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Autore: tyelemmaiwe    10/08/2015    7 recensioni
Anno valiano 1145,
I Vanyar, desiderosi di vivere ancora più vicini alla luce dei Due Alberi, stanno abbandonando la città di Tirion, dove abitano con i Noldor, per trasferirsi a Valimar.
Ho voluto provare a esplorare, attraverso una conversazione tra due miei personaggi originali, un vanya e un noldo, i pensieri di entrambe le stirpi in merito a questa decisione del popolo dei Vanyar.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Calandil si appoggiò alla balaustra, lo sguardo perso negli innumerevoli riflessi che Laurelin traeva dalle superfici dei marmi e dei metalli della città ai suoi piedi.
Si recava spesso in cima a una delle torri di Tirion, a volte persino sulle balconate più alte della Mindon Eldalieva, per non perdersi nemmeno uno di quei meravigliosi giochi di luce.
Avrebbe potuto trascorrere anni ad ammirarli, e ancora non gli sarebbero bastati per apprezzarli veramente. Ad affascinarlo non era la squisita fattura di ogni edificio, statua o fontana, ma le infinite e sempre nuove sfumature che quella meravigliosa luce dorata creava sui tanti materiali diversi, in ognuno degli angoli o degli archi della città.

Pensò che avrebbe potuto vivere di luce, senza altro cibo né acqua. Era ciò che aveva sempre sognato, ciò che, da giovane, credeva non avrebbe mai visto, qualcosa che, pensava, forse non esisteva nemmeno… e da cui, ora che l’aveva trovata, non si sarebbe mai più allontanato.

Durante quei primi anni nella Terra Beata aveva imparato a conoscere la diversa luce dei Due Alberi, e si era stupito di quanto gli fosse risultato facile abituarsi all’alternanza di oro e argento, come se fosse sempre stata parte della sua vita, come se l’avesse sempre scandita. Tra i due, però, aveva finito per preferire l’aureo splendore di Laurelin, con la sua luce così intensa da scaldare il corpo e il cuore. Amava anche il bagliore di Telperion, ma il suo argento lieve, misterioso come le stelle, non lo aveva mai ammaliato come era successo invece ai Noldor.

Laurelin e il suo fulgore erano per lui la più grande delle meraviglie di Aman, il centro stesso della bellezza e della gioia che permeavano ogni angolo della terra dei Valar.

Preso sempre di più da quell’incanto, aveva finito per convincersi, forse con una punta di orgoglio, di essere nato per vivere in quella terra per sempre, circondato da una luce che mai si sarebbe spenta, sotto la protezione dei grandi signori che mai avrebbero permesso al male di raggiungere le loro nuove case.

Quando poi, appena cinque anni prima, re Ingwe aveva parlato al suo popolo proponendo di trasferirsi a Valimar, lui era stato uno dei primi ad accettare, con un entusiasmo che era stato pari solo a quello che aveva mostrato il giorno in cui aveva accettato di lasciare Cuivienen per seguire il Signore Orome.

L’idea di poter vivere nella città che vedeva splendere in lontananza ai piedi dei Due Alberi lo riempiva di gioia a tal punto da fargli venire il desiderio di mettersi a cantare.
In quel luogo non c’erano ombre.
C’era solo l’abbagliante, avvolgente luce di Laurelin, con le sue infinite tonalità di oro liquido...

“Calandil!”

La voce di Ondorwe lo riscosse dai suoi pensieri. Sentì i passi dell’amico sul marmo del pavimento, ma non si voltò, aspettando che l’altro lo raggiungesse, e quasi sobbalzò quando sentì la mano di Ondorwe stringergli amichevolmente la spalla.

“Laurelin non si spegne, se smetti un momento di guardarla.”

Il divertimento nella voce di Ondorwe era più che evidente. Calandil si voltò, e il sorriso che credeva di avere sulle labbra doveva essere più che altro una smorfia, perché Ondorwe scoppiò a ridere.
Immaginò che dovesse essere appena tornato da uno di quei suoi interminabili viaggi sulle Pelori, perché aveva ancora la polvere chiara delle pietre tanto amate dai Noldor sparsa sugli abiti, le maniche tirate fin sopra i gomiti e l’espressione estatica che gli illuminava il viso e gli faceva brillare ancora di più gli occhi, già sempre accesi da quella curiosità insaziabile tipica della sua gente.

“Continuiamo a trovare tantissimi giacimenti di pietre meravigliose, Calandil…”

Iniziò a raccontare Ondorwe, gli occhi persi nei ricordi del lavoro appena concluso.

“Questa volta ne abbiamo trovate di verdi, verdi come i prati del Corollaire, brillanti come le foglie di Laurelin… Abbiamo già così tante idee su come rifinirle…”

Calandil lo ascoltò parlare senza sosta di quelle strane pietre luccicanti che comparivano all’improvviso tra il marmo e il granito, come se la bellezza dei prati si fosse insinuata nelle viscere delle montagne, e notò all’improvviso che la pronuncia di Ondorwe era leggermente mutata, ancora una volta.
Sorrise fra sé: la gente dei Noldor aveva dato il cuore non tanto alla luce, ma alle infinite scoperte che quella terra offriva. Le loro erano menti che non sapevano fermarsi, che avevano bisogno di provare, di scoprire. Non che non amassero la luce, anzi, per Calandil il modo in cui le loro gemme la rifrangevano era un tributo senza pari a quel dono fatto loro dalle potenze, ma i Noldor qualcosa di Cuivienen se lo erano portato anche in Aman: la gioia dello scoprire, del toccare per la prima volta qualcosa che mai avevano immaginato prima.
Persino ciò che già conoscevano, come il Quendya, non gli impediva di provare a cambiare, a modificare, a inventare usando ciò che avevano come le fondamenta per nuove e sempre più complesse costruzioni. Li ammirava per questo, anche se era convinto che non sarebbe mai riuscito a condividere nemmeno una delle loro tante passioni.

“Calandil?”

Calandil si riscosse, sentendosi un po’ in colpa per la scarsa attenzione che prestava sempre quando l’amico raccontava. Ondorwe però non pareva offeso, anzi, lo stava osservando con attenzione.

“Che cos’è che ti impensierisce tanto? Non hai mai ascoltato troppo volentieri i miei racconti, ma oggi sei particolarmente distratto.”

“Scusami” Iniziò a rispondere Calandil, “E’ per via della partenza imminente…”

Ogni traccia di sorriso scomparve dal volto di Ondorwe, che lo guardò dritto negli occhi, con un’intensità tale da farlo quasi indietreggiare.

“L’idea di lasciare per sempre questa città ti rende così felice?”

Gli chiese, apparentemente calmo, anche se Calandil sapeva che in realtà non lo era affatto.
Sin da quando gli aveva annunciato per la prima volta che avrebbe seguito il suo popolo a Valimar, Ondorwe aveva cercato di fargli cambiare idea in ogni modo, incupendosi sempre di più mano a mano che i suoi tentativi fallivano, e mano a mano che vedeva quanta felicità gli provocava l’idea di andare a vivere fuori da Eldamar.
Calandil sapeva che Ondorwe rispettava la sua scelta, perché si conoscevano da quando erano bambini e Ondorwe sapeva bene i motivi che lo avevano spinto a quella decisione, ma la notizia della partenza di Ingwe per Valimar, e ancora di più il fatto che tutta la sua gente lo stesse seguendo, sembrava turbarlo più di quanto Calandil si sarebbe mai aspettato.
“No, ma sai quanto questa scelta sia importante per me.”

Rispose Infine Calandil, sincero.

“Perché questa notizia ti infastidisce così tanto?”

Si decise a chiedere dopo una pausa, cercando una volta per tutte di capire cosa avesse il suo amico contro quella partenza.
“Perché non vi capisco.”

Rispose Ondorwe, schiettamente.

“Abbiamo costruito questa città insieme, per viverci insieme. Su queste mura e queste torri abbiamo lavorato insieme, e sono stati anni splendidi, almeno, questo è il ricordo che ho io. Che cosa vi ha spinti a voler fuggire da questa città come se vi ci avessimo rinchiusi?”

Calandil sgranò gli occhi, sorpreso da quell’affermazione.

“Rinchiusi? No! Non pensare mai una cosa del genere, Ondorwe, perché non è assolutamente vera. Non stiamo fuggendo, né rinneghiamo gli anni di gioia passati a costruire questa incantevole città... solo, la mia gente desidera sopra ogni cosa la pace e la luce, e vogliamo andare a cercarle nel luogo in cui le sentiamo di più, da cui ci sembra abbiano origine. Io desidero solo luce e gioia, per il resto della mia vita. Non voglio più ombre, non voglio più rivedere Endore né sentire il rumore del mare. Voglio appartenere a questi luoghi come se ci fossi nato e cresciuto.”

Calandil si interruppe, notando l’espressione sempre più cupa sul volto di Ondorwe.

“Esistono altre gioie, oltre alla luce, Calandil. Esistono altre meraviglie che toccano il cuore e l’anima fino a farti cantare, che fanno desiderare di poterle contemplare per sempre senza stancarsi mai. Non potete vivere solo di questa luce, o finirà per offuscare tutto, persino voi stessi.”

La voce di Ondorwe era grave. Si era avvicinato anche lui al parapetto, senza smettere di guardare Calandil, che a sua volta non riusciva a distogliere gli occhi dall’amico.

“Siete arrivati qui quasi correndo, coprendo le miglia della nostra marcia quasi aveste le ali come la gente di Manwe. E tu per primo. Mentre camminavamo credevo che fosse per la curiosità, e per il desiderio di lasciarti alle spalle il buio… ma ora mi rendo conto che a turbarmi era qualcos’altro.
Tu non hai mai dedicato nemmeno uno sguardo ai fiumi e ai monti di Endore che abbiamo incontrato durante la marcia, e, da quando siamo qui, non hai guardato altro che la luce emessa da Telperion e Laurelin, come se tutto il resto non avesse lo stesso valore. Perché?”

Calandil riflettè un momento sulla domanda di Ondorwe, voleva dargli una risposta sincera, e che rispondesse appieno alla sua domanda.
Il suo amico era riuscito come sempre a vedere cosa aveva veramente nel cuore, e sapeva che non si sarebbe accontentato di nulla che non fosse una risposta totalmente sincera.

“Ho finito per temere, per detestare il buio come se fosse esso stesso uno dei mostri che ci perseguitavano a Cuivienen. Persino quando le stelle splendevano di più, senza nemmeno l’ombra di un velo a coprirle, temevo che, se allontanavo lo sguardo dal cielo o dagli spazi aperti, il buio avrebbe divorato anche quella bellezza… sono luci così piccole, le stelle che abbiamo conosciuto da bambini… Tutti i luoghi che abbiamo attraversato durante la marcia mi davano questa sensazione, e io volevo solo che finisse.”

Ondorwe gli si avvicinò, posando una mano sul suo braccio.

“Non voglio che questa paura distrugga tutti i tuoi ricordi della nostra infanzia, Calandil… siamo stati felici, presso le Acque del Risveglio. Ricordi quando eravamo bambini, e passavamo giorni interi a giocare con le mani nell’acqua del lago? O quando, da più grandi, ci lanciavamo ogni volta una sfida nuova? Non dimenticare tutto questo, ti prego. Fa parte di te. Non avevi paura, in quei momenti. Ti bastava la luce delle stelle nel cielo, allora, costante e incantevole, proprio come bastava a me.”

Calandil si sentì pizzicare gli occhi, mentre l’amico rievocava alcuni dei momenti più belli della loro lunga amicizia. Non voleva che pensasse, nemmeno per un momento, che lui intendesse disfarsi di tutto ciò che avevano vissuto insieme come se non fosse mai esistito.

“Non ho nessuna intenzione di gettare via quei ricordi, e ancora meno di gettare via la nostra amicizia!”

“Solo… voglio conservare soltanto quelli. Voglio dimenticare la paura, l’incertezza, i costanti ammonimenti che ci rivolgevano i più anziani quando vedevano che ci allontanavamo troppo, la disperazione di chi si accorgeva che un parente, un figlio, un amico, era scomparso all’improvviso e non sarebbe più tornato… Tutto questo lo voglio dimenticare, Ondorwe, perché il ricordo mi provoca troppo orrore.
E sento che questa luce lo può cancellare. Ci è quasi riuscita.”

Ondorwe sospirò.

“Voglio che tu sia felice, Calandil, e se questo può renderti felice, non sarò certo io a trattenerti. Anche io a volte vorrei cancellare quei ricordi, ma ho capito che in realtà mi basta sapere che qui non si ripeteranno quegli orrori.
Mi basta la certezza che qui il Cacciatore non verrà, che qui non sparirà nessuno, che qui potremo allontanarci senza nessun timore.”

si fermò un momento e poi aggiunse, con un lieve sorriso:

“inoltre, io amo ancora la luce delle stelle, che considero bella quanto quella dei Due Alberi. Non penso che potrei essere del tutto felice, senza poter vedere anche il cielo illuminato solo da loro. E su questo colle ho trovato ciò che cercavo.”

“E io desidero che questa felicità tu non la perda mai.”

Disse Calandil, con un sorriso.
Abbracciò L’amico, e lo sentì ricambiare di slancio, la stretta che per un momento gli fece mancare il fiato.

“Tornerò qui a trovarti, di tanto in tanto, te lo prometto.”

Mormorò Calandil, appoggiando il mento sulla spalla dell’amico.

“Se non lo farai, verrò io a cercare te! Non pensare di liberarti così facilmente di me.”

Ribattè Ondorwe sulla sua spalla, e Calandil rise.

Sciolsero l’abbraccio e Calandil si allontanò lentamente per scendere dalla torre.
Poco prima di lasciare la balconata si voltò, e vide che Ondorwe si era a sua volta appoggiato alla balaustra, lo sguardo perso a cercare chissà quale dettaglio delle costruzioni,o chissà quale scintillio lontano delle gemme appena estratte.

L’aria era piena del vociare degli elfi nelle strade, delle grida dei bimbi che giocavano da qualche parte nei giardini, dei suoni dei martelli e degli scalpelli dei Noldor intenti alle loro attività preferite, e, di tanto in tanto, una o più voci intonavano un canto in lontananza.

Sorridendo ancora, Calandil si affrettò giù per la lunga scala della torre. Voleva terminare al più presto gli ultimi preparativi, e finalmente partire.


Note dell’autrice:

Questo è il primo racconto che provo a pubblicare su questo sito…
E’ un’idea che mi ronzava in testa da un po’: ogni volta che leggevo il Silmarillion, mi chiedevo quali fossero esattamente i pensieri dei Vanyar in questo particolare momento, che cosa li avesse spinti a lasciare così presto la città di Tirion…
E che cosa ne pensavano da parte loro i Noldor di questa scelta?
E alla fine, all’improvviso, mi è arrivata l’ispirazione, e ho deciso di provare a buttarmi.

I due protagonisti sono due miei personaggi originali: mi piaceva che fossero due elfi qualunque i protagonisti, anche per dare spazio ai tanti elfi di cui non sappiamo nulla.
Ho immaginato che siano due elfi nati a Cuivienen, e che siano cresciuti insieme, legati sin da bambini da una grandissima amicizia.
Il nome Calandil significa: “Amico della luce”, mentre Ondorwe dovrebbe significare “Persona delle pietre”.

Quendya è la versione più antica della parola Quenya: i vanyar hanno continuato a utilizzare questa forma, mentre i Noldor hanno iniziato subito a modificare il modificabile XD.

Endore invece è la parola Quenya per Terra di Mezzo.

Spero sinceramente che questo raccontino vi sia piaciuto!

Ringrazio tantissimo chi leggerà, e se vorrete lasciarmi un commento, anche critico, ne sarò felicissima: essendo il primo racconto che pubblico, ricevere un parere costruttivo dai lettori mi aiuterebbe tantissimo a migliorare.

Spero a prestissimo!

Tyelemmaiwe

  
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