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Autore: TheEldestCosmonaut    14/08/2015    1 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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< Era piena stagione piovosa; se così non fosse stato, Picco Aquila non sarebbe stato tanto invaso dalla neve, nemmeno a quell’altitudine, e la visione dell’immensa vetta scolpita a somiglianza della maschera di Praconrem, sommo protettore del Popolo dell’Aria, non sarebbe stata impedita, ridotta a una cupa ombra gigantesca che si stagliava di fronte a loro, in lontananza, appena in risalto tra il grigiore brillante di ogni cosa.
Radiclon tremò. Tremo per centinaia di motivi diversi, e il gelo sovrano della neve era l’ultimo di questi. Tremò di meraviglia per la neve stessa: non l’aveva mai vista con i propri occhi in precedenza, non l’aveva mai toccata, non aveva mai avuto un diretto contatto con i cambiamenti che essa provocava nel paesaggio. Avendo fino ad allora vissuto unicamente a Karmil, con periodici soggiorni nella Foresta Silente, ed essendo solo di recente, dopo la morte del padre, giunto ad abitare stabilmente a Dalarlànd, la quasi interezza di Gorm era per lui un mistero e una meraviglia continui. Tremò anche di delusione, per non poter assistere, a causa della neve, all’opera monumentale di modellamento della natura da parte di aerei e terricoli, decenni prima. Soprattutto, però, tremò di amarezza, sconforto e un profondo timore: i suoi primi anni su Gorm non erano stati affatto tranquilli, gloriosi per il suo trionfo al Torneo di Astreg, ma fu una serenità che durò poco, ed ora li viveva in guerra. Il motivo per cui i suoi nonni avevano scelto di rifugiarsi su Karmil a tempo indeterminato e non mettere più piede su Gorm, né far correre quel pericolo ai loro figli e nipoti. Non si sarebbe mai immaginato di arruolarsi spontaneamente, e che, per di più, ad appena 21 anni, gli alti dirigenti dell’esercito notassero in lui un potenziale tanto grande da inserirlo in quel gruppo speciale per una missione segreta che avrebbe potuto significare la fine rapida delle Guerre di Riconciliazione.
Il Popolo del Vulcano, silenziosamente, all’inizio del 874, aveva dato avvio a un’imponente campagna militare, conquistando la vetta di Picco Aquila. Sfruttando, per di più, un’abbattuta nave volante karmiliana, e costruendone una propria, dando una spaventosa dimostrazione del loro ingegno. Totalmente inattesi e invisibili – essendo peraltro il Popolo dell’Aria da poco uscito dalla sua guerra civile e ancora turbolento – un piccolo battaglione, sulla nave volante, riuscì a sbarcare indisturbato in prossimità dei Rifugi Parlanac. Una volta lì, fu un gioco da ragazzi aprire varchi spaziali per farvi giungere forze e risorse in gran numero e stabilirvi una base militare. Discendendo dalla cima e non di rado sfruttando valanghe, assalirono molti centri del Popolo dell’Aria, costringendo molti alla fuga ad Orsol, che ancora resisteva, nelle caverne all’interno del monte, o nella Fortezza Volante. La conquista di Picco Aquila non pareva però il loro obiettivo primario: discesero la montagna e invasero la costa lungo lo Stretto di Gorm, invadendo anche la Piana di Astreg. Imposero il blocco navale sullo Stretto e, su Darth Kuun, occuparono tutta la zona costiera ad est e ad ovest del Deserto, tenendo sotto scacco e chiusa al contatto con Aria e Foresta la Terra.
La situazione era tragica ma non troppo, essendo le città di Ilabukh e Rabukh rivolte alla tirannia di Magmion, Lavion e Orrore Profondo; combattendo a fianco di Garsomor, le due città davano filo da torcere dall’interno al Vulcano, ritardando e indebolendo l’afflusso di forze verso Dalarlànd: sembrava infatti che fosse l’invasione della Foresta Silente la priorità dei triumviri, lasciando Roscamar e Garsomor per dopo.
Radiclon tremò ancora, verso la fine del 875, inerpicandosi il più rapidamente possibile in diversi piedi di neve in una zona boschiva nella cima più alta e più fredda di Gorm, in formazione lineare con i quattro commilitoni assassini: un aereo, una vulcanica, e due terricoli. Uno di questi, il capitano della squadra. Tremò per quello che lo aspettava, e per ciò che si lasciava alle spalle.
Non aveva mai ucciso nessuno da un anno a quella parte, e a guerra avviata si rese conto con sgomento di quanto fosse facile bruciare la vita altrui. Non per lui particolarmente, quanto in generale: la morte poteva cogliere chiunque, nel modo più inaspettato, nel tempo più prematuro. Fino ad ora non si era mai pentito di essersi arruolato ma, per Fendril ed Asili, era molto tentato dall’abbandonare la campagna e ritirarsi da tutto.
“Entriamo, l’accampamento si trova oltre questi alberi. – ordinò il capitano terricolo Tremoriu, additando con una delle sue tre quattro dita sottili una zona particolarmente fitta di abeti, all’interno della quale lo strato di neve era decisamente più sottile; anzi, la bufera sembrava starsi calmando: i contorni di Picco Aquila vero e proprio si facevano più nitidi, ma all’interno del bosco Radiclon non poteva sperare di avere una visuale migliore di esso – Stiamo attenti ad eventuali trappole.”
Radiclon si tastò gli indumenti alla ricerca del pacchetto contenente l’impasto di miele, cuore d’agnello, agromanto e uvetta macinata, una riserva di energia altamente calda e calorica, nonché saporita, ben più efficiente del semplice calore conservato in pietre cristalline. Con quel freddo, poi, era un’opzione molto più gradita. Il forestale temeva di averlo perso, non sentendoselo più cozzare sulla cintura – il freddo e la neve gli avevano un poco indebolito la sensibilità. Con la larga mano, sfiorò per caso la spada lunga e sottile appesa con un laccio e ben stretta per fare il minimo rumore dall’altra parte della cintura. La medesima tipologia di spada forgiata ed utilizzata dalla gente di Karmil, e l’unica arma di una certa taglia che tutti i cinque, nessuno escluso, portavano seco.
Altre armi consistevano in coltelli, pugnali, boccette di veleno, bacchette per la magia, archi e frecce – quest’ultimo Radiclon non l’aveva però. Per la loro missione armi erano sconsigliate armi troppo appariscenti e violente, suggerite quelle invece piccole, silenziose e veloci nel trarre l’ultimo respiro da un nemico. L’idea dei Signori alleati nell’ultimo anno di guerra, sulla base di informazioni ottenute da infiltrati vulcanici – ma non solo – in territorio nemico, era infatti l’assassinio sistematico dei capi supremi del Popolo e dell’esercito del Vulcano, i cosiddetti Triumviri. Essi avevano spinto, con le buone e con le cattive, i loro uomini alla guerra. Tolti di mezzo, la guerra si sarebbe conclusa presto. O così speravano.
“Attiviamo il mimetismo, incantesimi di protezione e di visione.” Tuonò Tremoriu, mossi i primi cauti passi all’interno del bosco. Poi la comunicazione si fece esclusivamente mentale.
Procediamo con calma e guardiamoci le spalle l’un l’altro. Siamo vicini, ormai, e non possiamo rischiare di rovinare tutto ora.
Mentre tutti e cinque ruotarono l’ingranaggio nel bracciale della loro armatura Neor’gani, mettendo in funzione l’abilità mimetica, avviando al contempo il potere del mimetismo che si erano iniettati, e si illuminarono i loro occhi di verde per l’incantesimo di vista magica, Radiclon guardò uno per uno i suoi compagni da ben poche decimane, finora di solo allenamento, con cui, sperando che tutto andasse per il meglio, avrebbe lottato e lavorato per almeno metà mese, finché l’ultimo dei Triumviri non fosse morto.
Elasian, la vulcanica. Pressoché uniformemente d’un cremisi chiaro, molto alta e molto muscolosa, per gli standard femminili, ovviamente. Un volto dotato di un occhio solo, giallo ambra, e di forma vagamente pentagonale, allungato e stretto, con la punta in alto. Detta Sparafuoco per le potenti e lunghe fiammate che amava emettere da tutte e otto le dita, quattro per mano.
Picchiavex, l’aereo. Un tipo piuttosto in carne, con un bel gonfio collo, ma non per questo poco agile. Ali candide molto articolate per la sistemazione e la forma delle piume, un piumaggio azzurro tenuissimo che lasciava scoperto il blu notte di spalle, bicipiti, cosce ed addome. Occhi giallo canarino e becco e artigli magenta. L’avambraccio sinistro era costituito da una sorta di arpione grigio di pelle più robusta, con le squame regolate a dare l’impressione che fosse una trivella.
Darnogos, il terricolo. Pelle di scaglie molto grandi senza palese peluria, bruna e dai muscoli possenti, sui bordi dai riflessi dorati e grigi su gambe, petto, braccia. La testa era ovale, insolitamente piatta e allungata nel verso parallelo al suolo. Era, almeno a prima vista, privo di labbra e i denti erano blocchi compatti gialli. Creste brevi e scarsamente massicce bruno scuro sormontavano sopracciglia e fronte. Una piccola coda concludeva il tutto, dall’altra parte.
Infine il capo della squadra Tremoriu, detto Trematerra per la sua maestria dello Squarcio del Behemoth. Carnagione di un cupo marrone, un capo allungato con vistose lunghe orecchie, che ricordava quella di un armadillo, un po’ allungata e ricoperta lungo la fronte fino al naso di una copertura naturale di squame robuste a forma di freccia, ocra, così come sulle braccia – lunghe quasi quanto quelle di Radiclon, che piegandosi leggermente poteva toccare terra con le dita – sull’addome e sulle cosce. Possedeva ambo le mani e in entrambe cinque dita. Tutti e quattro avversari feroci e temibili, i più pericolosi insieme, Radiclon azzardava a dire. Su di sé, invece, non osava esprimersi.
La combinazione dell’invisibilità dell’armatura Neor’gani e del veleno del mimetismo del grande daicao rese l’intera squadra invisibile a se stessa – poi di nuovo visibile per l’uso degli occhi magici –, salvo per il vuoto che lasciavano nella neve e la stessa che ricadeva su di loro. Il potere del mimetismo ben presto risolse anche queste complicazioni, ma con i fiocchi che continuavano a cadere non erano mai totalmente invisibile. Un vero prodigio, quel veleno, con la sola pecca che usarlo per lunghi periodi esauriva rapidamente le energia. Ma la squadra di assassini era ben rifornita.
Una volta all’interno del rado bosco, la neve che cadeva fu immediatamente un problema inesistente. Rimaneva ancora il problema delle impronte sullo strato nevoso che, per quanto ben più lieve che all’esterno, non potevano essere nascoste – finché uno dei gormiti rimaneva fermo, l’impronta non c’era, ma non appena si spostava ecco che appariva.
Incamminandosi tra le disordinate fila di pini ed abeti, mostrando curiosità e forse persino deconcentrandosi per i curiosissimi frutti legnosi che non aveva mai visto, Radiclon notò immediatamente che il fischiare della bufera, rallentata e attutita sì dalla copertura vegetale, non nascondeva il suono dei loro passi che comprimevano i delicati cristalli di ghiaccio. I quali, oltretutto, potevano celare rumorosi rami secchi o altro materiale che avrebbe destato allarme alle orecchie di possibili guardie presenti. Non pensava che qualche animale – non aveva nemmeno idea di che animali vivessero in quell’ambiente – potesse provocare rumori sospetti. Sopraggiunse poi Elasian ad aggiungere la sua osservazione: Attenti a dove mettiamo i piedi. Con questo incantesimo possiamo vedere trappole magiche, ma non quelle tradizionali.
Lo sappiamo bene, Sparafuoco. – si lagnò Picchiavex – Per chi ci hai preso?
Voglio solo essere sicura. Si giustificò, con tono assente.
Elasian ha fatto bene a ricordarcelo. – fu dalla sua parte Trematerra – Ripeto: massima cautela. Nemici od ostacoli potrebbero presentarsi in qualsiasi istante, d’ora in avanti.
Ecco i primi, capitano. Avvisò asciutto Radiclon. Che in realtà, nel profondo, tanto tranquillo non era. Era agitato e tremava – non aveva mai smesso – non solo per il freddo.
Da dietro un tronco più largo degli altri, spuntarono infatti come funghi velenosi cinque di quelle aberrazioni cornute, azzurrognole come i soffocati e nere come la peste che prendevano il nome di Soldati Scuri modello X variante 47. Procedevano ordinatamente in fila, spaventosamente lenti come solo loro potevano essere, in una direzione a sinistra del gruppo di Trematerra, che si era immobilizzato. Non emettevano un rumore, quei mostri senz’anima dallo sguardo vuoto ed orribile, colando saliva dalle loro esagerate fauci slabbrate, costantemente serrate come tagliole.
Trafugati all’avvio della campagna del Vulcano dal nascondiglio che gli alleati avevano scelto dopo che furono bloccati dalle magie di Larcon attraverso Fossil, furono in modi arcani risvegliati o riportati in vita, chi può dirlo, e adoperati sin da subito. Probabilmente il Vulcano ne aveva costruiti di nuovi.
Si fermarono avvicinandosi nel loro tragitto alla squadra arrestata di Trematerra. Improbabile che avessero notato le impronte del gruppo, era risaputo che non fossero particolarmente intelligenti. L’SS alla guida della fila allungò il capo nell’aria e, con grugniti impossibilmente silenziosi, analizzò gli strani odori che permeavano la zona. Presto il suo seguito lo imitò, i due fori al centro delle loro teste immonde che si contraevano disgustosamente.
Che facciamo? Aspettiamo? Domandò irrequieto Radiclon.
Temo che ci abbiano localizzato. Credo che dovremmo sporcarci le mani prima del previsto, non possiamo lasciarceli alle spalle. Disse turbato Trematerra.
Lasciate fare a me. Ghignò dunque Darnogos.
Il terricolo agitò le mani e le dita, per scrollarle dal freddo. Dopodiché le intrecciò e le scrocchiò.
All’unanime, cinque capi cornuti si piegarono meccanicamente in sua direzione, e dieci occhi spenti e terribili, da predatore, fissarono il punto in cui era riunito il gruppo.
Pessima idea, merda. – imprecò Darnogos, cupo in viso – Spostatevi.
I quattro obbedirono, incuranti ormai del rumore dei loro piedi sulla neve, e crearono un varco tra Darnogos e i Soldati Scuri. Con movenze rapide e decise, il terricolo piantò entrambi i palmi a contatto col terreno, ed evocò il Piggstrad. I cinque SS caddero senza rumore a schiena a terra, cozzando gli uni contro gli altri, travolti da improvvise stalattiti che sbucarono da sotto i loro piedi.
Svelti e silenziosi, i cinque assassini balzarono in un lampo sulle loro prede, spade lunghe sfilate, finendo gli SS in un sol colpo, recidendo loro la testa. Per tre di essi fu così; altri due, meno lenti dei compagni a rialzarsi, mostrarono un po’ di pericolosa resistenza, ostinati e imperturbabili pure quando un intero braccio era stato tagliato e sprizzavano sangue a fiotti dalla spalla, tingendo la neve di denso rosso.
Uccidere gli SSX-47, per quanto a volte difficoltoso e un vero e proprio terrore alla vista per la loro insensibilità al dolore, era assai più leggero, più ‘piacevole’ per Radiclon che togliere la vita a qualsiasi altra forma di vita. Nonostante fosse ormai in guerra dall’inizio e avesse ucciso molti nemici, nutriva ancora un senso di disagio nel dare la morte.
Fortunatamente, finché si trovarono nel mezzo dei pini ricoperti di neve, il gruppo capeggiato da Tremoriu Trematerra incontrò unicamente Soldati Scuri. Il che era un enorme vantaggio, vista la loro incapacità di esprimere versi di alcun tipo. Il che era però anche un orrore per gli occhi, e un pericolo fisico ben maggiore di qualsiasi soldato ‘regolare’: sbucando non avvistati dietro i tronchi, talvolta persino saltando giù da grossi rami, emergendo alle loro spalle guidati da un udito e un olfatto sopraffino, regolato per riconoscere gli odori dei nemici, non fu sempre possibile toglierli di mezzo con un semplice movimento della lama sottile alla loro giugulare. Assestavano colpi micidiali con i loro gonfi avambracci neri, testate da capogiro con le loro rocciose, calve fronti cornute. Anche alla cieca, sfruttando solo i sensi secondari, i loro colpi si facevano ricordare e i loro volti incutevano terrore, vuoti e imperturbabili persino quando il loro corpo andava a fuoco o le budella colavano dalla pancia squarciata. A Radiclon mettevano i brividi – ancora un’altra ragione per tremare – e però non preferiva a loro guerrieri gormiti, almeno per ora.
Dopo la lunga traversata del bosco innevato, che costò alla squadra una buona porzione di impasto energetico – o di pietre preziose, chi ne aveva – con un gesto della mano Trematerra impose l’arresto della loro avanzata e il totale silenzio. Nonché un avviso di procedere con cautela ancora maggiore, ineccepibile.
Siamo quasi giunti a destinazione. Indicò dei tronchi tagliati, e guardando in avanti gli alberi mietuti aumentavano di numero, fino quasi a soppiantare la presenza di pini ed abeti in salute, e a un certo punto scomparivano del tutto: ecco la loro meta, l’accampamento di Lavion. Una massiccia costruzione in legno di Picco Aquila. Oltre la trincea ricolma di punte di legno e ferro, si ergeva la edificazione nomade a base quadrata, di alcuni piedoni di lato. Dal soffitto del piano terra si innalzavano altri tre piani di perimetro inferiore, circondati ai vertici da quattro torri di controllo. Tutto rigorosamente in legno, e forse argilla o pietra lavica. Materiali di facile lavorazione.
All’ingresso che si apriva in linea retta di fronte a loro, erano appostate due guardie. Sopra di esse, dipinta su un’asse fissata al soffitto, riluceva nel debole sole del nevoso pomeriggio montano l’insegna dei Triumviri e di quello che definivano ‘rinascita gormitica’. 
Rinascita a tutti gli effetti: infatti, le guardie erano una vulcanica e l’altra terricola. Ancora anni dopo i conflitti con il Popolo dell’Aria aveva dell’incredibile osservare gormiti un tempo alleati cooperare fianco a fianco col nemico di un’era, per Radiclon. Non doveva però scandalizzarsi: membri del ‘nemico di un’era’, del resto, cooperavano fianco a fianco dei gormiti alleati, al suo nella figura di Sparafuoco, e di tutti nella figura di infiltrati e di fuggiaschi, alcuni quegli stessi fuggiaschi senza i quali la guerra sarebbe stata una sorpresa senza via di scampo. Dopotutto, nelle idee dei Signori che avevano definito quelle campagne ‘guerre di riconciliazione’, il termine del conflitto avrebbe dovuto significare proprio questo, la riconciliazione. E i segnali che era possibile si facevano vedere, da ambo le parti. Era comunque demotivante constatare che del marcio nei Popoli un tempo uniti sotto il Vecchio Saggio c’era sempre stato, ed aveva atteso che la figura dello stregone sparisse per palesarsi.
Picchiavex raccolse il suo cannocchiale.
Ci sono solo quelle due guardie a questa entrata. – disse – Oserei dire senza visione magica.
Non si aspettano iniziative del nostro genere. Osservò Trematerra, braccia incrociate.
C’è una sicurezza magica appena prima della trincea, a terra, e una a mezz’aria. Entrarci è fattibile, ma… – l’aereo aggiustò la risoluzione dell’accessorio – C’è un bel tratto prima di arrivarci. Ricoperto di  neve. Bisogna agire in volo fino all’ingresso.
Le sentinelle sulle torri sono un problema in più. Disse Darnogos, cupo.
Il mimetismo magico dovrebbe tenerci occultati a un incantesimo di visione base. Fece notare Radiclon, speranzoso ma insicuro.
È proprio così. – soggiunse il capitano – Statemi ad ascoltare. Tre di noi rimarranno, qui al coperto. Distrarranno le guardie, un diversivo che terrà la loro attenzione altrove. Nulla di esagerato, dovrà essere qualcosa che si possa far attribuire a un animale e allo stesso tempo sia…intenso. Due di noi, invece, procederanno in volo oltre la trincea e le difese e le guardie. Se necessario e possibile, toglieranno di mezzo le guardie.
Mi offro volontario per entrare nell’accampamento. – disse Picchiavex – Lo spazio tra le due difese è sufficiente per le mie ali, e in caso posso sempre usare la forza magica.
Assunto. Verrà Radiclon con te. Comandò Trematerra.
Il nominato si sentì leggermente gelare il cuore.
Io, capitano? – parlò fingendosi incredulo – Permettetemi, non mi sembra una scelta ragionata. Sarei molto più indicato per il diversivo. Potrei controllare gli alberi del bosco e-
Nessuna obiezione, soldato. – lo zittì con un secco gesto della mano il capitano – Sei abile nella forza magica, entrambe le vie, meno in magia applicata, che ci servirà per il diversivo. Inoltre, hai il tuo potere speciale. – fece un sorriso che Radiclon non capì – È il nostro asso nella manica.
 
Radiclon non aveva idea di quale tattica di diversivo stavano attuando Trematerra, Sparafuoco e Darnogos. Si erano diretti ad estremità opposte del bosco e, non appena ricevuto il segnale luminoso, lui e Picchiavex si diressero verso l’accampamento. Udirono strani rumori, simili a muggiti, e videro che sia le guardie che le sentinelle, non avevano gli occhi fissi innanzi a sé come dovrebbero. Tuttavia, i due assassini non persero tempo a guardare cosa stessero effettivamente combinando gli altri tre, e volarono rapidi in direzione della trincea. Sfruttando i tronchi tagliati che spuntavano tra la neve dentro i confini della trincea, Picchiavex e Radiclon alternarono pochi attimi di volo ad alcuni di attesa sopra i tronchi. Così finché questi non finirono e si trovarono ad avanzare veloci come una lumaca, se non meno, in una levitazioni rigidissima e tesa come una molla in direzione dell’ultima difesa magica e delle guardie dietro di essa. Radiclon aveva il battito a mille mentre, in posizione verticale con l’uso della forza magica, lentissimamente e rigido quasi come un cadavere, oltrepassava il sottile spazio che separava le due linee luminose azzurre, una sul terreno l’altra sospesa in aria, che recintavano a cerchio la zona dell’accampamento. Il tutto sotto gli sguardi persi a fissare il bosco che ogni tanto guizzavano a destra e a sinistra per controllare gli strani movimenti generati dal diversivo di Trematerra, delle due guardie, mute, reggendo alabarde allungate dalle lame di strana foggia. Se una sola minuscola particella del suo corpo avesse toccato uno qualsiasi di quei fasci, chissà cosa sarebbe potuto succedere. Forse erano programmate per incendiare l’intruso, elettrizzarlo, far scattare qualche sorta di allarme sonoro. In poche parole, sarebbero stati scoperti e l’intera missione doveva essere rimandata, forse per sempre, di questo Radiclon poteva stare sicuro.
Non lasciando che la fatica parlasse rivelando la loro posizione, sudando freddo superarono infine anche quest’ultimo ostacolo, con le guardie. Passare sotto quegli occhi truci fu da crepacuore, ma alla fine Radiclon e Picchiavex si trovarono a librare dietro la schiena dei due soldati avversari. Indecisi su come procedere. L’ingresso non era immediatamente dietro le guardie, c’era ancora un tratto di strada, al coperto del soffitto di legno e dagli sguardi delle sentinelle sulle alte torri. Vuoto di altri guardiani, con tanto di sollievo per i due. Ricoperto però di rami e foglie secche, atti sicuramente a scoprire potenziali intrusi che le guardie potevano farsi sfuggire, come infatti era successo.
Dannazione, furbo il buon Lavion. Pensò astioso Radiclon, dimentico per un istante che Picchiavex poteva udire i suoi pensieri.
Lascia stare Lavion, per il momento. – lo richiamò l’aereo – Qui non resistiamo più.
Era vero. Lo stress, l’impegnativo volo con la forza magica, tutti quegli incantesimi attivati da una buon’ora. Dovevano assolutamente sbrigarsi e riprendere le energie.
Radiclon estrasse uno dei suoi pugnali. La lama sfilò senza far rumore dalla fodera, per abilità del proprietario come anche per l’uso dell’olio.
Tu pensi al vulcanico, io a questo qui. Le sentinelle non ci vedono, qui, ma dopo rendiamo invisibili i corpi…in qualche modo.
Picchiavex annuì.
Uno…due…tre!
Che Picchiavex avesse agito troppo in fretta o Radiclon troppo lentamente, non si poteva sapere. Il forestale però si portò con sé la colpa di quell’errore – come di molti altri – per il resto della missione…e della vita. Sta di fatto che mentre il vulcanico cadde velocemente, morto, il collo insanguinato, il terricolo se ne avvide prima che Radiclon potesse agire e, immediatamente e istintivamente, agitò convulsamente l’asta dell’alabarda dietro di sé, colpì qualcosa di solido, si voltò e assestò un forte pugno al nemico invisibile, che cadde sui ramoscelli secchi. Prese tosto un corno dalla cintola e soffiò, soffiò come un forsennato, emettendo il maledetto richiamo che avrebbe potuto porre fine ad ogni cosa. Durò poco: Radiclon immediatamente, ancora da disteso, esercitò il proprio controllo sul piede del soldato, facendolo inciampare e mandandolo a schiantarsi col mento a terra. Successivamente lo sbatté alla parete, in modo tale che non potesse muovere le labbra. Picchiavex lo finì con una stilettata. Ormai però il danno era fatto: si sentirono le campanelle delle sentinelle, su nelle torri di guardia.
Mentre Radiclon si alzava con un’espressione da pazzo e si metteva a correre, non notò alcun rimprovero nel tono o nello sguardo dell’aereo: non poteva tutto filare liscio, degli imprevisti sarebbero inevitabilmente successi. Tuttavia, Radiclon si sentiva responsabile…ma coi rimorsi avrebbe fatto i conti più tardi.
Muoviamoci subito. Presto qui sarà pieno di soldati. Dobbiamo entrare prima che ci impediscano di muoverci. A tutti i costi dobbiamo trovare Lavion! – gridò mentalmente, staccando, come anche Radiclon, alcuni morsi dal suo impasto – Il primo che lo trova lo uccide. Poi esce immediatamente, senza pensare ad altro. Tu vai da quella parte, io entro qui.
E si separarono, varcando le due porte distinte, tra loro opposte, all’interno del corridoio dell’ingresso, consci che probabilmente non si sarebbero rivisti. Il lavoro dell’assassino prevedeva anche questo: la consapevolezza che la propria vita era costantemente appesa a un filo, non solo quella dei loro bersagli. Radiclon era a conoscenza di questo rischio sin da prima di entrare a far parte di quel gruppo speciale, entrare nell’esercito equivaleva a mettere la propria esistenza al servizio degli altri, o di altro, spesso non facilmente definibile. Inizialmente l’idea non lo spaventava, si sentiva potente, sicuro di sé, merito degli insegnamenti di suo padre e delle piccole vittorie che lo avevano reso orgoglioso delle proprie potenzialità combattive. Ora era diverso: aveva già commesso un errore, e se Picchiavex non ce l’avesse fatta e lui sì, avrebbe avvertito un peso troppo grande per continuare.
Devo trovare Lavion al più presto. Devo almeno riuscire in questo.
Sfrecciando a passi silenziosi, merito delle capacità d’occultazione dell’armatura Neor’gani e degli insegnamenti ricevuti dal padre e dai precettori ka’nhili a Karmil, Radiclon correva a più non posso per i corridoi strettissimi dell’accampamento, morendo ogni volta che una squadra di soldati nemici accorreva contro di lui, invisibile, imprecando ogni divinità che conosceva alla ricerca di un modo per nascondersi e non urtare contro di essi, rivelando la sua posizione e andando così incontro a morte certa. Non aveva un percorso da seguire, era completamente da solo e allo sbaraglio nel bel mezzo dell’accampamento nemico, colmo fino all’esagerazione di soldati armati fino ai denti e dai visi non certo rassicuranti, tutti in allarme. Un allarme che lui aveva fatto scattare, lui, da solo e senza indicazioni in quel putiferio, l’unico compagno che avesse disperso nella stessa baraonda, e probabilmente nelle stesse condizioni di perdizione. Analizzò con cura ogni stanza, ogni camera, persino ogni sgabuzzino, arrivando al limite di sopportazione per tutte le magie che manteneva attive, appesantite da un’ulteriore incantesimo per migliorare la vista e poter penetrare attraverso le pareti di legno. Nessuna traccia al piano terra…sempre che si trattasse di piano terra: aveva sceso, salito, volato per un milione di scale, e non di rado capitava che si ritrovasse in un luogo già perlustrato. Decisamente, non era l’uomo ideale per quella missione. Non lo era per niente.
Continuò a ripeterselo, a gridare tra sé di voler tornare a casa, quasi convincendosi di essere un guerriero poco di buono, finché, alla fine, scrutando attraverso una porta piuttosto grande di quello che riteneva essere il secondo piano dell’abitazione temporanea, non trovò il suo obiettivo. Vivo. Picchiavex non l’aveva raggiunto prima di lui. Cominciò a temere il peggio e a sentirsi male; tuttavia, dai ka’nhili e dal severo padre aveva imparato un’altra cosa ancora più importante delle arti marziali: la disciplina e il controllo di sé. Aveva un compito da svolgere e l’avrebbe portato a termine, i suoi turbamenti passavano in secondo piano. Lui ora era una macchina senz’anima che obbediva ai comandi imposti dall’alto. Questo ora che si trovava sul campo e aveva perso occasione di contestare: nel ricevere gli ordini era suo diritto esprimere la propria opinione…ma, ancora una volta, stava divagando e perdendo tempo. Non aveva la benché minima idea di come entrare senza farsi notare. Se avesse aperto la porta come se nulla fosse, Lavion, pure se di spalle, seduto e da solo in quel grande stanzone, l’avrebbe notato. La fortuna fu incredibilmente dalla sua parte: un soldato, o un inserviente, insomma un gormita del Vulcano capitò alle spalle di Radiclon, facendolo sobbalzare; il forestale si fece rapidamente da parte, bussò alla porta di Lavion, ed entrò. Nel momento in cui quello stette per chiudere la porta, Radiclon colse l’occasione e sgusciò all’interno. Con un piede toccò la porta, che il vulcanico appena entrato non riuscì a chiudere del tutto immediatamente come desiderava. Radiclon sudò freddo mentre quello guardava sospettoso la porta…e la richiuse, senza rifletterci due volte!
Che razza di incoscienti! Ma lo sanno che c’è un intruso! – esclamò tra sé, al colmo della meraviglia; poi il suo umore cambio in un attimo – Oppure…dèi…forse si aspettano un solo intruso…e l’hanno preso. Deglutì; ascoltò con orecchio attentissimo quello che Lavion aveva da dire al nuovo arrivato. Radiclon non capì una sola parola. Con sua grande sorpresa, parlavano gormitico. Il gormitico antico, non la lingua vicia insegnata ai gormiti dopo il Grande Sacrificio. Radiclon conosceva solo quella e il linguaggio de ka’nhili. Si morse la lingua per l’impazienza.
Notò, mentre quelli parlavano, che Lavion sembrava piuttosto…assente, disinteressato. Sedeva su un modestissimo sgabello, pressoché nudo, non degnando di uno sguardo ma mostrando solo la possente schiena vermiglia, deturpata da un lato dai tentacoli di quella bestia che era il suo braccio destro, all’uomo venuto a informarlo di chissà cosa.
Che c’è stata un’intrusione ma hanno catturato il nemico! – si immaginò furioso Radiclon – Fendril, se è davvero così…
Sedeva su quel modestissimo sgabello, Lavion il triumviro, intentissimo a scarabocchiare su un’enormità di fogli stesi su un’ampia scrivania. L’intera superficie della stanza, invero, era tappezzata di fogli. Fogli colmi di disegni a dir poco bizzarri, stravaganti. Schemi anatomici di quelli che sembravano organi, arti, talvolta interi organismi che tuttavia Radiclon non riconosceva. Riconosceva, però, che in quegli schizzi e nelle parole che li accompagnavano c’era qualcosa di orrendamente disgustoso e spaventoso, per non dire blasfemo. Sbagliato, malvagio.
Finalmente il messaggero fu fuori dalla stanza, e Radiclon si ritrovò con soddisfazione solo con la sua preda. Non si aspettava di certo che sarebbe stato lui il primo a portare al successo la prima delle tre parti del mandato di assassinio, non dopo l’errore iniziale. Avanzò con un’insolita, ritrovata sicurezza, il coltello preferito stretto tra le sette dita. Lavion non sospettava di nulla, essendo Radiclon tuttora invisibile e quieto come da manuale.
La morte si impadronì rapidamente del triumviro. Fu un’esecuzione incredibilmente facile e disinvolta, un banale passaggio della lama affilata sulla gola del tiranno rosso. Radiclon stentava a credere della facilità del compito, osservando senza capire bene quale sentimento fosse predominante tra i tanti che avvertiva scorrergli nelle vene il corpo senza vita dell’anziano vulcanico disteso sulla sua scrivania, i fogli a cui lavorava con tanto ardore imbrattati dal caldo rossore che gli sgorgava dal collo e dalla bocca.
Ottimo. Devo uscire immediatamente, adesso. Potrei usare la finestra.
Si agitò per la stanza senza sapere come proseguire, cercando di non posare gli occhi su quelle carte che lo mettevano curiosamente a disagio e gli instillavano un ancestrale bisogno di fuggire da quel posto; allo stesso tempo, non si sbrigava ad organizzare le idee e formulare un piano di fuga, strappando gli ultimi morsi dell’impasto energetico.
Presa infine la via per la porta, e stette per attivare l’incantesimo per osservare chi ci fosse e cosa accadesse dall’altra parte, quando, in un istante, qualcosa strisciò alle sue spalle con un sibilo pauroso. Non solo strisciò, ma alle sue spalle si avvinghiò pure, aderendo ad esse con ventose viscide e straordinariamente calde. Incandescenti. Radiclon fu colto dallo spavento più totale e si mise a gridare. Si divincolò, barcollò in ogni direzione, dimenò invano le spesse braccia all’indietro cercando di afferrare quella cosa che pareva stesse penetrando nella sua corteccia. In più, un…un’arma, un’appendice, qualsiasi cosa fosse, qualcosa di tagliente ed appuntito attentava al suo collo e ai suoi capelli legnosi, grattando e graffiando. Le spalle volte alla porta nel panico, avvertì dunque una terza presenza, possibilmente amica, che gli strappò quell’affare dalla schiena e lo gettò a terra con violenza. Radiclon si catapultò immediatamente da un lato, per avere una chiara visuale di che cosa stava accadendo. Una gormita ben familiare stava riversando cascate di fiamme su un minuscolo essere grigio, una sorta di testa di piovra munita di una grossa protuberanza a forma e funzione di chela. Un essere che si ostinava a non morire, nemmeno sotto i fiumi di fuoco che Sputafuoco, perché di lei si trattava, faceva ricadere su di esso. Soffiava, gemeva versi indescrivibili di un’acutezza lancinante, bruciato eppure ancora non morto. La sua scorza aliena sembrava non subire danni. Dopo sforzi inumani da parte di Elasian, il braccio-chela di Lavion cominciò a cedere: la pelle grigia mutò colore, facendosi più scura, si rattrappì e stropicciò e le sue urla si fecero via via più leggere fino a scomparire, e con esse la vita di quel mostro misterioso, infame e rivoltante.
 
Radiclon non credeva che lo avrebbero mantenuto per il resto della missione di assassinio. Gli pareva di essere stato abbastanza chiaro, al capitano Trematerra e ad altri alti dirigenti dell’esercito congiunto. Non c’era stato verso, ed ora il forestale si ritrovava in acqua. A diversi piedi di profondità. In groppa a un nautilo gigante, e con lui altri gormiti su altri nautili, compresi i suoi compagni di missione, e il sostituto di Picchiavex, un marino.
Il forestale davvero non ci credeva, non voleva proprio crederci, mentre contemplava la meraviglia della magia di sostentamento acqueo. Percepiva l’acqua, la sensazione del bagnato e del freddo di quelle non troppo modeste profondità; coglieva la salinità del liquido oceanico, tagliente sulla sua pelle di cellulosa, pungente all’olfatto. Ciononostante, i suoi occhi non erano limitati dal contatto con l’acqua, poteva tenerli aperti quanto voleva senza che il mare li ferisse in alcun modo; poteva inalare con quanta potenza poteva chiamare alle sue membra, l’acqua non sarebbe penetrata nelle sue narici. Lo stesso valeva per la bocca, anche se questo creava delle complicazioni per quanto riguarda il dissetarsi. In genere, però, si trattava di un incantesimo riservato per brevi tratti e breve permanenze in ambiente subacqueo. E quello era un caso appartenente al genere.
Eppure quella insolita meraviglia non era sufficiente a soffocare il disappunto. Era stato chiaro al capitano Trematerra e allo stesso Signore della Foresta, o così gli era parso: per causa sua era scattato l’allarme, provocando indirettamente la morte di Picchiavex e la pericolosa entrata in scena di Sparafuoco per avere una chiara idea della situazione – la stessa Sputafuoco che aveva suggerito di dare alle fiamme l’accampamento per facilitare la fuga.
A nulla erano valse le dichiarazioni della sua inquietudine, del suo tormentato stato mentale, della sua ripetuta inadeguatezza al compito. Ripetutamente, e con nessuna violenza, era stato iniquamente e stupidamente ignorato: lo volevano in quella missione e lui ci sarebbe stato. Non riusciva a spiegarselo.
Come, del resto, era difficile spiegarsi l’occupazione da parte del Vulcano di Iustinsula.
È stata una delle prime conquiste dei Triumviri. Enunciava Helico, nuovo assassino della squadra, scintillante nell’armatura dorata, che conduceva il nautilo su cui sedeva Radiclon e, dietro, Darnogos.
Penso che lo sappiano, Helico. mormorò seccato un altro marino, gigantesco, anche lui in armatura dorata.
In più di un anno non si ha ancora idea del perché di questa mossa, generale Eraclion? domandò Tremoriu.
Assolutamente no. – rispose, con una nota di frustrazione – Iustinsula non a praticamente nulla che abbia un reale valore. È una minuscola isola con un vecchio palazzo adibito a museo, e nient’altro. Ritengo che la sua conquista sia stato più un gesto simbolico che altro.
Eraclion il generale discorreva meccanicamente e freddamente, con costanti sfumature di impazienza, guardando fisso nell’acqua innanzi, dove prendeva forma piano piano la sagoma sottomarina di Iustinsula; discorreva senza movimenti di alcun genere, del capo e delle braccia. Nuotava, ‘a piedi’, senza nautilo gigante, con leggeri moti delle large zampe palmate e piccole torsioni delle pericolose chele acquamarina, per controllare l’acqua intorno e spingersi per mezzo di essa in avanti, o in qualsiasi altra direzione volesse. Si trattava di un gormita estremamente massiccio, Radiclon provava un brivido di timore solo a guardarlo, alto quasi quanto Thorg Signore della Terra e spesso altrettanto. L’armatura dorata di fattura ka’nhili lo rendeva ulteriormente minaccioso e, nel modo più semplice ed evidente, grosso e temibile, nascondendo pressoché ogni parte del corpo fuorché le chele, i piedi e la testa: occhi rosa sottili tra delle squame a corona a un’estremità e alcune paia di tentacoli azzurri dall’altra, sotto e agli angoli della bocca, una fessura rigida e severa.
Diversa era la situazione per Helico: anche lui visibilmente robusto, e ancor maggiormente, allo stesso modo, rinforzato dalla corazza di Karmil, merito di una copertura naturale di scaglie più dure che assumevano la forma di conchiglie: di bivalve blu ciano sul capo, chiocciole cristalline su petto e spalle; dagli avambracci si dipartivano due conchiglie a spirale. Tuttavia era straordinariamente più minuto del suo generale, basso sotto la media gormitica.
Sì, è opinione comune. – disse dunque il capitano – Ci potete fornire notizie più precise sulla presenza di Magmion?
La zona nei dintorni dell’isola è stata sempre poco trafficata dall’inizio del conflitto. – illustrò Eraclion – Pochi vulcanici di stanza e ancora meno marini di guardia, e nessuno con l’interesse o l’ordine di riacquistare l’atollo. Poi di recente la presenza di navi si è intensificata, e la rocca dava segni di essere fissamente abitata. Da quando sappiamo di Magmion, strane luci e strani rumori provengono dall’interno. Riteniamo stia conducendo degli esperimenti, ma non sappiamo perché qui o di che genere.
State certo che lo scopriremo, generale. Giurò Tremoriu.
Dopo che l’avrete tolto di mezzo. Appuntò lui.
Ovviamente. La priorità è la sua morte. Come agiremo?
Nella maniera più diretta e semplice. – disse, e finalmente le sue labbra si incresparono in qualcosa che non era un broncio infastidito – Abbiamo mobilitato un battaglione di nautili giganti e di gormiti del Mare. La cavalleria si occuperà delle navi; il resto dei soldati, me compreso, approderà sulla spiaggia e avanzerà verso la rocca, eliminando ogni ostacolo.
Un piano ben diverso dall’infiltrazione tutta mistero, cautela e occultamento nell’accampamento nevoso di Lavion Magmadoni. Radiclon, Trematerra, Eraclion, Helico e gli altri due assassini non erano infatti affatto da soli, né erano solamente due i bestioni cefalopodi su cui cavalcavano i guerrieri, che avanzavano nell’acqua con curiosi e interessanti movimenti dei numerosi tentacoli – Radiclon li vedeva dal vivo per la prima volta: li dispiegavano lateralmente e, letteralmente, li distendevano, li facevano appiattire e si tiravano nella massa fluida adoperandoli come remi.
Oltre a quei due, ve ne era come minimo un’intera dozzina, sparpagliata tra il battaglione comandato da Eraclion, che appariva, fitto com’era, come un vero e proprio banco di pesci, compatto e indivisibile, unito fino alla fine della sua marcia. Un piccolo esercito di tanti nuotatori tinti di tonalità di blu, equipaggiati con le armi tradizionali del popolo più diverso dagli altri: tridenti, arpioni ondulati, ancora tridenti, coppie di spade ricurve, scudi ovali dipinti con forme di animali marini. I gormiti del Mare erano inoltre accompagnati non solo dai nautili giganti, ma da una grande varietà di animali: foche, delfini, con una punta di paura Radiclon notò persino alcuni squali, i quali però erano lì probabilmente in veste di fin troppo curiosi visitatori, attratti dal grande movimento, che di accompagnatori.
Lo Stretto di Gorm non era eccessivamente profondo, anzi, era quasi paragonabile a un lago per quell’aspetto, né era, dall’altra parte, molto ampio. Vedere quell’esercito così allargato pur se contando di pochi uomini rispetto a quelli che il Popolo del Mare poteva offrire per intero, in quelle acque ristrette, era una vista mozzafiato. Allo stesso modo incutevano una certa preoccupazione le ombre sulla superficie dell’acqua e le parti di chiglie che affondavano delle navi da guerra ormeggiate poco più di un piedone d’altezza; per quella stessa limitata profondità, il distacco che potevano accumulare i soldati del Mare dal nemico che – si sperava – non li sospettasse minimamente era discreto.
Tutto questo movimento per coprire la nostra entrata? Domandò inquieto Trematerra.
Tutto questo movimento per coprirvi. – gli rispose infastidito dal tono della richiesta Eraclion – Tutto questo movimento non è tanto quanto sembra. Sufficiente per eliminare le forze che tengono sotto scacco l’isola. Se ti preoccupi per le conseguenze di quest’attacco, rilassati. Il Signore del Mare lo ha fatto passare tra il Popolo e per i nemici come una riconquista simbolica, una riconsegna allo stato di neutralità di Iustinsula. Nessuno sa del vero obiettivo, qui, fuorché me e altri pochi ufficiali, e nessuno là fuori sa che sappiamo che Magmion si trova qui o sospetta che ricerchiamo la morte dei Triumviri, anche se morto Lavion e morto Magmion, un sospetto se lo faranno sicuramente. Ma la strage all’accampamento del secondo fratello Magmadoni è passato solamente come un attacco per indebolire le forze d’assedio ad Orsol. Davvero, non c’è nulla da temere. – lo tranquillizzò infine con uno sguardo e un tono sereni – …tranne gli esperimenti di Magmion, forse.
Per precauzione sono nel battaglione anche gormiti di altri Popoli, come voi. Ci tenne a precisare Helico, titubante.
Siamo con voi, generale Eraclion. – lo rassicurò il capitano, facendo un cenno al sottoposto che aveva appena parlato – Il successo di questa missione lo dovremo a voi e ai vostri uomini, tolti da campagne ben più importanti di questa. Presto sapranno, spero.
Sperate che la missione abbia successo, piuttosto. Non datelo per scontato. Lo ammonì Eraclion, d’un tratto di tutt’altro umore.
La piattaforma della spiaggia era ormai a pochi piedoni di nuoto; si stavano lasciando le navi alle spalle, non avvistati, e presto il livello del mare si sarebbe abbassato fino a portare allo scoperto l’intero plotone, che si risistemava per adeguarsi al fondale sabbioso sempre più convergente con la superficie dell’acqua.
Separatevi dai nautili giganti. – comandò dunque Eraclion – Serviranno a tenere a bada le navi. Non appena usciremo dall’acqua, attaccheremo subito. Helico!
Comandò al nuovo assassino della squadra di far scendere gli uomini di Trematerra dalle bestie del mare, da consegnare e far cavalcare ad altri marini, i quali si sarebbero separati insieme ad altri per ritornare indietro e…
I ragionamenti e le osservazioni di Radiclon furono, in pochi istanti, bruscamente interrotte da potenti sensazioni. Inizialmente, un forte sibilo che si faceva sempre più vicino alle sue orecchie, accompagnato da un misterioso ribollire. Dunque un improvviso bruciore alle spalla, e infine un’atroce rivelazione: erano stati scoperti!
Dalla superficie, in prossimità delle imbarcazioni militari, le ombre dei nemici gettavano giù in acqua arpioni di legno dalla punta metallica e arroventata. Scagliati attraverso il denso liquido con potenti incantesimi, che permettevano alle armi di raggiungere profondità impossibili da toccare con la semplice forza di un braccio. I medesimi arpioni, poi, ritornavano a galleggiare in superficie, a vantaggio dei vulcanici sulle navi che li potevano ripescare e riutilizzare. Alcuni di Eraclion furono feriti, ci fu del sangue di nautilo gigante che si disperse nell’acqua.
Presto! – urlò Eraclion – Squadra Principe, squadra Murena e squadra Kraken, con me! Usciamo!
Il suo grido fu emesso oltre i campi mentali di Radiclon, Helico e dell’immediata vicinanza, per raggiungere i sensi mentali dell’intero esercito; almeno un centinaio di uomini si mosse, separandosi dagli altri e seguendo i comandi del generale. Tutti insieme, nuotarono con grande velocità, abbandonarono l’inferno di arpioni infuocati e muggiti di nautilo, e poco a poco ma rapidamente le teste di ognuno emersero dall’acqua. L’inferno, questa volta, fu scatenato dai marini appena usciti: l’acqua della riva si riversò tutta sui primi nemici in vista, abbattendoli o trascinandoli all’interno, conducendoli a una morte ben più dolorosa, i polmoni che si riempivano pian piano di acqua che non riuscivano ad espellere, l’ossigeno irrecuperabile.
Radiclon avvertì che era umido, fuori dall’acqua, e non lo doveva unicamente al fatto di essere ancora bagnato di mare. Era il tipico clima da stagione piovosa: aria umida e densa, nubi temporalesche violacee di rabbia tuonante e fiammeggianti di folgori sovrastavano il discreto e pacifico isolotto di Iustinsula dalla sabbia biancastra solcata da calzari militari, facendo assumere un aspetto per la prima volta spettrale e minaccioso alla secolare rocca di pietra chiara. Rombi di tuono scuotevano di tanto in tanto le pareti del palazzo e le statue dei due Principi di Gorm all’ingresso, sotto i cui occhi scorrevano vulcanici armati invasori, lingue di fuoco e getti d’acqua.
Farsi strada verso l’ingresso, verso qualsiasi apertura che portasse alla sala centrale della rocca, dove sicuramente Magmion si trovava, non fu affatto facile. Ma non fu nemmeno incredibilmente difficile: gli uomini di stanza sull’atollo, era vero, erano davvero in pochi. Trematerra ne inghiottì contemporaneamente quasi dieci con lo Squarcio del Behemoth; Helico dava tutte le sue energie e spremeva tutto il potenziale dell’armatura dorata per concentrare raggi di luce con cui disfarsi dei nemici e talvolta, lontano ormai dalla riva, attingeva acqua da una bisaccia che portava con sé, generando dardi acquei e circondando la bocca e il naso degli avversari con bolle d’acqua, che richiamava unicamente quando quelli spiravano ‘annegati’; Sparafuoco, con foga vendicativa inusitata, trucidava quanti più vulcanici possibile con il loro stesso potere del fuoco e con impeccabili mosse di arti marziali. Per la sua stessa gente, doveva covare un odio profondo, Radiclon se ne meravigliò e spaventò al contempo. Il forestale esercitava quanto più possibile il controllo della materia organica, spezzando a distanza le braccia dei soldati, facendoli inciampare o perdere la presa sulle proprie armi, e sbarazzandosene con colpi di luce o di ombra – non era ancora riuscito a comprendere quale via fosse la preferita, la più facile ed efficiente per lui. Tutti i presenti più vicini, in modo particolare Trematerra ed Helico, si fermavano nella loro corsa e nella lotta per osservare quel prodigioso quanto orribile potenziale del Popolo della Foresta che in Radiclon si era manifestato con così impetuosa intensità. Per quanto fossero assassini provetti, chi più chi meno, non mancarono ferite, anche gravi, come una freccia in pericolosa prossimità del collo a Darnogos, e un bestione della Foresta traditore della patria che era un vero maestro della forza magica, e sbatacchiò Trematerra con aggressività animale, fin quasi allo stremo se non fossero intervenuti Helico e Radiclon a bloccarlo ed ucciderlo. Erano assassini provetti, e per questo non erano adatti allo scontro in campo aperto: colpi veloci, rallentare o fuggire dagli avversari, evitare di essere attaccati e attaccare poco, perdere poco tempo. Poiché non era nessuno dei soldati fuori dalla rocca il loro obiettivo.
 
“So che ci siete.” Annunciò Magmion Magmadoni in un ringhio tenebroso.
La camera centrale della Rocca di Iustinsula non era affatto come i presenti ricordavano e come Radiclon – che vi entrava per la prima volta – se l’era immaginata dai racconti e dai libri. Gli spalti, le pareti divisorie, il ‘palco’ mezzano circolare, ogni cosa era al suo posto. Ma laddove in genere, per decenni, c’era stato il vuoto, la polvere, e solo di recente dei panni di stoffa decorati ed utilizzati esclusivamente quando Iustinsula era presidiata, ora c’era tutt’altro, nulla che i presenti potevano aspettarsi con esattezza. In un modo non dissimile da come era tappezzata di carte ed appunti la stanza di Lavion all’accampamento – di questo però potevano avvedersene solo Elasian e Radiclon – la stanza che il fratello aveva illegittimamente occupato come sua era ricoperta di ogni genere di fogli, anch’essa. Pareva però che Magmion, oltre alla teoria, si dedicasse anche alla pratica. Così, su ogni spalto, su ogni gradino, per terra, appiccicato ai muri si trovavano non solo scarabocchi impensabili, ma tutte delle varietà di alambicchi, di marchingegni che i Semidéi soltanto potevano indovinare a cosa servissero. Barattoli di vetro ripieni di strani liquidi colorati e maleodoranti, strane pietre dall’aspetto malato, polveri misteriose, strumenti da taglio, da incisione di tutte le forme misure e un gran numero di lenti, ciuffi di erbe sconosciute. Da una scatola chiusa e forata proveniva un ronzio fastidioso e non promettente; su un lettino di legno a rotelle, giaceva persino un cadavere di SSX: fresco, squarciato e con alcuni organi prelevati e riposti chissà dove.
“Bene. Sapete che ci siamo, triumviro. Dopotutto abbiamo aperto la porta e non vi siete voltato a controllare. Sapete anche perché siamo qui?” ribatté sicuro di sé il capitano Trematerra, ancora invisibile.
Dopo le ultime lotte, infatti, la squadra mandata ad assassinare uno dopo l’altro i supremi capi della rinascita gormitica era giunta ai piedi della scultura di Carrapax e del Principe di Gorm prima di lui, giusto un piedone all’ingresso vero e proprio della rocca. Pur essendo riusciti ad arrivare sin lì più o meno integri, non c’era speranza di poter oltrepassare le statue ed entrare in sicurezza. Non se chiunque poteva vederli. Colsero la prima occasione buona per attivare incantesimi ed abilità di occultamento e, non più sotto tiro, riuscirono a varcare l’ingresso. Una volta dentro, si liberarono quando necessario dei soldati a difesa degli interni, e sempre silenziosamente – il gocciolamento di Helico fu un problema passabile, in più i suoi passi non lasciavano impronte bagnate, grazie ai sandali dell’armatura e allo speciale vestiario al di sotto – ed arrivarono in pochi balzi alla camera centrale; osservando magicamente dall’esterno, chiusa la grande porta, vi notarono Magmion di spalle, che camminava e camminava, a vuoto, apparentemente, su uno degli spalti superiori, studiando alcuni di quei suoi strani strumenti. Dovettero aprire il portone per forza di cose, emettendo un gran chiasso, ma Magmion non se ne era curato affatto. Con un lungo mantello nero che gli arrivava a coprire persino la robusta coda grigia e vecchia, e corazzato di tutto punto con una pesante armatura grigio metallico dalle rifiniture ambrate, le uniche parole che rivolse a quelli che dovevano essere inaspettati, invisibili visitatori fu il sapere della loro presenza – dopo aver aperto la porta, del resto, chiunque avrebbe potuto dirlo. Ma l’aveva fatto con serenità…una preoccupante, spaventosa serenità, che nascondeva sicuramente qualcosa di ancor più agghiacciante. Gli esperimenti a cui sembrava lavorare lo lasciavano senz’altro presagire.
“Non ne ho idea, ad essere sincero.” mugolò, voltandosi dunque e mostrando agli ancora trasparenti assassini la sconfortante pienezza della sua corazza, solidissima e luccicante, ricoperta di aguzze punte, soprattutto sulle spalle, dove le naturali spalliere del Signore e Saggio del Vulcano erano state rinforzate da una doppia copertura simile a una sega circolare, in mezzo alle quali scorreva il mantello; in mezzo al quale, a sua volta, emergeva il capo rosso come un tizzone, tremendamente tranquillo, le grosse labbra pesanti ed abbandonate.
“Non ne ho un’idea certa. – continuò a parlare, braccia dietro la schiena, guizzando le pupille affilate a destra e a sinistra – I motivi possono essere molti. Liberare quest’isola. Uccidermi per qualche strana ragione. Impedirmi di portare a compimento il mio progetto. Strano che qualcuno ne sappia, ma d’altronde sapevate che mi trovavo qui. Potete sapere molto più di quanto tema.”
Era incredibilmente convinto che le presenze nella camera fossero più di una. Una soffiata? No, improbabile: semplicemente, Trematerra comandava ai suoi uomini di disporsi nel più completo mutismo in zone diverse della sala, e Magmion avvertiva gli spostamenti d’aria e piccoli suoni.
“Una di quelle tre opzioni è quella giusta. – vociferò infine Trematerra, guardandolo a sua insaputa dritto negli occhi – La morte vi attende, sir Magmadoni.”
“Non ne sono così sicuro, invisibile!” gridò quello. Sollevò l’arpione, lo puntò verso l’alto e mormorò un incantesimo tra le labbra. I cinque dotati di vista magica videro quel che sembrava un soffitto luminoso, d’un abbagliante azzurro, precipitare dal soffitto, reale, di pietra, della sala, e abbattersi sul pavimento e su di loro. Terminata la luce, Magmion scrutò ognuno dei presenti negli occhi: le loro magie erano state annullate.
“Sapete cos’è questo? – esclamò, estraendo anche l’altro braccio e rivelando un oggetto di vetro e legno che vi teneva stretto; dentro vi ardeva una fiamma, rossa di un rosso eccezionale per un fuoco ordinario – Questa…è una fiamma di Magor. Raccolta dal suo corpo, quando era qui su Gorm, maledetto dal Vecchio Saggio! Nascosta qui…sapete cosa significa possederla? Che io posso evocare Magor, dovunque egli si trovi. Farlo comparire qui ed ora, come Spirito Rosso! Posso farlo, ogni cosa è pronta…e lo farò!”
Tutti tremarono a quelle parole, Radiclon compreso che di cosa fosse uno Spirito Rosso non ne aveva la minima idea. Strappare la consapevolezza di un individuo, indipendentemente da dove si trovi, dalla distanza che lo separa dall’evocatore. Renderlo vivo e cosciente in un corpo etereo ed immateriale, portando il suo corpo in uno stato comatoso dal quale, una volta terminato l’incantesimo, ci si risveglia patendo dolori incredibili. Purché si avesse a disposizione un pezzo, una briciola di quell’individuo, un’unghia, un pelo, una goccia di sangue…era possibile richiamare la sua essenza nella forma di uno spettro infuocato, senza alcuna limitazione. Nemmeno quella della morte. Un incantesimo intricatissimo, estremamente potente e solennemente blasfemo, ecco di cosa si trattava e perché tremarono dal terrore.
Nessuno ebbe la velocità sufficiente di balzare sul folle Magmion e impedire quell’ardita impresa che avrebbe arrecato solo guai, che avrebbe potuto significare la fine, sì, la fine della guerra come anche della pace. Il triumviro si voltò, raccolse una polvere, un’acqua giallastra, ruppe il contenitore di vetro. E urlò spaventosi verbi nella lingua della magia.
Dall’oggetto a forma di clessidra si sprigionò dapprima una nube nera, accompagnata da un forte tuono. Poi, un urlo lancinante, che costrinse tutti, fuorché Magmion che fissava stralunato ed estasiato, sorridendo da folle, il risultato della sua magia, a tapparsi le orecchie: la nube nera si fece rossa, di un rosso cupo e sanguigno, e si rapprese. Da informe che era, si raccolse nella sagoma di una figura…una figura che nessuno aveva prima d’ora mai visto. Una figura elfa, nuda, su questo erano sicuri. Longilinea, in forma, leggermente muscolosa, impube come da moda dominante elfa e dai folti riccioli che gli ricadevano fine e oltre le spalle. Non lo Stregone di Fuoco che i presenti si aspettavano o come se lo ricordavano da chi raccontò di averlo visto al tramonto della Battaglia nella Pianura delle Nebbie. Oppure sì?
“Magor! Sommo, potente Magor! – esclamava Magmion, e si inchinava, si prostrava, pareva stesse baciando il suolo – O Stregone di Fuoco Siete di nuovo con noi! Il Vulcano non è morto, senza di voi. Stiamo conquistando Gorm, finalmente.”
L’opaco elfo rosso non replicava, anzi, ignorava Magmion. Il suo sguardo opaco e rosso era uno sguardo colmo d’ira, di frustrazione, di odio incommensurabile erano tinte le sue labbra strette in un arco incredibile che palesava tutti i denti. Questi suoi occhi atroci ed insostenibili erano fissi nel vuoto, non avevano obiettivo. Radiclon, nella confusione e nel gelo paralizzante che dominavano il suo essere, fu grato che quell’ombra sanguigna non stesse fissando nessuno: se solo gli occhi senz’anima di quell’essere spettrale avessero incontrato quelli di Radiclon, sarebbe come minimo fuggito per non ritornare mai più. Solo mantenere lo sguardo gli costava una grande paura e un batticuore sfrenato. Pure in quelle condizioni, raggiunse una conclusione: dovunque fossero stati abbandonati dal varco spaziale i diversi guerrieri nel 861, lì Magor era infine, dopo decenni di tormenti e di sconfitte, riuscito a debellare la maledizione. Aveva riacquistato il suo corpo da elfo, conservato giovane dalla stessa magia.
“O Stregone di Fuoco! Diteci qualcosa! – seguitava a vociare esaltato l’ultimo fratello Magmadoni – Raccontateci! Del Vecchio Saggio e dell’Occhio della Vita! Diteci dove siete…il vostro posto è qui.”
Fu un attimo, un secondo urlo lancinante. La figura di Magor si slanciò contro Magmion, gli trapassò l’armatura e il petto con quelle braccia quasi immateriali, facendo gridare il gormita a sua volta; dopodiché, mantenendo quegli indicibili denti stretti in una rabbia feroce, prese il controllo di Magmion con l’ombra, lo sollevò, lo strinse e lo scagliò contro il muro opposto.
“M-Magor! Non capisco…cosa fate?! – gridava incredulo, Magmion, alle spalle di Trematerra – Abbiamo fatto come avete detto voi! Il messaggio…”
Magor non aveva orecchie per quelle parole. Non aveva orecchie per nulla. Riacquistò la presa su Magmion, e questa volta non la abbandonò. Il povero, folle gormita urlò con quanto fiato aveva, con tutto il fiato che aveva in corpo, finché i suoi polmoni non scoppiarono dalla sforzo e dalla irresistibile stretta dello scatenato Spirito Rosso di Magor. Doveva essere sicuramente ammattito: anni ed anni di elisir di lunga vita avevano avuto la meglio su colui che fu un glorioso e decorato Signore del Vulcano per più volte, membro della stimata famiglia Magmadoni. Non aveva capito – e in quel momento nemmeno Radiclon capiva – che Magor…era morto. Solo così si poteva spiegare l’animalità, la mancanza di controllo, di riconoscimento delle persone e delle parole da parte dello spettro. Richiamato dalla dimensione della morte, da un luogo in cui sarebbe dovuto rimanere, ritornava a vagare tra i vivi per volontà e forza non sue, e solo la rabbia per essere stato strappato dal suo posto governava quello spirito. Il quale disponeva tuttavia di tutta l’esperienza e le conoscenze raccolte in vita, che erano ora succubi della rabbia.
Morta la sua prima vittima, il fantasma di Magor aveva ancora molta rabbia da sfogare. Non si sarebbe mai conclusa. Nessuno sapeva come agire.
 
“Di nuovo a correre in un bosco?” esclamò incredulo Darnogos, adocchiando gli arbusti che erompevano dal suolo e ornavano la pianura della Valle del Vulcano. Esattamente come su Picco Aquila, alcune decimane prima, il loro obiettivo, la loro ultima meta come squadra segreta di assassini esperti in mille e uno modi di uccidere, si trovava oltre – o all’interno – di una selva.
Contrariamente agli alberi che costellavano in comunità gli altopiani e i dirupi della grande montagna di Gorm, e contrariamente persino ad ogni vegetazione legnosa che Radiclon conoscesse, che si trattasse delle palme esotiche di Karmil o della selvaggia e rigogliosa flora di Dalarlànd, il bosco che attraversavano in quel momento instillava strane sensazioni nei cuori di ognuno dei cinque presenti. Che si trattasse degli alberi? Avevano una strana forma e un’assurda configurazione; sembrava come se non appartenessero a quell’ambiente, a nessun ambiente che i gormiti conoscessero. Non avevano un vero e proprio tronco, si strappavano dalla terra direttamente lacerati in tre o quattro poco robusti rami che si protendevano verso l’alto in andamento sinuoso; in cima, si estendevano dunque in orizzontale e solo in questa parte crescevano dei veri rami frondosi, quasi esclusivamente sulla parte superiore. Tantissimi minuscoli rami su cui gemmavano foglie piccolissime di sagome assolutamente non geometriche, irregolari. Per di più, la corteccia di tali misteriosi arbusti era…tendente al nero, ruvida, quasi vetrosa e in certi punti sfibrata e sfilacciata, rivelando il legno più tenero e chiaro all’interno. Somigliava da questo punto di vista a una vite. Per il resto, quegli alberi in quel territorio del Vulcano non avevano metro di paragone, e si poteva dire avessero l’aspetto, collettivamente, di un bosco innaturale, anomalo, deturpato da chissà quale strano fenomeno atmosferico o geologico. O gormitico.
Che si trattasse di trovarsi in pieno territorio vulcanico, al largo della ricostruita città portuale di Ilabukh, soli tra un mare di nemici che poteva emergere e distruggerli e farli sprofondare senza che nessuno sapesse mai della loro esistenza e della loro ardita missione? Di certo, se di questo si trattava, il loro animo agitato non lo era esclusivamente perché poggiavano le piante dei piedi su un terreno instabile, per lo più sconosciuto che poteva rivoltarsi loro contro e su cui ben pochi gormiti fuorché di Vulcano – e di Aria – erano passati nei decenni dal Grande Sacrificio, ma della fattura stessa di quel territorio. Superficialmente sabbioso e secco, bruciante come il potere di chi vi abitava, e al di sotto una piattaforma di terra compatta e solida, che sembrava trattenesse il calore della lava che – si diceva – scorresse senza sosta sotto ogni piede quadrato della Valle del Vulcano che aveva, sempre secondo leggenda e tradizione, un tempo ricoperto quelle vaste pianure, come anche del fuoco che i gormiti del Vulcano avevano evocato ed evocavano sopra di essa. Seppure non dell’infuocata ruggine che domina Garsomor e la Valle dei Canyon, anche quel suolo era di una leggera tinta rossastra; e qua e là, immancabili, spuntavano diversi, seppure finora molto piccoli, di quelle misteriose pietre scure e nere dalla superficie scabrosa che tappezzavano la parte a nord del Deserto di Darth Kuun. Una superficie insolita e incognita su cui camminare, per di più resa ulteriormente inconsueta da un elemento che i presenti, senza davvero spiegarsi perché, dopotutto le stagioni erano le medesime anche lì, non si aspettavano di trovare nella terra della guerra e del fuoco: la pioggia.
Le nuvole minacciose e sfolgoranti di dorati fasci elettrici che avevano incorniciato l’assediata rocca di Iustinsula con il loro roboante grigiore, appena una decimana prima, qui, ad alcune centinaia di piedoni dal centro di Ilabukh e non lontano dalla costa, si erano scatenate e riversavano sul bosco non troppo lontano dalla spiaggia un mare di fitte ed allungate gocce. Tranquillamente: non c’era vento burrascoso, né alcun sussurro di tuono o bagliore di lampo. Pioveva, a dirotto, e nulla più, inzuppando le armature Neor’gani – dorata per Helico, che della pioggia era più che entusiasta, potendo combattere con la sua umidità al pieno delle sue capacità – e trasformando in una farinosa fanghiglia il sottile strato sabbioso del bosco, che certo, sui piedi dei guerrieri, si sarebbe dimostrato un ostacolo una volta raggiunta la sede di Orrore Profondo.
Taci, Darnogos, per cortesia. – vociò mentalmente Trematerra – La copertura del bosco è ottimale. E poi ci siamo dentro da un po’, perché ne parli solo ora?
Pensavo fossero degli alberi isolati. Non sono molto fitti. Si giustificò quello.
Grazie alla pioggia l’analogia con la prima parte della missione su Picco Aquila era ancora più accentuata: marcia silenziosa attraverso una zona silvestre accompagnata da una precipitazione. Nevosa nel primo caso, piovana in questo, l’ultimo. Nella mente di Radiclon ciò creava una strana quanto non del tutto gradevole sensazione di deja vu e di cerchio che si chiude, di eventi che si ripetono. Da una parte sperava che l’assassinio di Orrore Profondo potesse concludersi bene come si era concluso quello di Lavion; dall’altra, sperava che le cose non andassero esattamente come erano andate la prima volta. Non era ancora riuscito a superare la perdita di Picchiavex, per cui si sentiva in minima parte responsabile. “Non era abile come te.”. Questo gli avevano detto. Radiclon non ci credeva: quel ripetuto e ormai sgradito elogiare dei suoi poteri non lo soddisfaceva affatto né lo faceva sentire meglio per quello che era successo.
Fino a qui nessuna trappola. – mormorò Elasian inquieta, facendo vibrare l’unico occhio a destra e a sinistra, in alto e in basso, convintissima che, da qualche parte, ci fosse un indefinito orrore nascosto pronto ad ostacolarli; pareva, quasi, che lo desiderasse – È sospetto.
Potrebbero non aspettarci affatto. Disse il fin troppo ottimista Helico.
Manca ancora un po’ prima di arrivare da Orrore, secondo le nostre informazioni. – soggiunse Trematerra, guardingo – È sospetto anche per me. Non montiamoci la testa e non abbassiamo la guardia. Qualcosa ci aspetta di sicuro più avanti, e l’ultimo triumviro non può di certo essere troppo tranquillo, dopo ciò che abbiamo fatto.
Sappiamo, capitano, – prese parole Radiclon, incerto – se è cambiato qualcosa sui fronti con la morte dei due Magmadoni?
A Picco Aquila l’assedio di Orsol va a rilento. – cominciò ad elencare – In genere, le forze nemiche sembrano non sapere come procedere, si fanno sentire molto poco. Per Iustinsula non c’è stato alcun tentativo di seconda conquista, e le navi del Vulcano rimangono sulla loro parte di riva. Continuano invece…
Fu bruscamente interrotto, e i loro cuori altrettanto bruscamente subirono un tuffo. Si bloccarono impietriti guardandosi attorno, sopra, sotto, dietro, stringendo l’elsa della spade lunghe, pronte a sguainarle contro un nemico invisibile come loro.
Che cosa è stato? Domandò irrequieto Helico.
Credi che se lo sapessi non te lo direi? Non ne ho idea. Replicò inquieto Tremoriu, strofinandosi la fronte bruna.
Un’improvvisa e cupissima onda sonora li aveva investiti, avevo investito l’intero bosco, facendo vibrare come un sisma il terreno e oscillare le fragili minuscole foglie di quei rami inusuali. Non era un comune tuono, su questo ci scommettevano; non era affatto un tuono, fu un rumore totalmente imprevisto e fuori luogo che non seppero descrivere meglio se non così: un corpo estremamente massiccio che affondava dal cielo su di loro, distruggendosi senza lambire il terreno. Eppure, tra i rami e nelle nuvole non si vide alcun bagliore strano. Nulla cambiò nel paesaggio in seguito a quel suono.
Qualcosa è sospetto, vi ripeto. Mugugnò Sparafuoco, continuando a guardarsi in giro circospetta, le mani pronte a bruciare.
Rabbrividendo e cercando di non prendere troppo in considerazione quell’assurdo rumore e i timori di Elasian, Radiclon chiese: Capitano, dicevate…?
Sì…, sì, stavo dicendo… – riprese a parlare Trematerra, dopo alcuni attimi di turbato silenzio, impiegati a scrutare dubbioso il cielo nuvoloso alla sua sinistra, ignorando l’acqua che gli colpiva gli occhi – Nella Piana di Astreg e nei centri della costa settentrionale di Dalarlànd, i soldati del Vulcano ancora…
“Ah!”
Per la seconda volta il discorso fu troncato in maniera imprevista, fastidiosa e spaventosa: un acuto stridio metallico e il grido sofferente di Helico, urlato a pieni polmoni, a piena voce. Si volsero tutti già con le mani alle armi – ad eccezione di Darnogos che era dietro al marino – gli occhi fuori dalle orbite per lo stress che nessuno di loro osava ammettere.
Calmatevi! Non è niente di grave o pericoloso. dichiarò a ‘voce alta’ Darnogos, sottolineando la situazione non di allarme stendendo la mano in avanti, gli occhi e ben presto anche piedi nei pressi della figura di Helico. Stramazzato con la faccia a terra, sputava fango e imprecava tra le labbra per la caduta e per la sozzura che ricopriva la corazza dopo il fattaccio: senza un briciolo di aspettativa, una grossa tagliola legata a un tronco da una fin troppo rumorosa catena arrugginita gli aveva attanagliato la caviglia destra, facendolo inciampare.
Il terricolo tosto lo aiutò a rigirarsi – Anzi, stai fermo e non girarti, per i Semidèi! Fai un casino porco, con questa catena – e a liberarsi di quella spina nel fianco. Per fortuna grazie alle varie placche dell’armatura dorata i denti di metallo non lo avevano ferito. Si intravedeva solo un taglio rossastro, che Darnogos si offrì di medicare immediatamente.
No, no, grazie, non preoccuparti. – lo allontanò il marino, rizzandosi – Non è niente, e non lo dico solo per la magia di questo affare. E si battè la corazza karmiliana sul petto (vi ricordate, vero, che rende meno sensibili alla fatica e al dolore?)
Come vuoi. Però se cola il sangue è un problema. Spiegò il terricolo, rivelandosi più pragmatico che interessato alla salute del compare.
Non colerà, stai tranquillo. E detto questo Helico raccolse della pioggia allargando le braccia e si sciacquò con una certa forza, liberandosi dell’eccessivo fango.
Hai visto, ci sono delle trappole, dopotutto. Riuscì ad ironizzare dopo alcuni istanti, rivolto alla vulcanica sospettosissima. Elasian gli rivolse un unico sguardo bieco e poi procedette a camminare in silenzio. Come tutti.
Radiclon riflettè, ormai disinteressato a sapere della situazione sul fronte aperto di guerra. Forse il loro stress, l’ansia, l’agitazione che nel profondo li faceva vibrare, ben nascosta da un eccellente allenamento di autocontrollo, tutto questo non era dovuto all’ambientazione enigmatica e a tratti spettrale, alla sensazione di ripetizione, né tantomeno del loro essere su suolo nemico senza via fuga se qualcosa fosse andato storto – be’, questo un po’ sì, era evidente – né da una combinazione di questi elementi.
Semplicemente, erano vicini alla fine. Con la sola perdita dell’aereo Picchiavex, la squadra che contava, a detto del suo stesso capitano, i migliori nell’arte di uccidere tra tutta la Gorm alleate, i guerrieri mystica più agili, i più esperti nella discrezione, nella furtività, in tutto ciò che faceva di un killer un killer eccezionale, erano riusciti, solo loro e solo in cinque – eccezion fatta per Iustinsula, ma furono aiutati dall’esercito solo in parte – in incarichi azzardati e dall’esito mai certo, in cui le morti potevano ogni volta ridurre il gruppo a un solo superstiti, se non zero. Si erano infiltrati in accampamenti di soli nemici e ne erano usciti vivi, si erano gettati nella mischia ed erano sopravvissuti, trionfando e mai fallendo. E gli obiettivi dei loro compiti così indiscutibilmente immorali, se decontestualizzati dallo scenario di guerra, non erano certo gormiti qualunque. I Triumviri erano gormiti anziani, e quindi esperti, che avevano avuto tutto il tempo di imparare ed eccellere in ogni arte della lotta che loro cinque – e gli altri che erano stati addestrati ma che non erano stati scelti come i primi, sempre pronti a prendere il posto di chi non ne usciva vivo, come Helico – avevano dovuto apprendere in una vita dalla durata decisamente minore. Due tra essi erano stati scelti per entrare nella cerchia di fedelissimi di Magor, fratelli di una potente e ricca dinastia, la più famosa dell’intera Valle, figli del primo Signore del Vulcano a fare la conoscenza del Vecchio Saggio e, di questi, uno fu l’artefice e la guida militare del Grande Sacrificio. L’altro, l’ultimo, colui che si apprestavano a portare fuori dall’esistenza quel giorno, fu il primo nuovo Signore unico del Vulcano e colui che contribuì a portare Elios e il Popolo dell’Aria intero dalla parte dello Stregone di Fuoco. Individui di calibro e potenza indiscutibili ed elevati, i decisivi salvatori dell’esercito vulcanico bloccato nella Pianura delle Nebbie poco più di dieci anni prima.
Due erano stati eliminati, ne mancava uno solo. Non davano per scontato di trionfare anche questa volta, assolutamente. Ma i pretesti per crederlo c’erano eccome, e, ovviamente, le speranze le coltivavano, i cinque. Se avessero vinto anche quest’ultima volta, avrebbero visto – chi sarebbe rimasto, almeno – se le loro gesta sono avrebbero avuto le conseguenze sperate – e solo allora i loro nomi non sarebbero più stati un segreto. Anche se le cose non dovessero andare esattamente come da programma, era chiaro che le loro rischiose sarebbero passate alla storia.
Per non parlare, poi, di come…
I rami fremettero una seconda volta di un rombo indecifrabile, inspiegabile e inaspettato, interrompendo il filo della coscienza dell’unico gormita vegetale del gruppo. No, non rombo…grida. Grida non animali, non proprio: grida agonizzanti, maschili e femminili, che sembravano generarsi da un impreciso luogo all’esterno del bosco, e allo stesso tempo da tutt’intorno ad esso e da esso stesso. Quelle voci stridule facevano accapponare la pelle indicibilmente. Che cosa significavano, in mezzo al bosco?
Maledizione. Imprecò spaventata Elasian, stringendo i denti.
Che cazzo. – strepitò Darnogos, grattandosi le spalle e i palmi delle mani dal nervosismo – Questo è un bosco del delirio. Vuoi vedere che invece di rallentarci o fermarci con le trappole ci rallentano con questa merda di suoni raccapriccianti? Cazzo! Urlò una seconda volta, dopo uno di quei gridi disumani particolarmente intenso e agghiacciante. Non cessavano, quelle urla isteriche.
Non saranno certo questi giochetti a fermarci. affermò risoluto Helico.
Ben detto! Esclamò Tremoriu, fin troppo convinto. Quel genere di esagerata convinzione che è palesemente falsa, atta a nascondere un ben nascosto timore.
E se… – azzardò incerto Radiclon – Se avessero sguinzagliato altri di quegli spettri, gli Spiriti Rossi?
Sappiamo come sbarazzarcene. – lo rassicurò Darnogos – Anche se sarebbero…problematici. Anche da occultati, possono vederci. Sarebbe un bel casino.
Proprio a questo pensava il forestale poco prima. All’avventura su Iustinsula contro il fantasma delirante del defunto Stregone di Fuoco Magor. Erano paralizzati, quella volta: si scontravano contro niente di meno che l’uomo che ha fomentato più di chiunque altro la guerra di Gorm e la caccia all’Occhio della Vita e alla conquista dell’Isola e del mondo intero. Un mago di altri mondi di un’esperienza incommensurabile, apprendista dello stesso Vecchio Saggio, stregone più potente del suo tempo, e profondo conoscitore dei segreti di Gorm, appresi durante l’assenza di Razael e dei gormiti da casa. Come competere, fisicamente e mentalmente, contro un simile prodigioso individuo, il cui nome gelava i cuori e le cui imprese ancor di più. Per quanto non fosse il vero Magor che avevano di fronte alla rocca, si trattava comunque di un fantasma con le fattezze e tutte le conoscenze dello Stregone di Fuoco, come videro con i propri occhi e saggiarono sulla loro pelle gli assassini. Fu un caos pazzesco quello scatenato dal fantasma infuocato nella rocca, rilasciando onde d’ombra che mandarono all’aria tutti gli strumenti lì riuniti, fecero esplodere quel cadavere di SS, frantumarono e creparono pareti e spalti, e per poco non ruppero diverse ossa dei presenti. L’unica arma che temono gli Spiriti Rossi, viventi senza necessitare di un mago che mantenga concentrazione, che può scacciarli e rimandare la consapevolezza dell’individuo là dove essa appartiene, fu presto scoperta – per caso. La luce. Concentrarono fasci di luce contro la sua figura eterea, e qui l’ausilio di Helico fu sorprendente. Magor svanì come fumo. Spenta la fiamma che l’aveva riportato ‘in vita’, nessuno sarebbe più riuscito a rievocarlo – a meno che, da qualche parte, non fosse conservata un’altra fiammella, o chissà cosa, ma ne dubitavano.
Se, dunque, erano riusciti nell’intento di sconfiggere il temutissimo Stregone di Fuoco, seppure solo un’ombra di ciò che fu, perché non sarebbero stati capaci di affrontare ed uccidere Orrore Profondo, e porre termine una volta per tutte al conflitto di Gorm?
 
L’edificio roccioso non aveva per niente l’aspetto di un accampamento. Non sembrava affatto un edificio militare. Era di roccia, forse persino marmo, come prima cosa. Nessuno per nessun tipo di accampamento spende così tanta pietra così tanto pregiata per una qualsiasi sede militare temporanea. Quindi si trattava di un’abitazione stabile, racchiusa da quel bosco sperduto da chissà quanto tempo, anni. Un palazzo? Non pareva: pure se di marmo, non aveva lo sfarzo o l’eleganza tipici dei palazzi – anche se in questi termini il Vulcano ha una storica di tradizione di arte poco comprensibile per gli altri Popoli. Forse una chiesa del culto delle Somme Forze, seppure decisamente massiccia, oppure un generico tempio di chissà quale sconosciuta fede religiosa; se si trattava di questo, una fede molto antica, sicuramente. Le pareti erano crepate in più punti e talvolta c’erano dei veri e propri solchi, dove il tempo e i Semidèi sanno cos’altro hanno macinato la pietra in tempi lontani. Molto antica, appariva, nel complesso. Antica e per di più disabitata, come seconda cosa. L’enorme parallelepipedo era sormontato da un terrazzo al cui centro si ergeva un secondo poliedro, ai quali si accedeva scalando due imponenti gradinate che si dipartivano, l’una opposta all’altra, ai lati dell’ampio ingresso: un rettangolo alto un gormita e mezzo e largo tre, scavato nel muro, da cui baluginava quella che sembrava illuminazione da torce. Niente porte, portoni o cancelli. Nemmeno delle guardie. Dalle poche finestre non giungeva alcuna luce visibile.
Ve lo ripeto. La cosa è sospetta. Insisteva Sparafuoco, agitata, osservando l’edificio quasi cubico con disprezzo.
Basta, Elasian. È senz’altro sospetta, ma non credo sia il caso di allarmarsi. Ribattè Trematerra infastidito.
Secondo me sì. – soggiunse Helico, aguzzando la vista – L’entrata è priva di protezioni, sembra. Come tutto il resto.
Trematerra si strinse il mento, pensieroso. La pioggia che scorreva sul suo lungo muso disegnava strane righe ricurve.
Siamo sicuri delle informazioni che ci hanno dato? – insistette ancora Elasian – Chi le ha fornite?
Una talpa del Vulcano. rispose Tremoriu.
Potrebbe non essere affidabile. Sostenne la donna. Incurante, almeno all’apparenza, di stare giudicando la sua intera razza, tra cui lei stessa, inattendibile e traditrice.
Secondo me può avere ragione. – osò Radiclon – Se questa talpa facesse il doppio, triplo gioco? Se volesse mandarci in una trappola? Qual è il suo nome?
L’identità delle nostre fonti ci è ignota, e lo sai. Anche se sapessi chi è, non mi sarebbe permesso di dirvelo. E non mi piace quello che pensi.
Tutto è possibile, capitano. – si immise Darnogos – Però, non credo dobbiamo preoccuparci troppo. Fino ad ora gli infiltrati ci hanno dato informazioni attendibili, e abbiamo vinto.
Per Lavion la talpa non era vulcanica. Ci tenne a correggere Trematerra, tuttora pensoso.
Dobbiamo sperare che questa volta vada come le altre. – disse banalmente Helico; poi si rifece – Non possiamo fallire adesso!
Dunque, che facciamo? Domandò Radiclon.
Andiamo.
Uno dopo l’altro, chi più timoroso chi meno ma tutti disciplinati e ligi al compiuto a cui giurarono la vita, uscirono, completamente occultati, dalla scarsa protezione degli strani alberi e, insieme, sotto la pioggia scrosciante, avanzarono come un sol uomo verso l’imponentemente semplice entrata illuminata dal fuoco del grande blocco di marmo scavato e scolpito. Scrutarono magicamente la soglia e i gradini ai loro lati un’ultima volta, e si asciugarono, prima di entrare, e già da lì videro che l’interno era spoglio, se non vuoto. Un immenso corridoio che correva per l’intera lunghezza dell’edificio e si dipanava in due scalinate all’incontro con la parete di fondo. Doppie torce erano appese agli ingressi per lo più chiusi, altri senza porte e bui, di grossi stanzoni, apparentemente a due piani, che davano la loro entrata sul lungo corridoio. Immediatamente prima che cominciassero le fila di stanza, c’erano degli spazi vuoti, alla loro destra e alla loro sinistra, riempiti da quelle che sembravano due fontane, vuote, erette su una serie di piatti ed estesi gradoni circolari.
Niente anche qui. disse Elasian scuotendo la testa.
Questo posto mi mette i brividi sempre di più. Ammise Darnogos.
Non ci fu subito più spazio per i pensieri cupi, che nelle loro menti si fecero strada immagini ben più allarmanti: il suono di una campanella ruppe il silenzio sospetto e angosciante della possente sala, terrorizzandoli e mettendoli tutti sull’attenti. Veniva dalla loro sinistra, ma non videro nulla, nemmeno con lo sguardo magico. Forse una magia di occultamento più avanzata…
Altri sibili vennero da quella direzione, ma non ci fu un sol orecchio che li udì distintamente, o che capì chiaramente di cosa si trattasse, se non quelli del capitano Trematerra. Egli riconobbe quella vibrazione, da abile arciere qual era, gli rimase impresso nella cornea il fugace lampo della punta della freccia che, scoccata, si allontanava dal campo d’azione della magia che nascondeva alla vista.
Radiclon, nel clamore generale, avvertì il capitano mettergli le mani addosso, pararglisi davanti con la schiena. Non lo vide bene, guardava fisso da tutt’altra parte. Una briciola di urlo, il cui significato non sarebbe mai stato chiaro, sgorgò dalle labbra del terricolo. L’urlo fu troncato, e non più voce uscì dalla bocca del capitano Trematerra. Radiclon percepì il calore e l’odore acre di gocce di sangue sulla faccia e sul collo, e una punta di freccia che gli grattava la spalla. Dunque capì, capì la sciagura, mentre Trematerra spirava, la bocca intrisa di sangue e una freccia nel collo, e si accasciava al suolo. I suoi occhi si volsero per l’ultima volta all’uomo che aveva salvato, come anche le sue ultime parole, gorgoglii che non trovarono compimento. Trematerra morì ai piedi di Radiclon, paralizzato e scioccato, non più incantesimi a celarne le spoglie.
“Radiclon, cosa fai lì fermo?!” gli gridavano i compagni, mentre si udivano dei passi, tanti passi provenire dal corridoio.
Radiclon non era più paralizzato: una rabbia e una risolutezza infinite gli scorsero nelle ‘vene’, il corpo del capitano morto per salvare lui che non abbandonava i suoi occhi. Occhi rivolti nel punto esatto da cui era giunta la freccia fatale. E Radiclon rimaneva immobile, pronto a ricevere la freccia che spettava a lui sin dal principio.
Fu una questione di pochi secondi: il sibilo della corda e della freccia, questa che si palesa dall’invisibilità…uno scatto della mano del forestale, e quella si bloccò a mezz’aria. Impercettibili movimenti delle dita, e la punta di selce inverte la propria direzione e l’intera freccia si scaglia contro il suo proprietario, conficcandosi nella carne. Il trauma fisico era troppo, l’incantesimo si dissolve, rivelando una guerriera aerea armata di arco, steso, con una freccia, la sua freccia, nel ginocchio, e con ancora tanta energia, a vedere come tentava di armeggiare con quell’arco. Ben presto, però, Elasian e Darnogos gli furono addosso, e lei più non fu.
Radiclon rimaneva immobile lì dove Trematerra era morto pochi secondi prima. Dopo di lui, due morti pesavano sulle spalle del forestale, per due vite si sentiva responsabile. Desiderava solo andarsene e fuggire, non avere più a che fare con gli assassini, la guerra, la lotta…volle tornare indietro nel tempo e non aver mai, mai accettato di farsi allenare da suo padre, che tanto potenziale vedeva in lui, lo spronava in continuazione ad imparare come si combatte. Volle tornare a quei tempi, dire no a tutto, e vivere in tranquillità i suoi giorni su Karmil, la casa scelta dai suoi nonni.
Perché l’aveva fatto? Perché, Trematerra? Questo gesto così inatteso e sorprendete, e indesiderato.
Radiclon sarebbe rimasto lì inerme ancora a lungo, per sempre in paralisi, se il pericolo che morisse davvero non si palesasse nuovamente. Per tutti loro. I passi che avevano udito dopo il suono della campana cominciarono a farsi più pressanti e rumorosi, quasi insostenibili, e non era difficile vedere a chi appartenessero, visto l’ampiezza del corridoio e le uniche due camere da cui provenivano a fiotti, mai visti così tanti insieme, gli assassini forse non più efficaci e affidabili sul mercato, ma di certo i più risoluti, quelli con meno rimorsi. SSX-47. In numero più grande di quanto potevano aspettare o temere, fin troppi, troppi da contare, troppi per qualsiasi ristretto gruppo di gormiti, anche se si trattava degli assassini richiesti per togliere di mezzo i tre più pericolosi soggetti del Vulcano, da poter eliminare in una sola volta.
I loro occhi giallo acido topazio non conoscevano paura né dolore. Non conoscevano nulla se non gli ordini loro imposti, e l’ordine era, indiscutibilmente, liberarsi dei trasgressori. Che non li vedessero, non era un problema. Presto li videro, poiché furono loro addosso in un lampo e sotto i loro incessanti e infaticabili colpi le magie dovettero essere annullate. Tutte le energie dovevano essere spese per sconfiggere l’orrida armata: loro dovevano sopravvivere, portare a termina la missione. Radiclon doveva, lo sentiva come un obbligo morale oltre che un ordine ricevuto dai suoi superiori; da qualche parte in quell’antico e vuoto palazzo, Orrore Profondo lo attendeva e lui l’avrebbe trovato ad ogni costo: lo doveva per Trematerra, il suo capitano, morto per salvare lui, un giovane ed inesperto gormita con un potere in più. Fu quello il potere di cui usufruì di più in quel tragico e disperato frangente. Non permetteva a quei mostri grotteschi di avvicinarsi a lui, e nemmeno ai suoi compagni, no, non avrebbe tollerato altre perdite. Non metteva mano ad alcuna arma in suo possesso, benché l’unica di una certa utilità fosse solo la spada lunga. Per quella, però, necessitava una certa prossimità col nemico, e lui voleva assolutamente evitare una simile circostanza. Erano troppi da poter avvicinare, doveva liberarsene a distanza. Quando poteva, quando c’era spazio e ne trovava uno isolato, spezzava loro il collo a distanza. Altrimenti, rompeva le ossa delle gambe, impedendo ai mostri di avanzare e scagliandoli lontano, contro altri SS se possibile, con onde di ombra. L’ira lo dominava furiosamente, non sarebbe stato in alcun modo in grado di esercitare la via della luce.
La situazione, però, non volgeva a loro favore. I Soldati Scuri avevano cessato di uscire da quelle infernali porte, ma non cessavano di dare ai quattro rimasti mostra della loro bestialità e della forza nei numeri. Helico aveva dalla sua l’armatura dorata che gli conferiva un impossibile resistenza fisica, oltre che forza, se non pari molto vicina a quella dei maledetti SS, ma si comprese che non sarebbe stata molto d’aiuto. L’ausilio nel controllo della luce non era di utilità; Helico ne reggeva due tra le mani, stringendoli per la gola e tentando di soffocarli o di cozzare le loro teste fino a farne uscire il cervello, o usarli per abbattere gli altri; ma anche così gli SS che stringeva, con le vie respiratorie ostruite, non smettevano di tempestare di pugni le braccia stesse con cui venivano tenuti sospesi, arrivando a farsi sanguinare le nocche e ammaccando le placche dorate. Si rivelò una condizione svantaggiosa: ostacolato nei movimenti, le mani impegnati, tempestivamente altri, numerosi Soldati Scuri gli saltarono sopra, riempirono di bernoccoli e sangue la testa che pure era dura. Lo portarono giù, gli salirono addosso, gli strapparono l’armatura…in pochi minuti, la sua figura non più visibile tra la marmaglia grigiastra e azzurra.
Elasian fu più fortunata…inizialmente. Ne uccise a decine con precisissimi colpi di freccia dritti in fronte, ma i loro numeri non permettevano un ulteriore facile uso dell’arco, come anche una faretra vuota. Comprese in poco tempo che usare le fiammate che l’avevano resa famosa non sarebbe stato di alcun aiuto: gli SS, ricoperti di fuoco da capo a piedi, continuavano la loro marcia infallibile senza difficoltà, morendo definitivamente solo quando le fiamme li bruciavano completamente; ma prima che ciò accadesse, la loro forza brutale era accesa come quelle scintille, e Sparafuoco lo provò sul proprio corpo. Un Soldato Scuro la colpì al ginocchio, facendola cedere per un brevissimo istante, che quello non sprecò rimanendo impassibile, ma sfruttò per sferrare una micidiale testata col capo cornuto. Elasian fu accecata. La sua fine arrivò poco dopo.
“Basta!” urlò al limite della sanità mentale Darnogos, infilzandone un paio con l’ennesimo colpo di Piggstrad. Non ne poteva quasi più. E che dire di Radiclon? Erano rimasti solo loro due, lui era rimasto, lui che per ben due volte sarebbe dovuto crepare, schiattare al posto d’altri, ben più esperti di lui in quel lavoro ignobile. Se era ancora vivo, lo doveva solo alla fortuna. Se non piangeva, lo doveva perché il suo corpo espelleva liquidi in litri di sudore.
“Radiclon, Radiclon, presto! Fai…fai un’onda, un’onda, bella potente con l’ombra. – gli comandò Darnogos, allo stremo – E dammi il tuo pasticcio, e un po’ di energia se ce l’hai ancora.”
Radiclon obbedì immediatamente; le domande le avrebbe poste dopo. Concentrandosi su tutto quanto di orribile, di negativo, di odioso, di terrificante e di frustrante fosse accaduto nella sua vita, fissando l’errore commesso insieme a Picchiavex all’accampamento di Lavion e i cadaveri di Tremoriu, Elasian ed Helico in mente. Raccolse, attinse da tutte le potenti emozioni che queste immagini gli conferivano, e scatenò con un grido che esso stesso sembrava poter distruggere i nemici una devastante ondata ombrosa che mandò i Soldati Scuri rimasti a gambe all’aria. Poi, senza pensarci, estrasse ciò che rimaneva della sua scorta di energia e la consegnò a Darnogos che se ne servì voracemente.
“Cos’hai in mente?” ansimò Radiclon.
“Qualcosa che potrebbe significare la fine per me.” Disse quello tra un morso e un respiro affannoso e l’altro. A quelle parole Radiclon raggelò. No, non sarebbe stato l’unico sopravvissuto, non sarebbe mai riuscito a terminare la missione da solo.
“Ti sostengo.” Disse dunque in un sussurro, e gli mise una mano, entrambi le mani sulla schiena. E gli trasmise energia, il suo calore corporeo. Il terricolo annuì, deglutì l’ultimo morso, e annuì di nuovo. Quel semplice cenno con il capo da solo sembrava costargli infinitamente.
Allargò le braccia, ad angolo quasi piatto. Il fuoco della sua impegnativa concentrazione: le pareti di quelle stanze. Tutte quante. Strapparle, distruggere delle pietra legata, appartenente ad altra pietra, e in così gran quantità: non esiste cosa più difficoltosa che questa, per un gormita della Terra. Lo Squarcio del Behemoth è faticosissimo per questo stesso motivo. Tra mille grugniti, denti lacerati tanto erano stretti e meningi spremute fino al massimo per l’intensissimo sforzo, quelle poche crepe che si formarono sui muri presto divennero delle vere e proprie profonde incisioni, che spaccarono interi lastroni di marmo, sospesi sotto il controllo di Darnogos. Non appena riuscito nel suo intento, fece volare quelle durissime tavole le une contro le altre, con in mezzo il risicato mare di SSX-47 rimasto. Fu un bagno di sangue senza precedenti, ma un bagno di sangue vittorioso, infine. Inghiottirono le lacrime, i due superstiti, raccolsero le energie dalle scorte dei freschi defunti, finirono gli SS ancora in vita con veloci colpi di spada e salirono le scale sulla parte di fonda a incontrare il loro destino.
 
La stanza era spoglia come tutte le altre. Giusto alcuni effetti personali, delle armi; una corazza appesa a un sostegno. Fogli e strumenti – questa volta tutto nell’ordinario – su una scrivania che dava le spalle a una larga finestra senza vetro. Le fiamme delle torce vibravano di tensione, sottilissime ed ondulate. Orrore Profondo, l’ultimo triumviro in vita, l’ultimo capo supremo del popolo e dell’esercito della rinascita gormitica che ancora ostacolava la fine sperata della guerra, sembrava averli aspettati, sembrava sapere che dei sicari fossero venuti da lui. Non era scappato e non si era preparato a una lotta. Forse non si aspettava che qualcuno arrivasse fin lì.
Per qualche strana ragione, era privo delle ali di ossa che avevano fatto di lui una figura orrorifica sin dalla sua prima apparizione ai Popoli alleati. Il suo aspetto terrorizzante, tuttavia, non dipendeva solo da quel paio di ali inverosimili che altrettanto inverosimilmente, ora sembrava essersi tolto come un capo di vestiario. Il suo volto grigio cinereo, e le corna dorate che avevano perso un po’ di colore. Avvizzito dall’età, il suo viso nel complesso era ciononostante efficacemente orribile.
La magrezza impressionante del suo corpo e la muscolatura molto sviluppata, creavano una combinazione da incubo. La potevano vedere chiaramente: era nudo, almeno nella parte superiore del corpo. Sotto, indossava una gonnella di cuoio, una cintura con una spada e degli stivali rinforzati.
“Orrore Profondo. – parlò Darnogos, puntandogli contro la spada lunga – Siete finito.”
“È probabile, sì.” disse quello molto tranquillamente, in una voce cavernosa resa ancora più agghiacciante dall’età avanzata. Le sue labbra erano aride così come il suo respiro, e secche ed acri le sue parole.
“Prima di uccidervi, vogliamo delle risposte.” Prese inaspettatamente parola Radiclon.
“Quello che volete. Del resto, sto per morire.” Replicò Orrore, in tono tutt’altro che canzonatorio. Era genuinamente tranquillo e in pace. Nascondeva senz’altro qualcosa, sotto quegli occhi violacei apparentemente così calmi e rassegnati.
“Che cos’è questo posto? Perché è disabitato? Perché solo voi?”
“Questa è una fabbrica di Soldati Scuri. – rispose, disponibile – Sottoterra, non ai piani che avete visto voi. Lì vengono mantenuti e ci sono le scorte di cibo. O dovrei dire…sarebbero stati.”
“Perché nessuna difesa magica?” domandò Darnogos.
“Perché sì? Doveva essere una sede segreta. Nessuno doveva saperne, ma quanto pare non è stato così. Posso farvi io delle domande, ora? – non attese che i due risposero; prese in mano la spada – Perché tutta questa fatica per uccidere noi, i Triumviri? Credete davvero che serva a qualcosa? Uccideteci pure, non cambierà assolutamente nulla. La guerra è in corso e non finirà perché tre persone muoiono. Picco Aquila è nostro, ormai. Roscamar e Garsomor sono completamente chiuse, e presto anche i passaggi sotterranei verranno occupati. La galleria di Astreg è già chiusa, e quella del Bazaar lo sarà a breve. Non potete fermarci. – levò la spada, indirizzando la punta contro i due avversari di fronte – Sto ancora attendendo la mia morte.”
Radiclon e Darnogos si fissarono di sottecchi per un brevissimo istante. Rapidissimi, imbracciarono le loro spade lunghe fianco a fianco e scattarono in avanti, puntando al petto dell’ultimo uomo.
Non lo toccarono mai: Orrore li abbagliò e li respinse con un getto di luce che disarmò il forestale, dopodiché allontanò ulteriormente col fuoco del suo cannone a braccio il terricolo; Radiclon si riprese presto dalla luce ed evitò il flusso infuocato. Senza pensarci, colmo improvvisamente di una rabbia irrefrenabile, si scagliò in avanti, si abbatté su Orrore Profondo prima con della forza magica, poi con il suo stesso corpo, e buttò se stesso e lui fuori dalla finestra, di nuovo nella pioggia torrenziale che non aveva mai smesso. Era una bella altezza da lì al suolo, e nella caduta Radiclon si mantenne stretto ad Orrore, colpendolo ripetutamente, come fece anche lo stesso vulcanico, con il manico della spada e con la lama stessa, che trovò resistenza nei bracciali della corazza Neor’gani. Se evitarono di sfracellarsi fu solo perché Orrore Profondo si divincolò ed entrambi atterrarono dolcemente tenendosi sospesi con la forza magica per gli ultimi piedi di caduta. Darnogos, intanto, non tanto abile in quell’arte, preparava la sua discesa utilizzando un lastrone di pietra su cui sarebbe giunto a terra ‘planando’.
Orrore Profondo sfidò l’unico sicario presente: “È così che operano questi abilissimi assassini? Gettando gente fuori dalla finestra, e se stessi con i loro avversari? Tsk. – fece ripetutamente di no con la testa, e puntò nuovamente l’estremità della spada contro Radiclon – Mi aspettavo decisamente di meglio.”
Iniziò ad avanzare contro di lui. Radiclon tentennò, sulla difensiva. Non aveva armi con cui competere, ed era completamente allo scoperto. Usare ancora la forza magica lo avvertiva come fuori discussione: Orrore Profondo se lo aspettava di certo. Il controllo organico? Era l’unica opzione, ma Orrore poteva sfuggire od evadere dal campo visivo, essendo le movenze per esso e per la forza magica pressoché identiche. Aspettava, allora. Attendeva il momento opportuno, quando Orrore si fosse fatto troppo vicino per poter scappare. O un intervento tempestivo di Darnogos, che atterrò in quel preciso istante. Il fu Signore del Vulcano scambiava continuamente la spada tra le mano sinistra e la ‘mano’ destra, le corte e poco stabili appendici che culminavano e contornavano il suo cannone lavico. Avanzava lentamente ma con passi scattanti, tra i quali scorrevano lunghi minuti. Ecco! Ecco che correva finalmente, contro di lui, spada stretta tra le appendici destre, lo caricava, si preparava a trapassarlo. E Radiclon si preparava a spezzargli il collo.
Tutt’altro. Radiclon fu buttato a terra da uno scoppio esplosivo che lo buttò a terra e gli rovinò irreparabilmente il pettorale ed altre parti dell’armatura, e fu invaso da un fuoco che non gli dava tregua e minacciava di ucciderlo. Tenendo la spada nella mano più debole, nell’altra Orrore aveva caricato la sua arma più micidiale: la Palla di cannone. Non era certo paragonabile come intensità a quella a cui poteva dare vita sul polpastrello quando ancora i gormiti erano liberi creatori degli elementi, ma ugualmente pericolosa e devastante: Radiclon era fuori combattimento, per ora.
Darnogos fu sul pezzo: attaccò con la spada lunga Orrore Profondo, il quale riuscì a difendersi e a rispondere al colpo. Era uno spadaccino eccezionale, il Triumviro. Si menarono affondi e fendenti, con Darnogos completamente sull’offensiva e Orrore più difensivo, ma tutt’altro che in svantaggio. Darnogos doveva ricorrere ad altri mezzi se voleva vincere. Specie considerando che, approfittando di un secondo in cui la fatica ebbe la meglio sul terricolo, il vulcanico passò all’offensiva e con una potente sciabolata spezzò in due la lama di Karmil. Prevedibile: non erano armi concepite per duelli, ma per trapassare la carne. Con un calcio sul polso Orrore disarmò completamente Darnogos, gli si avvicinò per dargli il colpo di grazia. Caricò la spada all’indietro.
“NO!”
Non sarebbe morto. Non poteva morire. Doveva restare in vita. Radiclon in un solo istante urlò, si liberò dalle fiamme e devastò Orrore Profondo con un rabbioso boato d’ombra. Fu scagliato contro un albero vicino, disarmato, riuscendo, però, nel suo intento, in minima parte: Darnogos era stato ferito alla spalla, e anche piuttosto male, sembrava. Il forestale gli si affiancò, ma lui lo allontanò bruscamente.
“Non pensarci! Inseguilo!”
Orrore Profondo stava fuggendo nel bosco! Radiclon non se lo sarebbe lasciato scappare, non ora. Lui doveva morire, e l’avrebbe ucciso lui. Si mise con rinnovata forza di mille leoni al suo inseguimento, strappandosi di dosso gli ultimi inutili stracci di armatura Neor’gani; Darnogos lo seguiva rabbioso, ma a rilento.
Radiclon non conobbe pietà in quei momenti. Si gettò a capofitto nel mare d’alberi, molto, molto più fitti che quelli del bosco da cui erano partiti, quando erano ancora in cinque. I rami erano fastidiosi, lo graffiavano, potevano conficcarglisi negli occhi, bloccargli l’inseguimento. Orrore Profondo, piccolo nonostante l’invidiabile muscolatura e molto più agile di lui, ne soffriva ugualmente, ma di meno, e gli era ancora molto più avanti. Radiclon attinse ad ogni riserva di energia che il suo corpo stremato e ansante di rabbia omicida avesse ancora disponibili, accelerò la sua corsa impazzita e, come un folle, si liberò di quei innervosenti rami a mani nude, strappandoli, distruggendoli con la sola forza fisica, talvolta quella magica. Fu una strage di alberi, non solo a causa sua ma anche grazie a Orrore Profondo. Forse non troppo convinto di poter seminare il suo follemente irato inseguitore, che vedeva letteralmente radere al suolo gli alberi dietro di lui, in quella fuga forsennata si voltava e con la mano scagliava globi di fuoco, che il più delle volte Radiclon accettava su di sé senza badare a schivarli, avrebbe solo perso tempo, e urti di forza magica che lo rallentavano sentitamente ogni volta che lo colpivano.
Il forestale non era da meno. A qualsiasi costo avrebbe raggiunto Orrore Profondo e lo avrebbe ucciso. Continuando a distruggere rami e tronchi in preda a una rabbia incredibile che fomentava lui stesso con cattivi pensieri e pessime immagini, cercava di abbattere o di stringere il vulcanico fuggitivo con l’ombra. Di quei rami che così pazzamente ne faceva trucioli, diversi ne lanciava a tutta velocità contro la schiena rossa del Triumviro. Non sperava certo di ucciderlo o rallentarlo così: voleva semplicemente ferirlo. Più lo feriva, più si indeboliva e allora lo spazio che li divideva sarebbe diminuito. In un frangente gli riuscì di afferrare la sua caviglia con il potere della Foresta e di fargli distendere la gamba all’indietro: Radiclon gongolò di malsana soddisfazione allora, e il distaccò tra di loro fu notevolmente ridotto, ma non abbastanza perché il forestale potesse raggiungerlo. Orrore continuava a correre imperterrito, e a lanciare fuoco e fiamme alle sue spalle, dove i rami si facevano sempre più radi per l’azione di rabbioso disboscamento di Radiclon. Gli capitò di spezzare un ramo particolarmente massiccio: fu subito tra le gambe di Orrore Profondo, facendogli subire uno straordinario inciampo e facendolo rotolare dolorante per alcuni piedi. Radiclon, come un predatore, sentiva l’odore della preda in pericolo, pronta a morire, e l’odore gli dava forza, corse ancora più velocemente. Poi la luce: la preda non era ancora del tutto fuori combattimento. Radiclon fu momentaneamente accecato da un occhio, ma continuò ad avanzare: Orrore era ancora a terra, e lanciava contro l’inseguitore guizzi di fuoco. Radiclon quasi non li sentiva. Il doppio calcio in faccia e nel petto quando era ormai su di lui lo sentì eccome, invece.
L’inseguimento proseguì, nutrendo la rabbia di Radiclon. Tranciando ancora altri rami, il forestale si concentrò di nuovo sui cadaveri che aveva dovuto vedere con i suoi occhi: Trematerra, Sparafuoco, Helico. Erano morti per causa sua, di Orrore Profondo. Questo pensiero lo riempì di un calore incandescente dalla punta dei piedi fin sopra i capelli: Orrore Profondo doveva morire.
Con uno slancio micidiale, gli riuscì dunque di abbattere il supremo omicida con un grido e un macigno d’ombra che affondò sulla schiena del vulcanico. Corse su di lui, ormai era fatta. La preda era tra le sue grinfie, e non sarebbe più scappata.
Caricò un pugno al suolo. Orrore scartò di lato, schiena a terra. Ne caricò un secondo. Di nuovo fu evitato. Allora senza mezzi termini gli saltò addosso, a cavalcioni. Lo guardò fisso negli occhi, in quegli occhi viola spaventati a morte e stremati. In quegli occhi vide Picchiavex, Tremoriu, Elasian, Helico, Darnogos ferito…Dimentico della disciplina, del suo compito, con la sola rabbia più sfrenata a dominarlo, non pensò a finirlo subito. Lo tempestò di pugni in pieno volto. Ancora e ancora, le enormi mani dalle sette dita del forestale si abbattevano sul cranio cornuto del dannato gormita come un fulmine. Non durò per sempre: pure con la faccia gonfia e tumefatta e ricolma di sangue, Orrore Profondo riuscì ad evadere. Lo Sguardo del Sole infiammò il viso di Radiclon, rischiosamente vicino ad un occhio, minacciandolo seriamente di accecarlo per sempre. Si portò ululante le mani in viso, e Orrore colse il momento per ritornare la sofferenza subita: pugni nello stomaco, nella faccia. Quando riuscì ad alzarsi, un montante sotto il mento e un calcio in pieno petto. Ne preparò un altro…il peggiore sbaglio che poteva commettere. Radiclon gli distorse la gamba, gli ruppe dolorosamente il ginocchio, piegandolo ad angolo retto verso l’interno del bacino.
Radiclon si alzò: aveva la vittoria in pugno, adesso. La gola di Orrore stretta in pugno, la sua schiena sbattuta contro un tronco. Entrambe le mani atte a strangolarlo come non aveva mai strangolato nessuno. Negli ultimi istanti, Orrore Profondo, Triumviro della rinascita gormitica, Saggio del Vulcano e Signore Unico del Vulcano, non si arrese alla morte incombente: mentre i suoi polmoni chiedevano pietà, con le forze residue strinse il gomito sinistro del combattente della Foresta ed evocò il fuoco. Insistette a bruciargli il braccio fino alla fine.
Con un grido impossibile, Radiclon spezzò il collo di Orrore Profondo.
“È stato…intenso…Strapparami. – sopraggiunse Darnogos sfinito – Ora è finita. Abbiamo vinto.”>>
   
 
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