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Autore: lulubellula    11/08/2015    0 recensioni
Rumbelle, what if, post "Skin Deep".
"L'amore ha ucciso molto più di qualsiasi guerra" e questo Rumple lo sa bene, non fa che ripeterselo da anni, soprattutto dopo l'arrivo di Belle al Castello Oscuro. Non fa altro che ripeterselo finché le parole non perdono del tutto significato.
Una volta oltrepassato il limite vorrebbe tornare sui suoi passi, fingere che nulla sia accaduto ma non può poiché tutte le azioni portano con sé delle conseguenze, delle conseguenze del tutto inaspettate.
RumbelleBaby
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Regina Mills, Signor Gold/Tremotino
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Chasing stars
 
Il sole illuminava fiocamente la sua stanza, spoglia come non lo era mai stata, ormai lui aveva tolto tutto quello che la facesse sembrare ancora sua.
Un misero letto in ferraglie arrugginite e delle lenzuola che certamente avevano visto tempi migliori e un cuscino, almeno quello comodo –così  soffocherai i singhiozzi con quello e io potrò lavorare in santa pace! –ancora le sembrava di sentirgli ripetere quelle parole.
Ancora le sembrava di sperare che lui le avesse donato un cuscino per dormire più comoda e non per metterla a tacere.
Ormai non ci sperava più.
Erano passati i giorni e poi le settimane da quella notte magica, per la precisione sei settimane, cinque giorni e undici ore.
Ed erano sei settimane, cinque giorni e undici ore che lui la stava evitando come la peste, evitava di incrociare i passi e gli sguardi con lui, la trattava con freddezza mista a indifferenza e noncuranza.
Lei era ferita dal suo comportamento, per la prima volta da quando viveva nel castello oscuro si era sentita una prigioniera, schiava di quelle mura fredde e buie, schiava di quelle finestre di nuovo scure e minacciose, con delle tende pesanti che impedivano l’entrata della luce del sole, quelle tende che lui aveva provveduto a inchiodare di nuovo.
Provò a scacciare quei pensieri dalla mente e ad alzarsi controvoglia dal letto, aveva le solite faccende quotidiane da sbrigare, pulire, spolverare, preparare i pasti e …
Tentò di alzarsi e venne colta da un capogiro, si appoggiò al muro per non cadere a terra ma non fu abbastanza svelta e cadde.
Il pavimento era di materiale grezzo e lei si graffiò le ginocchia, i gomiti e, quello che la spaventava di più, anche parte del volto.
I graffi alle ginocchia e ai gomiti si potevano nascondere sotto ai vestiti, quelli al volto no.
Trattenne una lacrima e si rialzò in piedi, poi si sedette sul bordo del letto e riprese fiato.
Doveva restare calma e non lasciare che un avvenimento senza troppa importanza come quello le rovinasse la giornata; gli affanni di quei giorni erano già abbastanza senza che lei provasse ad aggiungerne altri.
Si avviò verso la sua piccola scrivania e prese la spazzola iniziando a sistemarsi i capelli castani, nello specchio vide il suo riflesso, la sua pelle bianca, le occhiaie pronunciate, gli occhi tristi e quei due o tre graffi che si era appena accidentalmente procurata.
Era un tale disastro!
Finì di ravviarsi i capelli e li legò lasciandoli ricadere su un lato, poi indossò il suo vestito preferito, quello azzurro e bianco, semplice e pratico, adatto alle sue incombenze da domestica.
Controllò l’orologio, mancavano pochi minuti alle sette e lei non era ancora scesa nelle cucine a preparare la colazione per Rumple.
Indossò in tutta fretta le calze e le scarpe e si avviò con una certa fretta verso la dispensa.
Prese il bollitore e lo riempì d’acqua, poi lo mise sul fuoco e nell’attesa iniziò a preparare le uova e la pancetta.
Poi si dedicò all’impasto per i pancakes che servì in un vassoio con abbondante frutta fresca tagliata a fette e sciroppo d’acero.
Animata dai profumi e dai sapori dell’abbondante colazione, tolse il bollitore dal fuoco e mise in infusione il tè, poi adagiò tutto quanto su un carrellino nell’attesa di portarlo in sala da pranzo.
Nonostante i silenzi di Rumple e le occhiatacce che erano seguite a quell’avvenimento, i pasti erano rimasti qualcosa di sacro per lui, in particolare la colazione e il tè delle cinque, per cui continuava a permetterle di consumarli a quello stesso tavolo in sua presenza.
Tuttavia lei aveva smesso da tempo di farlo, preferiva mangiare qualcosa nelle cucine da sola, oppure in camera sua.
La presenza di Rumple la metteva di nuovo a disagio e si sentiva del tutto un pesce fuor d’acqua, sapeva che quello che era successo quella sera era stato forse avventato, forse impulsivo, forse un po’ egoista, ma non sbagliato, non qualcosa di cui vergognarsi, non qualcosa da dimenticare.
Per questo non ce la faceva a stare seduta allo stesso tavolo con lui, non riusciva più a guardarlo negli occhi, a sentire la sua risata echeggiare nell’aria, anche se a dire la verità, quella sua risata si era spenta quella sera e non l’aveva sentita più.
Fece qualche passo al tavolo tenendo la testa bassa e cercando di non avvicinarsi troppo al cibo: i pancakes che fino a qualche istante prima trovava tanto invitanti ora le davano la nausea.
Arrivata nel salone, trovò Rumple già seduto a capotavola e si apprestò a servirgli la colazione.
Prese tra le mani il vassoio con le uova, la pancetta e i pancakes e li appoggiò sul tavolo, facendo ben attenzione a non sporcare la tovaglia e a non rovesciare nulla a terra.
Le mani le tremavano leggermente e quella brutta sensazione di malessere non accennava a quietarsi.
Prese fiato.
“Avete preparato cibo a sufficienza per un esercito. State forse cercando di farmi mangiare fino alla morte?” chiese lui con una nota di sarcasmo nella voce.
Erano le prime parole che le rivolgeva da giorni e non erano un granché, ma lei aveva imparato che dietro alle sue battute spesso si celava un disperato tentativo di ricucire gli strappi procurati dai suoi comportamenti rudi.
Belle non alzò lo sguardo, sapeva che se lo avesse fatto sarebbe stato un disastro.
“Devo avere esagerato. Mi dispiace” disse con la voce strozzata.
Prese l’altro vassoio, quello con la teiera e le tazze e lo sollevò a fatica, le mani avevano preso a tremarle con maggior vigore.
Cercò inutilmente di tenere il tutto in equilibrio ma fu tutto inutile: tazze, piattini, zuccheriera e teiera caddero a terra e il liquido bollente le scottò le gambe e le braccia.
Si lasciò sfuggire un gemito di dolore che mise a tacere mordendosi il labbro inferiore.
Aveva combinato un disastro!
Rumple le si avvicinò preoccupato e la aiutò a raccogliere i cocci.
“Fammi vedere, Belle, ti sei ferita?”.
Belle non osò dire nulla e continuò a raccoglierli e a cercare di asciugare il pavimento come meglio poteva, provando a non pensare al dolore delle scottature, alla nausea, alla testa che continuava a girarle e al ronzio nelle orecchie.
Aveva solo bisogno di pulire quel pasticcio, di bere e mangiare qualcosa e di prendere una boccata fresca, mentì a se stessa.
“Belle, guardami!”.
La sua voce era diversa dal solito, non era adirata né colma di rimprovero, tutt’altro, se solo non fosse stato impossibile pensarlo in quel momento, Belle avrebbe creduto che lui fosse preoccupato.
Alzò gli occhi verso di lui e gli mostrò il suo giovane volto ferito, c’erano i graffi, certo, ma era qualcos’altro a preoccuparlo: aveva gli occhi colmi di lacrime, sembrava spezzata.
Lui l’aveva spezzata.
“Cosa ti è successo?” le chiese sfiorando il suo volto con i polpastrelli e asciugandole gli occhi.
Era un gesto così intimo e inaspettato che lei rimase senza parole per qualche istante.
Sarebbe bastato poco, così poco per arrivare a lui, per sfiorare le sue labbra e accarezzare il suo collo, così poco per perdersi di nuovo in lui e lui in lei.
Ma non accadde nulla di ciò.
Erano sei settimane, cinque giorni e undici ore dall’ultima volta che si erano baciati, dall’ultima volta che si erano persi l’uno nell’altra e si erano amati senza freni, senza paure, senza imbarazzi.
Sei settimane, cinque giorni e undici ore dall’ultima volta e dalla prima.
Lei non poteva dimenticarselo e nemmeno lui.
Ma non poteva nemmeno scordarsi i silenzi di Rumple, il suo sguardo di rimprovero e neanche il letto e la casa vuoti la mattina successiva.
Se n’era andato.
La scusa era quella di sbrigare vecchi affari lasciati in sospeso, ma era appunto questo: una scusa.
Lui l’aveva gettata via come un vestito smesso, come un giocattolo che non ti diverte più, come una cosa senza troppa importanza.
No, non poteva passare sopra a tutto questo, non ora almeno.
Spostò con forza la mano di lui, portò via il servizio da tè, quello che ne restava almeno, e tornò verso le cucine senza voltarsi indietro.
   
 
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