutto.
Charlotte alza la mano, a fermarlo; scuote il capo, risoluta.
“No, non mi va” e poi si fa coraggio, sente il petto gonfiarsi sotto la spinta di quello che vorrebbe dire “Senti…”
“… Quel discorso serio? Si è già esaurito?” domanda poi Liam, andando verso il lavandino: alza la tapparella, la fresca arietta serale invade la cucina, è frizzante e piacevole sul viso, rincuora le menti; estrae una sigaretta dal pacchetto che tiene sempre nella tasca dietro ai pantaloni e se l’accende, in tutta calma: aspira due, tre boccate, prima di tornare a guardarla.
Charlotte lo fissa di rimando, la mano destra che si irrigidisce contro il suo stomaco, lì dov’è posata; e la sinistra chiusa a pugno sul tavolo: quel puzzo acre le dà fastidio alle narici, la fame le è passata, lasciando solo il posto ad una grande nausea.
Dannazione.
“Io…”
“Sicura di stare bene?” Liam emette fumo dalle labbra socchiuse, è pensieroso, quando le porge la sigaretta è evidente si aspetti che lei la prenda – quando poi sa che non le piace nemmeno “Vuoi?” domanda, tranquillo, e consapevole. Consapevole che quella sua indole di ragazzino scherzoso ed irritante non gli passerà mai – è merito anche di lei se è riuscita ad emergere, all’epoca degli scherzi al college e della timidezza quel lato di sé era custodito chissà dove e quanto bene, soprattutto.
E Charlotte si costringe a respirare. Profondamente. E a lungo.
Vorrebbe parlare, ma il fiato le si mozza in gola, la saliva è amara, i pensieri confusi e roventi.
Scambia uno sguardo veloce con lui, prima di volgerlo a terra, in cerca d’aria da ingoiare a grandi sorsi: aria che l’aiuti a mantenersi lucida, almeno quel poco per permetterle di darsi una regolata.
La sigaretta mezza consumata cade nel lavandino, prima che Liam si precipiti da lei, ora seriamente convinto che qualcosa non vada: le afferra le mani, stringendole tra le sue, cercando un contatto visivo col viso di Charlotte – della sua Charlie – e quasi facendosi venire un infarto quando si rende conto che ha le guance troppo rosse perché siano naturali.
Scuote il capo, sollevandosi in piedi e afferrandola per portarsela addosso: quel dannato pigiama di pile le butta ancora più caldo, sarebbe il caso di toglierglielo, riflette tra sé e sé mentre la porta in salotto.
Lei non ha opposto resistenza, si è semplicemente stretta a lui, al suo petto forte sotto cui sente battere il suo cuore coraggioso e pieno di vita, al suo collo profumato e saldo.
“Charlie, amore, mi spieghi che hai?” mormora, apprensivo, stendendola sul divano e cominciando seriamente a preoccuparsi: è stata da Dio per tutta la sera, cos’è quel malora assurdo che la sta prendendo? Che sia il caso di chiamare soccorsi, pensa sconsolato, mentre le sfila il pezzo sotto del pigiama.
“Non fare il maiale, Payne…” lo rabbonisce lei a occhi chiusi, dipingendosi un sorrisetto ambiguo sulle labbra: se ne sta stesa sul divano con le braccia sollevate, il petto si alza e si abbassa per i grandi sorsi d’aria che ingoia e che pare la facciano stare meglio: a Liam quella scena mette quasi paura, ma qualcosa gli dice che non ci ha capito un cazzo, come sempre.
Non se ne stupirebbe, dopotutto.
Charlotte ha la pelle che scotta, la fronte lucida di poco sudore.
E di scatto rabbrividisce, scattando a sedere sul divano con gli occhi aperti e l’espressione corrucciata.
“Perché mi hai spogliata?” sibila, scocciata “Fa freddo…”
Liam emette un risolino sciocco, sentendo che la testa gli gira: chi è quella strana creatura e che ha fatto dell’amore della sua vita? Che Charlotte sia una persona strana lo sa da solo, senza che si metta a fare quei giochino da psicolabile che ha bisogno della camicia di forza.
Si stacca da lei, tentando di dare una spiegazione anche solo lontanamente logica a tutto quel casino.
“Prima hai fame, poi non vuoi il gelato, poi scotti come se avessi la febbre e dopo mi dici che hai freddo… “ mormora, divertito, scorgendo sul suo viso dolce e delicato l’ombra di un sorriso – quello di una bambina che è stato colta con le mani nel sacco e che sta per nascondere la testa sotto il cuscino “ … Io capisco il tuo desiderio di avere sempre tutte le mie attenzioni per te” ignora la sua occhiataccia solo perché vuole seriamente capirci qualcosa, in tutta quella strana faccenda che è parsa solo l’inizio di un discorso serio e poi si è esaurita in una scena da film “ma almeno spiegami questi momenti di schizofrenia a cosa sono dovuti, perché io davvero non capisco com…“
“Se vuoi ti vomito in testa, almeno la concludiamo in bellezza!” ribatte allora lei, stendendo le gambe nude oltre il divano e passandosi insistentemente le mani sul viso: Liam segue quei movimenti fino al collo, poi al seno, indugia sulle sue dita fino a che non si fermano alla pancia. Qui il tutto assume una forma diversa, nuova e spaventosa insieme.
Si scopre ad aggrottare la fronte, a deglutire.
E a chiedersi se non sia il caso di buttarle, quelle sigarette, eh già.
 
 
 
 
Salendo le scale si sfilò anche le calze. Li ripiegò con cura, infilandoli nella cesta dei panni sporchi appena fuori dal bagno, proprio davanti al pianerottolo.
Una tenue cortina di ombra celava parte del corridoio, l’unico spiraglio di luce visibile era quella della loro stanza da letto.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli e reprimendo un sorriso che faceva fatica a spegnersi.
Ad ogni costo sarebbe emerso, lei quello lo sapeva, e non aveva nemmeno l’intenzione di scacciarlo: anche la vocetta acida che l’aveva tormentata fino a poco prima se n’era andata, di meglio non si poteva proprio sperare.
La camicia le si era sfilata del tutto dalla gonna, penzolava morbidamente al di sotto dei suoi fianchi; i piedi nudi facevano un meraviglioso attrito con la moquette violetta che avevano scelto – in verità lui si era imposto nella cosa, come sempre – donando alla pelle quella sensazione di libertà che mancava da quando quella mattina si era infilata quegli strumenti demoniaci più comunemente definiti tacchi.
E dire che li evitava come la peste, quando poteva: ne aveva un solo paio, oltre a quelli dell’ufficio e li utilizzava in situazioni eccezionali – quali catastrofi mondiali o cataclismi naturali e che tradotti equivalevano a dire cene di famiglia o di lavoro.
Continuò a fissare la porta della loro camera da letto, studiando attentamente quel filo di luce che ne fuoriusciva assieme a qualche lieve risata – risatina cristallina, dolce, acuta. Sospirò, spingendo lievemente la porta del bagno ed accendendo la luce. Si sciacquò il viso, rimanendo con i palmi premuti contro la pelle bagnata, respirando il silenzio che faceva da scudo ad ogni rumore.
Si tolse i vestiti, senza bisogno della mano, lasciando che semplicemente le scivolassero di dosso, come fossero stati ombre di una lei che tra quelle mura non esisteva più. Finalmente.
E sorrise, infilando gli shorts di jeans e quella maglia larga e sformata di un color viola acceso che assieme al mollettone per tenere i capelli corti e gli occhiali erano il suo ‘kit domestico’ – per il lavoro usava le lenti, ma dentro casa voleva sentirsi libera di poter fare quello che voleva e piaceva, anche lasciarsi andare col vestiario, col trucco o qualsiasi altro particolare che la rendeva finta per la metà giornata che era costretta a passare fuori da lì. Ma ora, quando sapeva che c’era lui ad aspettarla, poteva anche tornare ad essere la Charlotte di cui lo aveva fatto innamorare, quella pratica e ironica, schietta e sorridente.
Per lui, almeno, che sapeva come non farlo spegnere mai, quel sorriso.
Infilò le ciabatte, imboccando il corridoio in penombra ed arrivando fino alla porta. La socchiuse leggermente, cercando di non fare rumore per non essere scoperta immediatamente: il cuore le rullava forte nel petto, e una sensazione dolce e dirompente le scese lungo la gola, caricando quel sentimento che la stava squassando.
Strinse le labbra tra i denti, simile ad una bambina che osserva con stupore le giostre al luna-park, la mano tremante sulla maniglia della porta rischiava di tradirla, stava sudando: la strinse a pugno, serrandola sempre più. La stanza da letto che condivideva con Liam ormai da un po’ era illuminata dalla luce della prima sera, una luce fresca e profumata che si riversava all’interno dello spazio come sulle sfaccettature di un diamante: se al di fuori, la casa era silenzio, in quelle quattro mura c’era la vita.
Liam se ne stava seduto sul letto, i pantaloncini corti che usava di solito per andare a correre gli fasciavano le gambe sode e muscolose, ricoperte di peli scuri, mentre i piedi scalzi si perdevano nella trama dello scendiletto di stoffa morbida e arricciata; Charlotte gli fissò il viso – sorridente, splendente, radioso – non trovando niente di diverso da quando lo aveva visto l’ultima volta quella stessa mattina, prima di alzarsi: la barbetta scura che gli copriva il mento e che andava a diradarsi verso le guance e sopra il labbro superiore, il naso dolcemente diritto che lei amava mordicchiare e baciare fino a fargli esaurire la pazienza – cosa che comunque non succedeva mai: poteva perdere la pazienza, forse, Liam Payne? – e quelle sue folte sopracciglia che contornavano gli stessi occhi grandi e profondi di cui aveva imparato a fidarsi tempo prima.
Quando lo vide passarsi la mano tra i corti capelli castani che alla luce del sole morente erano incredibilmente biondi avvertì un fremito intenso alla base dello stomaco, un qualcosa che partiva là dove la mano di lui discendeva lentamente nel polso forte e proseguiva più su, fino a concludersi con le sue spalle salde. Lo sentì ridere, e dire qualcosa, ma afferrare ogni parola, ogni suono, le fu difficile, persa com’era in quel trambusto di sensazioni che cantavano in lei come acqua gelata sulla sabbia rovente.
Si toccò stupidamente le guance, sentendo affluire più sangue del normale sul viso: se avesse avuto uno specchio si sarebbe vista arrossire, chiazzare le guance in quel modo che la faceva sembrare un’adorabile bambina innamorata. Niente di strano.
“Piano… “ sentì dire a Liam, i profondi occhi castani luminosi e quieti, la voce era un monito dolcissimo che suonava come il rintocco di squilli d’argento.
 
 
 
 
Piano…” Charlotte lo sibila quasi, qualcosa a metà tra la noia e la stizza, la stanchezza e la delicatezza.
Qualcosa che aleggia nell’aria calda d’estate come fruscio di foglie giocose, la sua voce bassa è piena di significati nascosti, e Liam sa che sta solo a lui capirli. Ci pensa, mentre si arrampica sul divano, stando attento a non scivolarle addosso.
Lei è lì da dopo pranzo – gli ha lasciato tutti i piatti da lavare, ma che novità – e se ne sta a occhi chiusi, le labbra rosse strette tra loro lasciano fluire un respiro basso e cadenzato: ad uno sguardo poco attento sembrerebbe stia dormendo ma Liam lo sa benissimo che sta solo riposando, con i capelli corti sparsi sul bracciolo del divano e la maglia leggermente sollevata sull’addome, come se sperasse che possa arrivarle più frescura.
Le finestre del salotto sono aperte, ma niente si muove, quell’afa è insopportabile e non lascia respirare. Anche i pensieri si chiudono, sono nascosti nel caldo delle loro menti annebbiate dai troppi gradi che il sole manda loro addosso. Il termometro vicino alla porta segna i trenta gradi fissi da quella mattina, il piccolo ventilatore all’entrata  non sembra sortire alcun effetto utile, anzi quasi pare che l’aria in circolo diventi più calda ad ogni minuto che passa. Sarebbe bello, pensa Charlotte spontaneamente, mentre avverte Liam avanzare sul divano – le ginocchia puntellate ai lati dei suoi fianchi – andare indietro di un po’ di tempo – otto mesi. per l’esattezza… A quando non aveva quelle gambe gonfie e quel continuo sbalzo ormonale che non fa altro che peggiorare col caldo, e con l’afa e con le maledette cose che le danne di continuo la nausea. Sbuffa, trattenendo una parolaccia tra i denti, quando lui poggia una mano sulla sua testa, direttamente sul bracciolo, e le tira qualche capello ribelle.
“Scusa…” lo sente ridacchiare distratto, e può immaginare benissimo la sua faccia mentre lo dice: il suo sorriso teso ma luminoso, i suoi occhi grandi e cristallini, e la voce, quella se la sogna pure la notte: è un’eco che la culla e la rassicura, l’aiuta a non pensare ed a stare calma – non che sia mai stata facile, come cosa.
“Sei un danno, Payne” ribatte, aprendo finalmente gli occhi e alzando il viso verso di lui: le braccia forti tese sopra di lei per non pesarle addosso, il respiro che comunque la colpisce, se solo non avesse quel mal di schiena si alzerebbe di scatto e lo bacerebbe. Lo tirerebbe giù con lei, fregandosene del caldo e dei vestiti appiccicati addosso: molto meglio sfilarseli tutti, o no?
E poi respira, per dare un senso a quei pensieri, a quelli dettati dagli ormoni sballati che ormai non riesce più a governare e che l’hanno resa più insostenibile e velenosa da un po’ di tempo –
otto mesi, per l’esattezza… Continua a ripetersi quella cantilena in testa, forse per rassicurarsi che non sta davvero impazzendo. Che sta accadendo davvero.
E che deve stare tranquilla, fondamentalmente, perché c’è Liam con lei.
Potrebbe mai accaderle qualcosa di male se c’è Liam con lei? Qualcosa potrebbe mai andare storto.
Mai, nemmeno in un milione di anni.
Liam scuote il capo, il suo sorriso si allarga; il modo che ha di chinarsi per darle un leggero bacio sulla punta del naso la fa tremare: è dolce, delicato come sempre, il calore che le invia non ha niente a che vedere con il caldo soffocante che sta rendendo quell’inizio estate insopportabile. Si guardano, e Charlotte si tira poco su con la schiena, solo per mordergli il braccio che tiene teso lungo il bracciolo del divano.
Quel morso, che poi diventa carezza, e infine abbraccio, quando gli si stringe addosso, in silenzio.
E la mano di lui, fra i loro corpi, sul suo ventre ormai troppo gonfio e teso, pieno di quella scintilla d’amore che diverrà luce incandescente.
Vita vera.
 
 
 
 
“Piano…” gli sentì ripetere di nuovo, stavolta in tono più serio.
Liam si sollevò dal letto, sgranchendo le lunghe e forti braccia sopra la testa: le scapole emisero un suono sordo, i tendini vicino al collo si tesero. Poi avanzò di qualche passo, lungo la traiettoria che univa il letto al cassettone in legno.
E solo allora Charlotte notò qualcosa, quella cosa.
“Se ti fai male, la mamma mi ucciderà… Lo sai?” scandì lentamente quel ragazzo un po’ troppo cresciuto che era ormai un uomo: Liam si inginocchiò all’altezza di quello che sembrava un piccolo orso in miniatura ma che in realtà era solo un bambino di non più di un anno completamente immerso in un costume. Pareva uno di quelli per le feste in maschera: ricopriva interamente la sua piccola figurina, i capelli biondo cenere e le manine piccole e cicciottelle, fatte apposta per essere morse e strette con dolcezza, lasciando in vista il solo visino tondo e morbido, davvero troppo somigliante a quello del padre. Questo pensò Charlotte con un moto violento alla bocca dello stomaco, una sensazione impetuosa che le faceva tremare le ginocchia.
Guardò ancora Liam, il volto sorridente e una delle sue grandi e calde mani a sorreggere la schiena del piccolo, in precario equilibrio contro il cassettone – non che non sapesse camminare, anzi, era ormai diventato un uragano che correva per la casa, solo era veramente troppo furbo per lasciarsi sfuggire l’occasione di essere vezzeggiato dal padre. Era una circostanza troppo ghiotta per quella piccola scintilla di sole, la stessa che stava sfoderando, proprio in quel momento, uno sfavillante sorriso soddisfatto.
Liam gli accarezzò il nasino, facendo una smorfia che lo fece ridere di gusto.
“Sei una peste, tu…” disse poi, sedendo a gambe incrociate per terra – in quel modo superava comunque il bambino di una buona spanna e la cosa era divertente considerato come quello avesse immediatamente preso la palla al balzo per saltargli addosso e stritolargli il viso.
Certo, con quelle manine di orsetto pareva complicato, ma non impossibile: Charlotte vide bene i suoi tenaci tentativi di piantare le mani nelle guance di Liam, il modo in cui gli si abbarbicava addosso senza mollare nemmeno un centimetro del suo collo possente.
“Sai, Christopher… Stavo pensando, alla mamma piacerà il costume?”
Mamma!” schiamazzò il piccolo, tentando di salirgli sulle spalle.
“Sì, proprio lei…” annuì Liam, afferrandolo al volo prima che scivolasse lungo la sua schiena.
Charlotte rise, istintivamente, di un suono squillante e pieno, coinvolgente. Si coprì appena in tempo la bocca con la mano, essendosi resa conto che sarebbe bastato poco a scoprirla – quando in realtà quel dolce timbro squillante era bastato ed avanzato.
Abbassò gli occhi giusto in tempo per notare quelli di Liam fissi su di sé, implacabili: era ancora seduto a terra e Christopher, stretto nella morsa delle sue braccia tentava di staccargli qualche pelo dal gomito.
Non disse nulla, perseverò solo a fissarla, le labbra schiuse in un’espressione indecifrabile che le faceva dimenticare ogni cosa, perfino la stanchezza provata fino a cinque minuti prima. Charlotte si morse un labbro, passando il peso del corpo da un piede all’altro, quasi volesse far grondare a terra tutta la tensione che le stava attanagliando lo stomaco: quella dolce pulsione che la faceva sentire bene, che la faceva sentire a casa.
Mamma!” schiamazzò a quel punto il piccolo Christopher, quando l’ebbe messa a fuoco per bene, al di là dello spiraglio della porta: prese a dibattersi tra le braccia di Liam, nel chiaro intento di procedere coi suoi piedini verso la nuova arrivata. Si mosse adagio, sicuro di sé, un sorriso da orecchio a orecchio ad illuminargli quel volto tondo e morbido, luminoso come il sole.
Era un orsetto nel corpo di un bambino, o viceversa.
Charlotte aprì del tutto la porta, facendosi scappare una risata nel vederlo barcollare buffamente ma mantenersi comunque in piedi: Christopher emise un versetto gioioso, prima di abbracciarle le gambe con le piccole braccia e farsi trascinare in alto, stretto al suo petto ed inebriato del suo profumo. Gli diede un sonoro bacio in fronte, mormorando parole soffocate da quello che stava dicendo il piccolo: lo strinse più forte, chinando il mento contro la sua piccola spalla.
E poi un altro profumo, quello che ormai aveva imparato a riconoscere e che le trasmetteva ben altre emozioni: Charlotte alzò il viso, socchiudendo gli occhi al bacio rincuorante che Liam le aveva appena dato.
E le venne naturale sorridere, come sempre.
 
 
 
 
È stanca e sente la schiena che chiede pietà da un po’, nonostante lei non abbia avuto modo di concedergliela affatto: quel bambino la sfianca e non solo fisicamente. Stargli appresso è un’impresa eroica, ma perché diamine non hanno ancora inventato un premio per le mamme? Sarebbe carino che qualcosa si decidesse a premiarle, visto tutto quello che fanno.
Sospira, tenendosi i reni e tentando di sgranchire le ossa indolenzite: quel piccolo furfante non vuol saperne di starsene nel passeggino, è tremendamente furbo e non appena sente la sua presenza attacca a schiamazzare per farsi prendere in braccio.
… Come dirgli no? Impensabile.
Charlotte si maledice per quella debolezza, vorrebbe avere la forza di essere un minimo severa con… Con quel cosino dal nasino piccolo e tondo e le guance morbide. Da baciare. E mordere. E accarezzare fino a farlo addormentare.
Ha imparato anche quella furbata, la volpe… Ha capito fin troppo bene che lei non lo lascerebbe mai, non prima di essersi accertata che si sia addormentato del tutto, e allora trova giusto il godersi       tutte quelle coccole extra – come se quelle che riceve quando non dormi non siano abbastanza.
No che non lo sono, ovvio.
La voce di Liam le risuona acre in testa, quasi le fa aumentare il dolore che avverte alle tempie e che proprio non la vuole lasciare andare: il furbacchione ha anche imparato che gli basta un accenno di pianto per far sì che lei corra da lui. E allora perché non piangere per l’intera mattinata? Charlotte scuote il capo, mentre un sorriso le increspa le labbra e le fa pizzicare le guance accaldate dalla fatica della giornata: è bello quando le si stringe addosso, cercando il suo viso con le manine piccole, minuscole, così tenere che ha quasi paura di fargli male; è bello quando spalanca i suoi occhi grandi e di una tonalità inconfondibile, sono gli occhi di Liam, quelli, identici anche nel modo di scrutare e sorridere – esistono occhi che sorridono? Sì, assolutamente, e quelli lo fanno; è bello quando lo culla ed ha la certezza che è al sicuro, è al caldo, quando lo vede abbassare le palpebre e respirare adagio, tranquillo; ed è bello, in fondo, anche quando la fa disperare con quei continui strilli e quel modo di non darle retta… Così piccolo, eppure tanto testardo: da chi avrà ripreso quel caratterino che già spunta con forza, si domanda scioccamente sedendo sul divano e abbandonando la testa contro lo schienale.
La cosa è silenzio, finalmente, magari ha anche qualche ora di tregua visto che Christopher si è finalmente addormentato: vorrebbe farsi una doccia, e magari anche darsi una piega decente ai capelli dato che ormai vederli in ordine è utopia pura. La mamma è uno di quei lavori a tempo pieno, che non ti lascia spazio nemmeno per respirare – o pensare, peggio ancora; non servono diplomi particolari o scuole speciali, no, l’esperienza si fa sul campo, cercando di non perdere qualche polmone durante il percorso, o qualche dito, o chissà, tutta la testa; non serve tailleur in tinta con le scarpe, né una pettinatura particolare, basta saper sfoggiare il miglior sorriso – sempre – ed avere un armamentario di soluzioni pari a quelle di Sherlock – ma senza Watson, non servono aiutanti, solo una gran pazienza, oltre ad un gran cuore; è un lavoro che alla fin fine non è nemmeno un vero e proprio lavoro, è quasi un corso di sopravvivenza, solo che senza kit di aiuto o mappe del tesoro: solo tanto cervello e voglia di fare.
Non capisco di cosa ti preoccupi, sei brava sempre, tu.
Glielo ripete sempre, Liam, ma lei stenta a credergli: ha paura, una paura così grande che nemmeno sa più dove mettersela: dubita che gli entri nello stomaco, quello a malapena è largo per far entrare il cibo, e nemmeno nel cuore, lì c’è già troppa roba. Dovrebbe dargli retta, dopotutto… Lasciarsi andare e non pensare tanto. Dopotutto non se la sta cavando male: non ha mai perso l’equilibrio nel tragitto camera-bagno per poterlo lavare – e quel piccoletto ama la sensazione dell’acqua addosso, si vede da come apre gli occhi e spalanca la boccuccia rosea e soffice – né tantomeno ha mai sbagliato il verso del pannolino – al contrario di Liam, che proprio non ha la manualità per quel genere di cose.
Ho paura di fargli male.
Questo è quello che pensa lui, glielo ripete quasi ogni notte, quando nel letto si guardano e intrecciano le mani, sospirano e condividono i pensieri più strani: è così piccolo Christopher tra le mani grandi di Liam, sembra quasi svanire. Lui potrebbe cullarlo tra le dita, volendo, solo poggiandolo sui palmi forti e caldi. A Charlotte scappa un sorriso più pronunciato, è costretta a stropicciarsi gli occhi per non addormentarsi del tutto, pure se la stanchezza è tanta.
E la cena ancora da preparare, le ricorda una vocina acida che non smette mai di assillarla: pare quasi che aspetti quei momenti per ricordarle ciò che di brutto c’è nel doversi occupare della casa. E della spesa. E di tutto il resto.
Non che prima non lo facesse, solo che avere un lavoro era diverso, la occupava in una maniera totalmente differente e la stancava automaticamente di più, ma secondi ritmi che le erano ormai congeniali: adesso, invece, con la maternità, è stata costretta a prendere altri tempi, altri modi di fare, è stata obbligata a scegliersi dei tempi tutti nuovi. Le manca stare al lavoro, certo, ma d’altra parte le suona strano, ora come ora non pensare a Christopher, non stargli dietro, occuparsi di ogni minima cosa. E poi, quando sarà passato qualche mese, magari le cose cambieranno: tornerà in ufficio, Liam avrà orari diversi, sapranno senza dubbio gestire le cose in una maniera che possa andare bene ad entrambi.
Anzi, a tutti a tre.
Stai calma.
Glielo dice sempre, Liam. Glielo ripete costantemente, e solo per questo andrebbe rincorso con una mazza: pare quasi non capisca che lei sa cosa fare, sa cosa sia meglio, ma no, lui si ostina a… A… A fare cosa, poi? Le sta accanto, la rassicura, la ama, non potrebbe chiedere di meglio. Sono due persone così distanti, lei e Liam, almeno caratterialmente… Ricorda ancora quando lo sbeffeggiava con l’oroscopo dicendo che due segni opposti come i loro non sarebbero potuti andare da nessuna parte- e poi, quanta strada hanno fatto insieme? Davvero tanta per poterla raccontare. Una strada tortuosa e a tratti scivolosa – come ogni strada che conduca ad una bella meta – ma erano pur sempre insieme, a tenersi la mano l’un l’altra, come sarebbe mai potuta andare male?
Charlotte sospira, aprendo lentamente gli occhi quando sente la serratura di casa scattare in quel modo rapido e deciso che ha la mano di Liam di girare le chiavi nella toppa: nessuna esitazione, nessun ripensamento. Così è Liam, deciso e fin troppo schietto, strafottente a tal punto da rendersi irritante ma gli basta sorridere per farsi perdonare tutto.
Lei lo osserva entrare e rivolgerle un sorriso carico di fatica: sotto agli occhi ha delle borse niente male, stare davanti al computer tutto il giorno non gli fa di certo bene.
“Come stai?” le domanda poi, poggiando la valigetta dell’ufficio sul tavolo del salotto e togliendosi la giacca del lavoro per poi poggiarla sullo schienale del divano.
Charlotte lo guarda di sottecchi, accennando un ghigno.
“Ciao a te, Payne” lo saluta poi, mandandogli un bacio appena accennato che si infrange nell’aria.
Liam sorride, chinandosi in avanti per raggiungere finalmente le labbra di lei, ma un suono stridulo lo blocca.
Un suono forte e chiaro, impossibile da confondere.
E poi uno strillo più acuto, come un suono imperante che li porta entrambi sull’attenti.
Charlotte fa per alzarsi, ma Liam la blocca, sollevandosi in piedi e sparendo in cucina: è la stanza più fresca della casa, è il punto migliore in cui Christopher possa dormire in tranquillità.
Ed è a pugni chiusi, le piccole braccia tese all’insù ed il visino contratto dal pianto che il padre lo trova, mentre con le piccole gambe scalpita per scalciare via la copertina che gli dà fastidio. Liam sorride, fermandosi un secondo ad osservare suo figlio, prendendosi un attimo per riflettere… Da che verso prenderlo.
Christopher alza il volume del pianto, il ciuccio gli è ormai scivolato di bocca e le lacrime gli stanno inondando il visino paffuto: tosse un paio di volte, è chiaro che voglia essere preso in braccio. E Liam sospira, teso come non lo è mai stato in vita sua.
“Serve una mano?” la voce di Charlotte lo raggiunge con una nota tremante, ansiosa: glielo ripete sempre che loro uomini sono femminucce dentro, per la maggior delle cose, altro che sesso forte.
Ed ha anche ragione, ammette Liam tra sé e sé, allungando le mani nel carrozzino e afferrando quel fagottino che ancora piange e si dimena come un ossesso: se lo porta addosso, sorreggendogli la testolina nella sua grande mano e cullandolo piano, canticchiando qualcosa sottovoce che spera possa servire a calmarlo. Christopher emette qualche altro vagito stanco, prima di poggiarsi completamente contro la spalla forte del padre.
Liam lo stringe a sé, respirando il suo profumo fresco di bambino – l’acqua di colonia che Charlotte gli mette sempre dopo il bagnetto, il sapone alle mandorle con cui gli lava i pochi capelli biondi che promettono di crescere molto folti e spessi – baciandogli piano la testolina. Ormai Christopher ha smesso di piangere, quelli che emette solo semplici versetti strambi che Liam non sa bene come interpretare; preferisce distanziarlo un po’, per poterlo guardare in faccia, studiare per bene quei tratti che molti rivedono in lui ma che personalmente non sa spiegarsi.
Com’è possibile? Che concetto strano che è la vita… Rivedersi in qualcun altro, specchiarsi negli stessi occhi, avere le stesse labbra. Gli pare impossibile, eppure quel piccolino che se ne sta tra le sue mani, un giorno, potrebbe avere il suo naso o magari farsi venire le stesse rughe attorno agli occhi nel ridere. Con lo sguardo tratteggia il suo minuscolo profilo, il mento dove una piccola fossetta sporge con prepotenza e le manine chiuse a pugno che rivelano qualche piega paffuta.
Inclina il viso, Liam, respirando il suo fresco profumo di bambino, sorridendo istintivamente quando il piccolo singhiozza e poi emette un vagito alto che gli pare tanto l’inizio di una risata.
Lo sorregge con un braccio, la testolina dolcemente poggiata nell’incavo forte del suo gomito, mentre con l’altra mano gli accarezza piano la fronte e nello stesso tempo si trascina in salotto: Charlotte è rimasta seduta, lo vede arrivare e se ne sta in silenzio, presa com’è ad osservarlo mentre cura quel corpicino morbido e delicato.
Liam le si siede accanto, il bambino ormai sveglio che allunga le braccia verso l’alto e si dibatte, mentre dalla sua bocca escono versetti gioiosi, strilli che non hanno età: sono come la voce eterna della giovinezza che non se ne va, che rimarrà incastrata negli angoli di quella casa per tanto, molto tempo, a ricordargli in futuro il tempo passato.
“Pensavo non ce la facessi…” sussurra Charlotte, divertita, carezzando la guancia del bambino con un indice, chinandosi poi per dargli un bacio su una mano: il piccolo allarga il palmo, le stringe il naso, sta a quel gioco che ormai ha imparato tanto bene quanto velocemente. E quelle unghiette piccole che scavano nella pelle senza però far male sono cosa di poco conto in confronto a quando Christopher si attacca ai capelli, tirando come un ossesso.
“Impara in fretta!” ridacchia Liam, liberando una ciocca dei capelli di lei e osservandola ridere di gusto: è sempre stata così bella o sono i suoi occhi ad ingannarlo? Probabilmente lo è sempre stata, è solo lui lo sciocco.
“Ti ho mai detto che ti ho sposato per la simpatia, eh Payne?”
Lui ammicca, divertito. “Io pensavo per le mie doti atletiche…” dice, sentendosi sempre più un cretino: cos’ha, tredici anni, che fa battute così sceme?
Charlotte scuote il capo, aiutandolo a poggiare il bambino sul divano, esattamente tra di loro.
Christopher ha la testolina che gli pesa, barcolla un poco, stringe i pugnetti cicciotti scivolando di lato ed emettendo un verso stridulo; Liam lo risolleva al volo, ridendo, lascia che il piccolo gli afferri un indice, con forza, e che lo sollevi all’altezza degli occhi: lo studia, lo tira, ci affonda le unghiette e poi se lo porta in bocca, pare così soddisfatto che nessuno si sogna di toglierglielo.
“Ringrazia Dio non ha ancora i dentini…” borbotta Charlotte, ridendo, la tentazione di abbassarsi sul bambino è troppo forte perché si possa trattenere: gli bacio il pancino coperto dalla tutina, sospira contro di esso qualche pernacchia che lo fa solo ridere, in quel modo cristallino che solo i bambini hanno.
E Liam scuote il capo, sentendo il cuore pompare forte un’emozione nuova che non ha mai provato, ma che gli piace.
Pensa che ci si abituerà, e si unisce a quello strano gioco che ormai è diventato un abbraccio.
Il più bello e caldo del mondo.
 
 
 
 
Chiuse la porta, sperando con tutto se stesso che quel furfante non si svegliasse nell’arco di cinque minuti come era solito fare: ci aveva messo una buona mezz’ora per farlo addormentare, aveva cantato all’incirca quindici ninna nanne e se n’era inventate una buona dozzina da poter utilizzare nella sere e a venire.
Liam sospirò, infilandosi il le mani in tasca e scendendo con pigrizia le scale. Al piano di sotto si respirava ancora il profumo della cena che Charlotte aveva improvvisato in meno di un’ora, una mezza bottiglia di rosso era ai piedi del divano, vicino a due calici vuoti. Capì l’antifona, sedendo a terra a gambe incrociate e in silenzio. E quando udì dei passi lievi dietro di sé, non dovette attendere molto prima di venir travolto da una valanga di baci: Charlotte gli si era gettata addosso, circondandogli il collo con le braccia, ed ora lo osservava, sorridente.
Le guance sporche della cioccolata che aveva mangiato qualche minuto prima.
Liam si avvicinò, dandole un bacio che potesse portare via la macchia ma che anche la facesse rabbrividire come piaceva a lui.
“Dorme?” la sentì chiedere con voce soffocata.
E lui annuì, mordendole una spalla bianca.
“Sai, quel bambino ti somiglia ogni giorno di più…” ammise poi, osservandola mentre afferrava i calici da terra e li riempiva di vino: gliene passò uno, facendo scontrare dolcemente il cristallo per una sorta di brindisi improvvisato; bevve, in silenzio, mentre la stringeva alla vita, sempre più contro il suo corpo.
“Uhm? Cioè?” volle sapere Charlotte, un sopracciglio teso a formare una curva ben precisa.
Liam sospirò, divertito. E scosse il capo, senza proferire risposta; sorseggiò ancora il vino, facendosi scorrere sulle labbra l’acre sapore fruttato che faceva da retrogusto. Perché spiegarglielo? L’avrebbe capito da sola, prima o poi.
Tanto valeva aspettare che quella luce bruciasse anche lei: calda come il fuoco, incandescente come il Sole.




 
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... A buon intenditor lol
Basta. Sparisco davvero. E spero d'aver fatto un buon lavoro! *-*
Love you all <3


Blue <3

 
  
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