Film > Peter Pan
Ricorda la storia  |      
Autore: lals_    25/07/2015    2 recensioni
"Perché ognuno ha bisogno di qualcuno, per fare questo percorso, ha bisogno di un’altra mano da stringere che prenda il posto di quella vecchia, ma che questa volta ti faccia risalire verso la superficie.
E Wendy ha trovato quella di Peter."
Una storia a cui tengo particolarmente, perché unisce i personaggi che amo ad una malattia che mi ha vista coinvolta, spero che non la prendiate male se ho stravolto un po' la storia :)
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Peter Pan, Wendy Darling
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Wendy non sapeva che cosa fosse l’anoressia.
Credeva di saperlo, come tanti lo credono, ma non aveva idea di che cosa la malattia nascondesse dietro di sè. Non aveva idea della paura, quella reale, quella che la mente riversava sul cibo, servendosi di esso come di uno scudo.
Wendy non sapeva che cosa fosse l’anoressia, ma imparò a conoscerla come una parte di lei. Perché era una parte di lei.
Lei, Wendy, la bambina perfetta. La bambina dai boccoli castani, dagli occhi celesti, la bambina dal bacio nascosto e dal corpo in furente trasformazione. La bambina perfetta dalla mente brillante, studiosa, diligente. La bambina che si prende cura dei fratelli quando a farlo dovrebbero essere i genitori.
Ma soprattutto, Wendy era la bambina che raccontava le storie. Era colei la cui immaginazione spaziava da ogni genere di mondo ad ogni tipo di creatura, colei che nella sua camicia da notte riempiva di gioia la stanza dei bambini. Colei che aveva vissuto l’avventura più bella in compagnia del ragazzo che per lei era perfetto.
Peter Pan.
Il suo nome le sarebbe rimasto impresso nella memoria e inciso sopra il cuore, là dove i battiti ancora si facevano più rapidi alla sola comparsa del suo ricordo. Il suo viso impertinente, furbo, incorniciato dai riccioli biondi. Il sorriso sbarazzino, gli occhi eccitati, il naso piccolo e all’insù. I suoi piedi scalzi, la sua voglia di avventure. Il suo coltellino.
Ma soprattutto, la sua felicità; quella felicità da bambino che gli permetteva ancora di volare.  
Wendy non avrebbe mai potuto trovare niente di anche solo paragonabile al modo in cui Peter sapeva volare, alla semplicità con cui si muoveva tra le nuvole, alla leggerezza che sembrava manifestare in ogni suo gesto.
Oh, sì, Peter era perfetto. Nessuna preoccupazione, nessun pensiero che non fosse felice. Nessun sentimento inopportuno ad intralciargli la strada o a confonderlo per la sua complicatezza. Peter era il bambino che non sarebbe mai cresciuto, l’unico che avrebbe potuto coronare il sogno di moltissimi altri. E Wendy, Wendy avrebbe potuto rimanere con lui. Avrebbe potuto mollare tutto, tutto il suo mondo, e dimenticare. Non pensare mai più alle cose dei grandi.
Ma Wendy lo sapeva, sapeva che “mai” era un tempo decisamente lungo, un tempo che lei non poteva permettersi. La sua perfezione, il suo senso del dovere, così leggeri e superficiali sull’Isola che non c’è, le erano piombati di colpo addosso quando Peter aveva pronunciato le fatidiche parole.
“E’ tutto per finta”.
Già, perché per lui non era altro che un gioco. Uno stupido, inutile gioco, che non serviva ad altro che a far passare il tempo. Wendy aveva imparato che la noia non poteva fare parte della sua routine, non poteva nemmeno sfiorare da lontano la sua giornata, e così nemmeno la responsabilità. Era tutto una corsa, una caccia al tesoro, una sfida che avrebbe vinto solo perché era lui.
E poi era arrivato l’addio. L’addio più doloroso, più triste, che Wendy avesse mai dovuto affrontare. Perchè non era stato concepito come tale, era stato brutalmente mascherato da uno stupido saluto, una promessa di ritrovarsi, di rivedersi.
- Tornerai a trovarmi? – gli aveva chiesto quella sera. La sera in cui aveva fato ritorno con i suoi fratelli in casa Darling. Ricordava ancora la finestra aperta, l’aria tiepida che entrava nella stanza già calda di affetto, Peter così vicino eppure già così distante. 
- Ad ascoltare le storie che parlano di me! – le aveva risposto sorridente, appena un attimo prima di sparire nel buio della notte, via, verso quella seconda stella a destra che gli indicava casa.
Wendy lo aveva aspettato, per quasi un anno. Continuando a ripetersi che sarebbe venuto. Continuando a raccontare storie su di lui nella speranza di vederlo comparire, o forse, solo per non dimenticarlo.
Wendy lo aveva aspettato, per quasi un anno, ma lui non era più andato da lei. E la ragazza non poteva fare altro che pensare che, magari, nella sua mente di bambino di lei non restava più nemmeno un vago ricordo.
 
 
All’inizio, il senso di abbandono e la malinconia l’avevano appena sfiorata, appoggiandosi su di lei con delicatezza quasi a voler testare la sua reazione ad un primo arrivo di tali emozioni. E poi, con il tempo, avevano cominciato a scavarle un buco nel petto. Avevano cominciato a divorarla, a demolirla, gravando su lei invisibili eppure presenti, gravando sulle sue spalle facendole piegare, e contaminando i suoi pensieri affinchè perdessero quel senso di spensieratezza che tipicamente la colmava.
Erano approdati, selvaggi, calando sui suoi occhi un velo nero che lei non era in grado di vedere, ma che dipingeva il mondo circostante di colori grigi e spenti. Londra stava sparendo, di lei a Wendy non importava più. Non le importava che piovesse o ci fosse il sole, non le importava più dello scorrere dei giorni, e anzi, lo temeva, perché significava solo una cosa, l’unica di cui ancora invece le importava: che il tempo passava.
Passava, incessantemente, inesorabile, e lei cambiava con esso molto più di quanto avrebbe mai desiderato fare, veniva modellata dal suo agire neanche il suo corpo fosse fatto di creta. Sembrava schernirla, gonfiandola un po’ di qua e un po’ di là, lì, sul seno, e poi ecco, un po’ su quei fianchi così dritti e spigolosi, e poi ancora sul viso, via, così rotondetto e infantile. Le attribuiva delle curve, curve che sembravano spuntare da un giorno all’altro, nel corso della notte, curve che le disegnavano onde fino ad allora inesistenti, curve che la facevano sentire adulta, e la spaventavano più di quanto la morte stessa non avrebbe potuto fare. Erano curve che non le appartenevano, che non riconosceva come proprie, che la rendevano estranea a se stessa. Wendy passava ore – ore – davanti a quello stupido specchio del bagno, a guardare il proprio riflesso da ogni angolazione, a cercare di catturare ogni cambiamento, per quanto minimo, per quanto trascurabile, per quanto invisibile.
Lei lo vedeva.
Lo vedeva e le appariva come un pericolo, un rischio troppo grande che non si poteva permettere, quello di crescere. Perché se fosse davvero cresciuta, se fosse diventata adulta, Peter allora non avrebbe mai fatto ritorno. Non l’avrebbe più riconosciuta, non l’avrebbe più voluta con sé sull’Isola che non c’è.
E lei prima o poi lo avrebbe dimenticato.
       
 
Tutto era cominciato così, in maniera quasi semplice per quanto una qualsiasi malattia possa esserlo. Tutto era cominciato con un semplice commento, pronunciato a voce alta, che aveva fatto scattare nella mente di Wendy una sensazione di panico tale da farla irrigidire con il cucchiaio da zuppa pieno fino all’orlo a mezz’aria.
“La nostra Wendy ormai è una donna”.
Suo padre aveva pronunciato quelle parole carico di affetto, e del tipico orgoglio che forse solo un padre può avere nel mostrare ai suoi amici una creatura da egli stesso generata e cresciuta: una figlia. Le aveva pronunciate a tavola, mentre cenavano con alcuni suoi colleghi, e la madre di Wendy le aveva fatto indossare per l’occasione un vestito attillato sul petto che le metteva in evidenza il seno, e dalla gonna un po’ più morbida che però – a parere di Wendy – la faceva sembrare ancora più grassa di quanto già non fosse.
La ragazza avrebbe ricordato per sempre quell’abito, lo avrebbe ricordato per sempre perché era stato lui la causa di tutto, era stato oggetto di odio e di disprezzo, era stato l’oggetto che aveva dovuto comprare in sostizione a tutti gli altri del suo guardaroba, che ormai le erano diventati piccoli. Aveva lo stesso colore dei suoi occhi, e forse per questo lo odiava anche di più.
Non lo avrebbe mai perdonato di averla umiliata davanti a tutti così.
Non lo avrebbe mai perdonato.
 
E da quel giorno – da quella sera – la soluzione al suo problema divenne, per Wendy, chiara e trasparente come lo erano le lacrime. Divenne semplice, forse quasi ovvia, e le si mostrò tanto allettante quanto minacciosa e, in un certo senso, sbagliata.
Per alcuni versi, era una soluzione logica; ma per altri, ed erano quelli che la ragazzina più ignorava, significava forse prendere parte ad un impegno che le avrebbe richiesto una costanza ed una inflessibilità che non era da tutti saper mantenere.
Se Wendy si vedeva grassa, si sentiva gonfia, con un cuore ancora piccolo in un corpo troppo grande, allora forse non avrebbe dovuto fare altro che adeguare ciò che trovava sbagliato a ciò che invece sentiva di avere dentro di sé. Lei era ancora piccola, innocente, quella ragazzina casta e perfetta, pura come lo era il cristallo, che sapeva di dover crescere ma che non era ancora in grado di farlo. Era disorientata, irriconoscibile, in quel corpo fatalmente troppo adulto per poter essere il suo.
Se Peter fosse tornato, quella notte, che cosa avrebbe pensato vedendola? Che cosa avrebbe visto, o provato, verso quelle gambe troppo robuste e forse un po’ flaccide, verso quel ventro gonfio e prominente? Che cosa avrebbe visto?
Wendy si convinse che non l’avrebbe riconosciuta. Che sarebbe volato via, un’altra volta, e che non avrebbe potuto fare altro che osservarlo andarsene di nuovo, forse un po’ confuso, e deluso, per non averla trovata ad aspettarlo. Sarebbe corso da quella Trilly, quella Trilly perfetta che non cambiava mai, che non era soggetta all’invecchiamento e che, per sempre, sarebbe rimasta nella sua eterea giovinezza e bellezza. Trilly era sempre stata gelosa di Wendy, l’aveva sempre invidiata nella sua semplicità, ma ora era la ragazza ad invidiare la fatina, lei che con le sue ali non abbandonava mai Peter, ma lo poteva seguire dovunque nelle sue avventure, lei con il suo fisico perfetto e le gambe affusolate e femminili, lei con la sua eterna perfezione.
Wendy non avrebbe mai potuto eguagliarla davvero, ma sapeva che ci doveva comunque provare. Doveva solo impegnarsi per imparare a rimodellare il proprio corpo come più le si addiceva, per mostrarsi all’esterno per ciò che sapeva di essere dentro, e cioè una bambina.
Non bisogna giocare a fare i grandi, era il suo pensiero ricorrente.
Non bisogna giocare a fare i grandi. 
 
 
Wendy aveva cominciato a mangiare un po’ di meno, ma senza dare troppo nell’occhio. Mangiava davanti ai genitori per non farsi riprendere a scartare le pietanze, resistendo solo a quei dolci che sempre più spesso la riempivano di ansia. Storgeva il naso, aggrottava le sopracciglia, accusava alcuni mal di pancia o fingeva indifferenza, a partire dal momento in cui venivano serviti a tavola alla fine del pasto.
Non le andava, preferiva un po’ di salato, oppure semplicemente doveva finire di studiare, e allora si rintanava in camera per non cedere alla tentazione che le faceva venire l’acquolina in bocca non appena poggiava gli occhi sopra il piatto prelibato.
E per quanto assurdo, le sembrava giusto comportarsi così. Quei dolci sarebbero stati il premio concesso al raggiungimento di un fisico ideale, che la rispecchiasse e che le permettesse di riconoscersi quando si guardava allo specchio. Non si sentiva in colpa, si sentiva potente.
Era forte. Era inflessibile. Perfettamente capace di imporsi un obiettivo e di non cedere. Era decisa, ferma e pretenziosa. Esigeva da se stessa più di quanto esigesse da chiunque altro, e le andava bene così.
Era convinta, al cento per cento, che tutto ciò che faceva fosse perfettamente normale. Tipico. Che tutte le ragazzine della sua età agissero come stava agendo lei, e che dovesse essere come loro.
Perché altrimenti, sarebbe stata tutt’altra cosa: sarebbe stata debole.
E Peter non amava le persone deboli. Le trovava sprezzanti. Indegni avversari che potevano essere solo derisi.  
E Wendy non avrebbe mai accettato di essere derisa da lui. Piuttosto avrebbe preferito rimanere sorda per sempre.
 
 
In soli due mesi, la ragazza aveva perso quasi un chilo.
Era entusiasta, euforica. Era soddisfatta.
Sentiva di avere il pieno controllo su se stessa, e forse era questo a renderla ancora più orgogliosa. Aveva gradualmente eliminato tutti i dolci, quelli che più preferiva per primi e poi via via a scalare sempre di più, a scremare qua e là ciò che vedeva di troppo, a pensarli come non necessari e quindi superflui.
Non era morta, si sentiva bene, e la pelle sembrava essersi anch’essa purificata ed essere tornata nivea come lo era un tempo. Si concedeva i pasti principali, e un paio di tazze di the nel pomeriggio quando la voglia di dolci raggiungeva il culmine e la distraeva dai suoi doveri di studentessa.
A poco a poco, era riuscita ad eliminare tutto lo zucchero anche da quello spuntino pomeridiano, eccitandosi ogni qualvolta riusciva a sentire lo stomaco pieno senza aver ingerito altro che semplice acqua calda.
Ma era stata quella stessa eccitazione, quello stesso desiderio di euforia, di sentirsi diligente, che l’aveva spinta a calare ancora.
Perché, nonostante il peso perso, ancora non si riconosceva. Insisteva nel continuo accentuarsi dei fianchi, delle cosce, che addirittura si toccavano quando aveva le gambe unite. Le osservava in ogni momento, quando si siedeva, quando camminava, quando era distesa; ne studiava i cambiamenti, la circonferenza, si faceva un’dea del diametro totale.
Ed era giunta alla conclusione che era ancora troppo.
Con il passare dei giorni, aveva iniziato a fare sempre più attenzione ai cibi che introduceva in quel suo corpo enorme, in quel suo corpo che – più lei si asteneva dal cibo – più sembrava gonfiarsi e ingrandirsi, dilatandosi ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.
Wendy non aveva mai rinunciato alla colazione, perché le era sempre stato ripetuto, fin da piccola, che era il pasto più importante della giornata e che andava soddisfatto nel migliore dei modi.
Ma ecco, quando si scivola in una rete di pensieri come quelli in cui Wendy era caduta, queste consapevolezze diventano forse più pericolose del veleno. Perché nulla diventa più tragico del numero delle calorie che aumenta nel corso di un’intera giornata.
Nulla.
E se la colazione doveva essere il pasto più abbondante, secondo una dieta sana, allora quello per Wendy doveva essere necessariamente quello più povero, più misero, più insignificante e ridotto al minimo indispensabile per poter rimanere in piedi fino al pranzo dell’una.
Era ciò che di più ideale esisteva, nella mente della ragazza. E non poteva accorgersi – come nessuno, del resto – di quanto questa idealità si stesse annidando dentro di lei prendendo lentamente il controllo sulle sue azioni.
Iniziò un giorno, così, per provare. Per vedere se era in grado di resistere.
Doveva farlo, doveva riuscirci. Lo sapeva come conosceva il suo nome, o la sua età. Lo sapeva come sapeva che Peter esisteva ancora. E che doveva farlo per lui.
E allora, si limitò a consumare quello che forse avrebbe sfamato un animale di piccola taglia. Si limitò a mandare giù quanto occorreva, lentamente, per non far insospettire i suoi genitori alzandosi da tavola nel giro di un paio di minuti.   
E si costrinse ad inghiottire una tazza di the insipido e nauseante per levarsi quella voglia di mangiare ancora.
 
 
Quel giorno andò bene. Riuscì a resistere. La soddisfazione per esserci riuscita fu così potente che a pranzo si concesse un cucchiaio di budino, dopo la solita insalata che ormai stava diventando una sua potente alleata.
Ma subito dopo averlo fatto, quando ancora stava ingoiando il boccone, si rese conto che non poteva permettersi di comportarsi così ogni volta, però. Si rese conto che non poteva permettersi un po’ di dolce ogni volta che restrigeva la colazione, altrimenti si sarebbe ritrovata da capo, e avrebbe compensato a pranzo quello che si era risparmiata a colazione.
Non avrebbe mai più dovuto fare qualcosa del genere. Mai più.
I sensi di colpa presero a divorarla ancora prima di salire in camera a studiare. Fece le scale in punta di piedi facendo contrarre i polpacci sperando di smaltire lo stupido cucchiaio di budino, le ridiscese fingendo di aver dimenticato un libro in salotto e poi le risalì, nello stesso modo, ansimante.
Se solo i sensi di colpa fossero sbiaditi assieme alle scale ormai dietro di lei.
Se solo  quello stupido cucchiaio di budino non se lo fosse mai concesso.
 
 
Wendy non stabilì mai che da quel giorno la colazione sarebbe sempre stata trascurata, così come non stabilì mai che l’insalata avrebbe dovuto riempire il suo piatto come unico alimento presente, a pranzo.
Non lo stabilì mai perché non si accorse di quanto l’attenzione che prestava al cibo stesse diventando ossessiva e rigida, ogni giorno di più, ogni giorno sempre meno sotto il suo controllo.
E sebbene non lo avesse mai stabilito, di fatto divenne così.
Wendy ridusse la colazione, quanto più riusciva a fare ogni mattina, con il terrore che un giorno si sarebbe svegliata e non sarebbe stata in grado di farcela, persuasa dall’idea che dovesse resistere il più possibile finchè era capace di farlo, come prevenzione verso se stessa. Ridusse lentamente, in principio, facendo dapprima una selezione degli alimenti che riconosceva come i meno pericolosi e in seguito delle quantità, passando dalla colazione al pranzo e alla cena, fino a quando il cibo stesso non divenne un tale pericolo che il suo corpo iniziò a percepirlo come tale, e a manifestare la propria paura attraverso nausea, vomito, mal di stomaco e repulsione.
Wendy non capiva che cosa le stesse succedendo, ma era talmente felice e rassicurata dai quei dolori evidenti che nessuno – né i suoi genitori, né tanto meno i suoi fratelli – potevano ignorare, che saltare i pasti in totale libertà accusando un disagio fisico non le era mai stato tanto semplice e ricco di sollievo. Non erano bugie, non erano scuse, ma erano i chiari segnali di una malattia sviluppata che stava facendo il suo corso.
E che Wendy continuava ad ignorare.
 
Naturalmente, il suo umore era mutato radicalmente negli ultimi mesi.
Era sempre preoccupata, nervosa, irascibile. Il suo pessimismo sfiorava limiti estremi, limiti che Michael e John intravedevano, ma che non osavano mettere in luce davanti a lei.
Il suo viso era spento, pallido – ma non quel pallido tipico di chi vive nella nuvolosa Londra; quel pallido livido, tendente al verde, talvolta al viola. Quel pallido malato, patologico, tanto evidente quanto semplice da ignorare per chi ne è afflitto.
E Wendy sì, ne era afflitta. Le sue serate si concludevano sempre più spesso con le lacrime sepolte tra i cuscini, la delusione pulsante nel cuore, il dolore acuto che sembrava dilaniarla.
Perché no, Peter non si era fatto vedere nemmeno quel giorno, nonostante tutto, nonostante il suo impegno, nonostante il suo visibile dimagrimento che faceva tingere gli occhi dei Darling di una preoccupazione palpabile.
Era tangibile, la tensione che si propagava nella stanza quando Wendy vi entrava, qualunque essa fosse. Era tangibile, la sua depressione.
Ma guai a chi avesse mai osato parlargliene, guai a chi avesse mai osato insistere per farle mangiare una sola cucchiata di piselli in più, una sola forchettata di arrosto che non si era lei stessa presa nel piatto. Sarebbe stato l’errore più grande, la causa scatenante di un moto d’ira e di lacrime.
E chissà Wendy quanto ne avrebbe sofferto.
Oh, sì, Wendy ne soffriva, terribilmente. Soffriva per qualsiasi cosa le capitasse nel corso di una qualunque giornata. Soffriva nel camminare, su quelle gambe ossute che non riusciva a vedere, soffriva nel concentrarsi, nello studiare assiduamente, consapevole che le sue medie scolastiche non avrebbero dovuto calare di una virgola, nemmeno di una cifra, perché erano tutto ciò che le rimaneva della vita.
Non aveva quasi più amici, le persone le stavano lontano, chi più preoccupato e chi di meno, ma per lo più spaventati dal suo sguardo malato e dal suo corpo così smagrito da fare quasi impressione.
Nessuno aveva più avuto il coraggio di dire che Wendy era un’adulta ormai, nessuno l’aveva più detto perché nessuno lo pensava più, e questo per la ragazza era sufficiente per continuare la sua folle restrizione, il suo astenersi dal cibo, la vertiginosa caduta verso il fondo del baratro del peso.
Quella vertiginosa caduta che lei ormai nemmeno controllava più.
 
 
Ed è così, in fondo.
E’ una malattia che non controlli più, che prende il sopravvento, e che ti conosce talmente bene da sapere a memoria le tue debolezze, come abbatterle, come farti crollare. Sa dove prenderti, dove colpirti. Diventi la peggiore nemica di te stessa.
E devi trovare il coraggio di rispedirla da dove è fuoriuscita, privarla della sua forza, schiacciarla sotto un peso più grande, un peso che non è indicato dai chili ma dal pensiero di chi vuole stare bene.  
E’ così, devi vincerla, un passo alla volta, ma scavando dentro te stessa per riuscire a trovarla, prima, e poi fargliela pagare per il male che ti ha fatto sussurrandoti all’orecchio che tutto andava bene. Devi lasciar andare la sua mano, quella mano che ti sta affogando, e lo so, è una stretta sicura, che ti dà fiducia, che ti  promette di far finire tutto, tutto il dolore, tutta la disperazione, e la sensazione di annaspare.
Ma bisogna lasciarla andare.
E perfino Wendy ha trovato il modo di farlo.
Perché ognuno ha bisogno di qualcuno, per fare questo percorso, ha bisogno di un’altra mano da stringere che prenda il posto di quella vecchia, ma che questa volta ti faccia risalire verso la superficie.
E Wendy ha trovato quella di Peter.
Ha trovato quella di Peter che ha volato da lei, in piena notte, entrando dalla finestra lasciata aperta. Ha visto il suo letto, e il suo viso, e le lacrime che scivolavano calde da un paio di occhi che ormai non riflettevano più niente.
- Wendy.
La sua voce era stata sufficiente per farle aprire gli occhi.
Wendy era troppo stanca per parlare, o per alzarsi da quelle coperte così pesanti per le sue braccia fragili e spigolose. La mattina dopo non avrebbe nemmeno ricordato se fosse stato tutto un sogno, oppure no.
- Credevo che mi avessi dimenticata. – si era limitata a sussurrare. 
Peter aveva sorriso, i suoi occhi color nocciola incorniciati dai riccioli biondi, ora proprio come allora.
- Io? Dimenticarti?
Wendy aveva tremato nel sentire l’ultima parola.
- Mai. 






*angolo autore*

Ciao :)
spero che non me ne vogliate se ho stravolto un po' la storia, mi rendo conto che forse è un po' angosciante ma è una cosa a cui penso da giorni e ho sentito il bisogno di buttare fuori tutto. La verità è che l'anoressia non viene mai associata alla paura di crescere, che si ribalta sul cibo, e invece è un aspetto davvero molto importante che spesso viene tralasciato, e ci si limita a dire che una persona è "anoressica" solo quando è davvero molto magra. 
Ne approfitto per fare un ringraziamento alla nutrizionista che mi segue adesso, e che mi ha teso la mano per aiutarmi a risalire dal buco in cui stavo cadendo. 
Grazie anche a tutti quelli che leggeranno, spero che vi piaccia

A presto

xx 
Lals_
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Peter Pan / Vai alla pagina dell'autore: lals_