Fanfic su attori > Tom Hiddleston
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Autore: teabox    26/08/2015    9 recensioni
Dove due persone che credono di conoscersi quanto basta scoprono di non conoscersi affatto, dove il destino decide di cambiare le carte in tavola e dove le stranezze abbondano. Un pizzico di magia, poi, rende l'impossibile improbabile (o forse, meglio, quasi possibile).
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: ma porca miseria. Che sì, non è il modo più educato di cominciare, ma questa cosa che segue doveva essere una scemenza corta ed invece, da qualche parte, si è trasformata in una scemenza lunga.

Le ispirazioni sono varie ed eventuali, ma si possono far tutte risalire ad una di queste ultime serate estive, in cui ci sono state una marea di chiacchiere sciocche e decisamente troppi Mint Julep.

Vi ritengo avvisati.

Si applicano i soliti disclaimer (è tutta fantasia e frutto di questa mente pigra ed incline alle scemenze. Come se ci fossero dubbi, comunque).

A chi si ferma a leggere, grazie mille e buona fortuna. 

 

 

 

Dei vari effetti collaterali che l’avere premonizioni portava con sé, una delle conseguenze più fastidiose era, probabilmente, il non riuscire più a sorprendersi di quasi nulla. 

Fu forse per quello che Charlotte inizialmente non riconobbe la sensazione. 

In fondo tutto il resto era esattamente come nel sogno che l’aveva accompagnata nell’ultimo periodo. 

Il giardino di notte. L’orlo del lungo vestito che sfiorava l’erba. Le scarpe tenute in mano che catturavano qualche riflesso della luna. L’aria appena pungente ed umida. La timida luce di un lampione solitario.

 

Lui, però.

Che non doveva essere lui.

Che non poteva essere lui.

Lì, in quel posto. Così. 

Ci doveva essere stato un errore, da qualche parte, di qualcuno o qualcosa. Un singhiozzo nelle congiunzioni astrali o qualcosa del genere.

 

Perché lei e Tom in fondo erano stati nemici giurati fino a solo un paio di giorni prima. E, a dire il vero, tutto quello che era successo in quegli ultimi due giorni aveva solo incasinato la situazione di più. 

 

 

 


Come nella maggior parte dei casi in cui una situazione da normale degenera velocemente in pessima, era cominciato tutto con una frase relativamente innocente.

 

(Relativamente innocente, s’intendeva, perché in fondo era stata sua madre a pronunciarla e Tom, a trenta-e-qualcosa anni, era finalmente riuscito ad accettare il fatto che sua madre sapesse fingere bene tanto quanto lui.)

 

«Thomas, tesoro», aveva detto sua madre al di sopra di una tazza di tè, «avrei un piccolo favore da chiederti.»

Tom, più attento al match di tennis in televisione che a sua madre, aveva distrattamente risposto qualcosa come “certo, ma’, quello che vuoi” - e il fatto che non si ricordasse esattamente cosa le avesse detto era, se non altro, indice di quanto poco attento Tom fosse stato alla conversazione e con quanta precisione sua madre avesse calcolato il momento giusto per porgergli la domanda.

 

«Sei un tesoro, Thomas, grazie mille per la tua disponibilità.»

Tom, perplesso, aveva staccato lo sguardo dalla televisione, ma una frase accaldata del commentatore aveva ricatturato quasi immediatamente la sua attenzione. Il pensiero che per un attimo si era formato nella sua testa - ovvero, che non aveva davvero dato la sua disponibilità per nulla - era stato temporaneamente messo da parte da un possibile fallo di piede del battitore per cui tifava.

«Chiamo immediatamente Babs per farglielo sapere», aveva continuato sua madre abbandonando il tè in favore del cellulare.

 

«Babs?», aveva chiesto Tom senza staccare gli occhi dallo schermo della televisione.

«Sì, Babs, tesoro. Barbara Davies. Sarà così contenta di sapere che ci penserai tu a portare Charlie ad Inverness. Con questo tempo assurdo la metà dei treni sono fermi e l’altra metà viaggia con terribili ritardi e disagi. E’ una tale fortuna che tu debba andarci per il matrimonio di Neil.»

Tom stava ancora fissando il match di tennis, ma senza idea in quel momento di cosa stesse succedendo sul campo. Il suo cervello, tra il piccolo mucchio di parole che sua madre aveva pronunciato, si era fermato su di una in particolare. 

«Charlie

Sua madre prese un sorso di tè. «Sì, tesoro. Quand’è stata l’ultima volta che l’hai vista, l’anno scorso? Era al compleanno di Emma? No, forse era a quel piccolo party per il tuo ritorno? Comunque sia, parlavo con Babs l’altro giorno ed è saltato fuori che Charlie deve andare ad Inverness per qualcosa riguardo all’università. Ha detto che è da giorni che la povera ragazza sta cercando di trovare un modo di organizzare la cosa, perché le ferrovie sono un terribile caos ultimamente. Coincidenza vuole che Charlie debba essere ad Inverness il giorno prima del matrimonio del tuo amico e mi è tornato alla mente come tu avessi detto che volevi andare un paio di giorni prima per visitare Dunrobin Castle, quindi le ho detto “ma Babs! Thomas va ad Inverness in macchina in quei giorni, sono sicura che può dare uno strappo a Charlie”.»

 

Tom si voltò a guardare sua madre, ma l’aria innocente con cui lei accolse il suo sguardo non lo fregò nemmeno per un attimo. 

«Charlie, mamma? Dico, Charlie.»

Sua madre fece un piccolo gesto vago con la mano. «E’ una ragazza così carina.»

«Non mi sopporta, ma’. La ragazza mi odia, per essere precisi», le fece presente Tom.

«Oh, Thomas, non essere drammatico. Forse l’ultima volta che vi siete visti non è andata tanto bene, ma tu eri stanco e lei aveva i suoi problemi. E’ passato un anno e quante cose cambiano in un anno?»

 

Tom alzò un sopracciglio. Sua madre sospirò uno di quei suoi classici sospiri che significavano “ti stai comportando in maniera irragionevole, ma sei un uomo adulto e io non posso certo dirti cosa fare”.

«Se preferisci, allora, chiamo Babs e le dico che c’è stato un cambio di programma e sei desolato di non poter aiutare Charlie. Babs sarà dispiaciuta, ma capirà. In fondo è solo la mia migliore amica.»

Tom in un’altra situazione avrebbe forse riso davanti a quel palese tentativo di manipolazione di sua madre, ma in quella specifica situazione non trovò di meglio da fare che abbassare la testa e arrendersi.

«No, mamma. Dille pure che mi farà piacere portare Charlie ad Inverness.»

“Piacere” forse era una forzatura, ma che altro poteva dire.

«Grazie, tesoro», gli rispose sua madre.

Tom le accennò un sorriso e tornò a guardare il match di tennis, senza riuscire però a concentrarsi. 

 

Charlie.

In fondo era davvero passato un anno. 

In fondo poteva davvero essere cambiata.  

In fondo poteva davvero essere cresciuta un po’. Maturata. Diventata meno la fastidiosa, irritante, piccola saccente che-

Tom si portò una mano alla fronte, spostando i capelli infastidito. 

 

Inverness, per la miseria. Nove ore e mezza di macchina da Londra. Di più con il traffico.   Quando Neil gli aveva chiesto di fargli da testimone al matrimonio insieme al resto dei loro amici di sempre, Tom aveva accettato senza esitazioni. Non solo erano praticamente cresciuti insieme come fratelli, ma sembrava anche un’ottima occasione per passare un po’ di tempo con quel piccolo gruppo di persone che non vedeva spesso come avrebbe voluto.

L’aereo era stata la sua prima scelta (Londra-Inverness, un’ora e mezza di volo, praticamente nulla), ma Neil gli aveva poi domandato aiuto con alcuni dettagli - tra cui il trasporto da Londra dei sette kilt per i testimoni - e Tom aveva dovuto riconsiderare il viaggio in aereo, optando invece per la soluzione più pratica - ovvero guidare da Londra fino alla cima della Scozia. 

Nove ore e mezza di viaggio.

Terribile di per sé, ma anche peggio con l’imprevista aggiunta di una compagna di viaggio come Charlie. 

 

Tom sospirò.

Avrebbe esercitato pazienza e autocontrollo e avrebbe tenuto la bocca chiusa e così forse - forse - sarebbe riuscito a sopravvivere a quel viaggio. E il matrimonio di Neil, poi, sarebbe stato sufficientemente pieno di liquori per superare il trauma.

 

«Sarebbe così bello», decise poi di dire sua madre a quel punto.

Tom tornò a guardarla con sospetto e timore. «Di cosa parli?»

Lei gli sorrise amabilmente, alzando le spalle con noncuranza. «Quand’era piccola, undici o dodici anni forse, Charlie aveva questa adorabile infatuazione per te. Era una cosa così carina. Pensavo sarebbe bello se voi due poteste finalmente diventare amici.»

Tom la guardò incredulo. «Lei…cosa?!»

Sua madre sventolò la mano come a cancellare la reazione di Tom. «Era una bambina e tu eri un giovane uomo molto carino e ben educato. E la facevi ridere. E lo sai quanto una donna - di qualsiasi età - ami un uomo che la sa far ridere.» 

Tom arrossì davanti all’espressione divertita di sua madre, ma prima che potesse aver modo di dire qualsiasi cosa, lei riprese a parlare.

«Non essere così sconvolto, Thomas, si trattava solo di una piccola infatuazione come capita a tutte le bambine, prima o poi. Acqua sotto i ponti, oramai, certamente.»

 

Tom tornò per l’ennesima volta a cercare di concentrarsi sul match di tennis, ma per qualche ragione gli sembrò impossibile riprendere il filo dell’incontro da dove lo aveva lasciato.

Spense la televisione.

Gli sembrava impossibile, a dire il vero, riprendere il filo di molte altre cose. 

 

 

Charlie non era quasi mai stata Charlotte. O, almeno, Tom si ricordava poche, pochissime volte in cui qualcuno si era riferito a lei usando il suo nome. Tuttavia non poteva esserne certo, perché non era mai stato molto presente o coinvolto nella vita della figlia minore della migliore amica di sua madre, e tanto meno nella genesi etimologica del suo soprannome. Charlie era sempre stata Charlie. Raramente Charlotte.

 

Se per qualche strano motivo lei gli tornava in mente, erano sempre due le immagini contrastanti che affioravano per prime nella mente di Tom. Una era quella di una bambina curiosa e un po’ timida che lui si divertiva a far ridere con imitazioni e assurdità - come aveva sempre fatto con Emma quand’era stata piccola - e l’altra quella della giovane donna che aveva visto l’ultima volta un anno prima e che lo aveva chiamato “manichino presuntuoso e pieno di sé”. 

Del resto lui l’aveva definita “saputella frigida”, quindi si considerava vendicato.

 

Anche se - e c’era un po’ di rimorso nell’ammetterlo - si ricordava ancora lo sguardo di ferita sorpresa che era apparso negli occhi di lei e il modo in cui, per un istante, era sembrata sul punto di piangere. 

 

Ma - e Tom non si stancava di ricordarselo - Charlie se l’era cercata. 

 

Non sapeva cosa fosse andato storto e dove, lungo la strada della loro conoscenza (perché, davvero, non era mai stata un’amicizia la loro - qualcosa come dieci anni di differenza e mondi diversi che li dividevano). Ma sapeva che c’era stato un punto - lei ancora una bambina e lui non ancora un attore così conosciuto - in cui Charlie aveva stravisto per lui, in cui Tom non poteva fare nulla di sbagliato, in cui era stato il fratello maggiore perfetto che lei - in una famiglia di sole femmine - sembrava sempre aver voluto.

 

Ma, da qualche parte tra l’adolescenza e l’età adulta in cui Charlie si trovava ora, qualcosa era cambiato e lei non aveva solo deciso che lui era - apparentemente - il Male Reincarnato, ma si era anche trasformata in una piccola so-tutto-io che, ad ogni possibile occasione, sembrava sempre provare gusto a giudicare Tom e puntualmente trovarlo manchevole ed in difetto. Che, francamente, era una gran rottura di palle. 

 

Senza parlare, poi, delle assurde fantasie in cui Charlie sembrava credere in maniera ridicola. Carte. Stelle. Segni in fondi di caffè e tè e - idiozia preferita dal sarcasmo di Tom - premonizioni. Pre-mo-ni-zio-ni. Per l’amor del cielo

La ragazza era, ovviamente, affetta da qualche squilibrio chimico. 

Anche se, per quanto Tom facesse fatica ad ammetterlo, non era che Charlie se ne andasse in giro a parlarne apertamente.

Era, più che altro, un altro dei suoi adorabili tratti caratteriali. Irritante, saccente et delirante.

 

E ora - perché sua madre aveva dimostrato capacità manipolative più raffinate di quanto Tom avrebbe creduto - si trovava in una gelida mattina di Febbraio, ad un’ora altresì indecente, lungo una strada di Londra in cui non passava da molto tempo, con lo scopo di accogliere nella sua macchina proprio quella “gran rottura di palle” e condividere con lei il piccolo abitacolo per la bellezza di nove - o forse dieci - ore.

Oh, gaudio.

 

 

Sarebbe stato difficile confonderla con qualcun altro, pensò Tom accostando la macchina vicino al punto del marciapiede dove lei lo stava aspettando.

E non solo perché era l’unica persona sulla strada in quelle prime ore del mattino, ma anche per l’espressione vagamente incazzata che portava dipinta sul viso e che Tom ricordava identica all’ultima volta che aveva visto Charlie.

 

Aveva le braccia incrociate sul petto, un paio di cuffie alle orecchie e con un piede batteva incessantemente il marciapiede, ma non tanto - sembrava - per tenere il ritmo della canzone che stava ascoltando, quanto in un moto di impazienza e fastidio. 

Tom guardò l’orologio nel cruscotto della macchina. Era in ritardo di quindici minuti. Grandioso. Lei non glielo avrebbe mai perdonato. 

 

 

Tom era uscito dalla macchina con un sospiro che non era sfuggito a Charlotte.

L’irritazione che aveva tenuto a freno nelle ultime settantadue ore - ovvero da quando sua madre le aveva annunciato che Tom l’avrebbe portata ad Inverness - minacciò di saltare fuori e dare il meglio di sé. 

 

Si trattenne, invece, e sfogò una minima parte della frustrazione chiudendo con probabilmente più forza di quanto necessaria il bagagliaio della macchina dove aveva depositato il suo borsone da viaggio.

Tom ebbe l’indecenza di sorriderle con sarcasmo.

Charlotte lo ignorò.

Scivolò nel sedile del passeggero, alzò il volume della musica e chiuse gli occhi. 

Forse così sarebbe sopravvissuta al viaggio.

 

 

Poteva sentirli, Charlotte, i laccetti di tessuto delle scarpe che teneva con le dita. I fili d’erba che le solleticavano i piedi nudi. E dentro, in fondo, dietro tutto il resto, incastrata tra lo stomaco e il cuore, quella sensazione di strana gioia ed emozione. 

 

Aprì gli occhi di scatto, confusa per un momento dal non trovarsi in un giardino di notte, ma piuttosto in una macchina all’ora in cui la maggior parte delle persone cominciava a svegliarsi. 

Una macchina, tra l’altro, che si muoveva con terribile lentezza, imbottigliata nel mezzo del traffico londinese di chi andava a lavoro o tornava a casa. 

Si sfilò le cuffie - la musica era cessata chissà quando durante il sonno - e mosse le spalle e il collo cercando di rilassarli. 

 

Notò Tom pretendere di non guardarla, ma osservarla comunque con la coda degli occhi. 

Se si aspettava che lei iniziasse una qualsiasi conversazione, sarebbe rimasto deluso.

 

«Dormito bene?», domandò lui con una nota troppo gentile per non essere ironica.

«Magnificamente», replicò lei con lo stesso tono, senza guardarlo. Cercò il suo cellulare nella tasca della giacca e controllò online la situazione del traffico. 

Tom, che aveva colto cosa Charlotte stesse facendo, indicò la fila apparentemente infinita di macchine che si stendeva davanti a loro. «Alla radio hanno detto che c’è stato un incidente. Ore di coda. Ma ho già pensato ad una soluzione.»

 

Qualcosa nello stomaco di Charlotte si annodò. Era la classica sensazione che affiorava ogni volta che qualcosa stava per cambiare. O, come preferiva immaginarselo lei, quando il destino nella forma di una gigantesca roulette iniziava a girare velocemente, prima di fermarsi su di un nuovo sentiero. Che - per generale esperienza di Charlotte - raramente era migliore di quello precedente.

 

«Se prendiamo la prossima uscita», continuò Tom ignaro dei presentimenti di Charlotte, «possiamo andare per strade interne fino a dopo l’incidente. Da lì, poi, ci rimettiamo sull’autostrada e proseguiamo normalmente. Non si allunga di molto e, comunque, a questa velocità ci si mette molto di più a stare qui.»

«Conosci la strada?», domandò Charlotte cercando nel frattempo possibili scuse per fargli cambiare idea. 

«No», ammise Tom, «ma possiamo sempre usare il cellulare.»

Lo stomaco di Charlotte si annodò un po’ di più. «O possiamo sempre rimanere qui.»

Tom tamburellò le dita sul voltante. Era terribilmente ovvio che fosse seccato. «E’ una perdita di tempo. Se invece prediamo l’uscita-»

«-rischiamo di perderci», s’intromise Charlie.

«Abbiamo i cellulari.»

«E se non c’è segnale?»

Tom sbuffò sarcastico. «E’ il ventunesimo secolo, Charlie, e siamo in Inghilterra. Cosa ti fa pensare che non ci possa essere segnale?»

«Il fatto che perfino in centro a Londra la ricezione è terribile?», rispose Charlotte altrettanto sarcastica. «E il mio nome è Charlotte, non Charlie.»

Tom sbuffò di nuovo. «E’ il tuo soprannome praticamente da sempre, signorina. Cos’è, improvvisamente siamo formali? O forse sei diventata troppo matura per i nomignoli?»

Charlotte arrossì - anche se più per irritazione che imbarazzo. «E sembra ovvio che in questa macchina sono l’unica che è maturata.»

Tom le rifilò uno sguardo che, se fosse stato possibile, l’avrebbe incendiata. E, prima che lei avesse modo di protestare oltre, cambiò di corsia in maniera alquanto azzardata ed imboccò l’uscita al centro della discussione. 

Charlotte lo guardò infastidita. «Molto maturo da parte tua.»

Tom, in risposta, accolse la sua irritazione con un sorrisetto soddisfatto. «Volevo solo dartene prova. So quanto ti piace avere ragione.»

 

 

Alla prima fermata - una piccola stazione di servizio in un paesino appena più ampio - Charlotte uscì dalla macchina nell’attimo in cui Tom si accostò all’unica pompa di benzina. 

Lasciò la giacca sul sedile e allungò le braccia sopra la testa, assaporando l’aria fresca sulle braccia e sul viso. E nonostante il fastidioso presente in cui si trovava, non poté evitare di sorridere.

 

«Oi, Bella Addormentata», la distrasse Tom con un tono quasi secco, «non siamo da soli.»

«Che?», domandò Charlotte confusa.

Lui accennò con la testa ad un paio di ragazzi fermi vicino all’ingresso del piccolo negozio attaccato alla stazione di servizio. Per qualche motivo la stavano guardando sorridendo in maniera ambigua.

«Forse dovresti coprire parte della mercanzia», aggiunse Tom.

Solo in quel momento Charlotte si rese conto che la sua maglietta doveva essere salita quando aveva alzato le braccia, ma non era tornata a posto. E tra quello e i jeans a vita bassa, stava lasciando vedere più di quanto fosse necessario. Aggiustò i vestiti e lanciò uno sguardo appena imbarazzato a Tom, che comunque non la stava guardando, intento a fare il pieno alla macchina.

«Vado dentro un attimo», annunciò allora Charlotte. «Hai bisogno di qualcosa?»

«No», rispose Tom continuando ad ignorarla.

Charlotte sbuffò. Era incredibile come quell’uomo riuscisse ad irritarla anche con solo una parola.

 

Passò davanti ai due ragazzi e ai loro sorrisi idioti e le venne voglia di mostrare loro l’indice medio, ma si trattenne. Anche quando istintivamente sentì che si erano girati per guardarle il sedere. 

Imbecilli.

 

Trovò il bagno e si rinfrescò il viso con un po’ di acqua, osservando il suo riflesso in uno specchio storto e scheggiato. E da qualche parte, sfocato dietro la sua immagine, le sembrò di notare qualcos’altro. Afferrò con le mani il lavandino - le dita presero a formicolare leggermente, ma la cosa non la sorprese - e strinse un po’ gli occhi, avvicinandosi con la testa allo specchio per vedere meglio. 

Era come se qualcuno stesse proiettando un film confuso sul muro alle sue spalle, ma Charlotte sapeva che se si fosse girata a vedere, non avrebbe trovato assolutamente nulla. Quindi inspirò ed osservò meglio lo strano riflesso nello specchio.

Pioggia. Decisamente pioggia. E qualcosa che sembrava un sentiero infangato che si arrampicava su di una collina.

Qualcuno bussò alla porta e Charlotte sussultò appena. 

«E’ ora di andare», la raggiunse la voce - seccata - di Tom.

Charlotte tornò a guardare lo specchio, ma l’immagine era sparita. Sospirò frustrata. 

Aprì quindi la porta e si trovò davanti un Tom infastidito in maniera più che irragionevole. 

«Mille grazie per la pazienza», gli disse sarcastica.

Lui ignorò la battuta e la prese senza troppi convenevoli per il gomito.

«Posso camminare da sola», gli fece presente Charlotte.

«Allora cammina», replicò Tom aprendo la porta del piccolo negozio per farla uscire.

Charlotte alzò gli occhi al cielo.

Quell’uomo era impossibile.

 

 

Da quando avevano lasciato la stazione di servizio, Charlie era tornata a chiudersi in una bolla di silenzio e a Tom francamente andava benissimo così.

La ragazza era impossibile.

 

Prima con la storia di rimanere imbottigliati nel traffico - e, davvero, razionalità e senso pratico pari a zero. Poi, alla stazione di servizio, dove non solo aveva dimostrato di essere terribilmente distratta, ma anche pressoché ignara di quello che le succedeva attorno.

Non solo quei due dementi all’ingresso del negozio l’avevano guardata come se Charlie fosse stata una pinta di birra in una giornata d’Agosto, ma i commenti in cui si erano lanciati dopo, appena lei era entrata nel negozio, l’avevano lasciato allibito. Allibito e vagamente incazzato.

 

Tom non era un cretino od un ipocrita, per carità. Capitava anche a lui di guardare in quel modo un sacco di ragazze e miseria, capitava di continuo. E sì, anche lui aveva guardato Charlie per un attimo, prima di farle notare cosa stesse succedendo. Ma il suo era stato più che altro un riflesso incondizionato. E comunque c’era modo e modo. 

E la maniera di quei deficienti non era corretta. Per quello - e per quello che li aveva sentiti dire - Tom aveva deciso di andare a prendere Charlie al bagno e scortarla fuori. 

E alla porta, con un’occhiata incendiaria che non aveva lasciato dubbi riguardo al livello della sua irritazione, Tom aveva sentito la responsabilità di rendere chiaro e cristallino a quei due dementi che li aveva sentiti e non approvava. Non approvava nemmeno un po’.

 

E Charlie, che apparentemente viveva sulle nuvole, non sembrava essersi accorta di nulla.

 

Si domandò brevemente da quando e per quale ragione sentisse quel genere di protezione per Charlie, ma razionalizzò la cosa ragionando che non era per Charlie di per sé, ma più che altro per rispetto verso il genere femminile in generale. 

Fossero state Emma o Sarah o una perfetta sconosciuta, Tom avrebbe fatto la stessa identica cosa. Non c’erano dubbi a riguardo.

 

E il fatto che si sentisse in dovere di rassicurarsi e razionalizzare non significava assolutamente nulla. Era sol-

 

«No.»

Tom lanciò un’occhiata sorpresa a Charlie. «Scusa, cosa?»

Charlie sembrò vagamente a disagio. «Hai messo la freccia, ma non credo che dovremmo svoltare qui.»

Tom la guardò perplesso e controllò il navigatore sul cellulare. «Con tutto rispetto il mio GPS non condivide la tua opinione.»

Charlie lo guardò come se si sentisse presa in giro - e probabilmente non aveva tutti i torti. «Forse possiamo trovare una strada alternativa.»

«Per quale ragione?», domandò Tom aspettando che il semaforo diventasse verde. 

Charlie guardò fuori dal finestrino. «Non…non credo che…»

«Aspetta», disse Tom lentamente assecondando una vaga intuizione. «Non dirmi che è una di quelle tue cose.»

«Mie cose?», ripeté lei impermalita.

«Sensazioni», spiegò Tom agitando una mano divertito. «Presentimenti.»

«E se fosse?»

Tom commise l’errore di ridere. 

Charlie incrociò le braccia e lo guardò infuriata.

«Scusa», alzò una mano Tom cercando di fermare la risata. «Non voglio minimizzare o prendere in giro, ma…dai, davvero? Siamo seri.»

Lei lo fissò arrabbiata per un attimo di più, prima di girare il viso verso la strada davanti a loro. «Sai che c’é?», disse infine con un tono freddo e tagliente. «Fai come ti pare.»

 

E Tom girò.

 

 

Tre paesini esponenzialmente più piccoli e troppe ore più tardi, Tom fu finalmente in grado di ammettere che forse sì, c’era un problema con il navigatore. 

Perché si trovavano nel mezzo della campagna inglese ed ovviamente quello non era parte dei piani. 

 

Charlie - grazie al cielo - non aveva detto una parola. Per tutto il tempo era rimasta con le braccia incrociate e il volto cocciutamente rivolto sul paesaggio al di là del suo finestrino. 

Ma Tom scoprì che anche più irritante del suo parlare, era il mutismo testardo della ragazza. Soprattutto quando Tom voleva la sua opinione e una scrollata di spalle era invece tutto quello che riusciva ad ottenere in risposta da Charlie.

 

Tom accostò la macchina - e “accostare” probabilmente era il verbo sbagliato, dato che la strada era più che altro una striscia di terra battuta nel mezzo del nulla, con un allarmante fosso di lato che sembrava non aspettare altro che inghiottire la macchina.

 

Scese e distese le braccia, e con la scusa di muovere un po’ le gambe, si guardò attorno.

Nulla.

Colline in abbondanza, per carità, ma nulla di davvero utile. 

Il rumore della portiera che si aprì e si chiuse lo avvisò che anche Charlie aveva lasciato la macchina. Si girò cercando di racimolare un’espressione sicura e rilassata - non stanca e frustrata, come si sentiva in realtà.

 

«Allora che si fa?», chiese lei.

«Possiamo tornare indietro all’ultimo paese che abbiamo attraversato e chiedere indicazioni. Evidentemente c’è qualcosa di sbagliato con il navigatore.»

«Evidentemente», sentì il dovere di ripetere Charlie.

Tom le sorrise asciutto. 

«E ti ricordi come tornare indietro?», domandò lei.

Tom si schiarì la voce. «…sì?»

Charlie gli sorrise in una maniera che Tom non apprezzò. 

«Spero che la tua memoria sia più sicura della tua voce», gli disse tornando a sedersi in macchina.

«Possiamo sempre affidarci…», prese a dire Tom, ma la frase morì in un sussurro. Il cellulare era senza segnale. «Ma che cazzo? Avevamo linea fino qualche minuto fa.»

«Immagino che ci sia qualche interferenza causata da quello», rispose Charlie picchiettando un dito sul finestrino. Non troppo lontane, minacciose nuvole scure si avvicinavano velocemente. 

C’era stato un che di soddisfatto nella voce di Charlie che Tom trovò riflesso anche nel viso della ragazza, quando si voltò a guardarlo. Sorridendo

 

Lui chiuse gli occhi e contò fino a cinque. Inspirò profondamente, quindi tornò a guardarla racimolando un sorriso di circostanza. 

«Nessun problema», annunciò. «Come ti ho detto, ricordo la strada.»

 

E lei, in qualche modo, rispose con il “ah!” più sarcastico che Tom avesse mai avuto modo di sentire.

 

 

Non molto più tardi, si trovarono nel mezzo di un altra stretta strada di terra battuta, alle pendici di un altra collina, nel mezzo di un altro nulla.

O, almeno, Tom sperava che fosse così. Perché più deprimente di essersi persi di nuovo, sarebbe stato scoprire che avevano perso tutto quel tempo girando a vuoto.

 

Le nuvole scure erano ormai sopra di loro e il cellulare era più che mai assente da segni di vita. Charlie pareva essersi rinchiusa in un silenzio vagamente allarmato. Sembrava guardarsi attorno con l’aria di chi si aspettava qualcosa da un momento all’altro. Atteggiamento che non era di nessun aiuto per l’irritazione che Tom già provava nei riguardi di se stesso. 

Le prima gocce colpirono la macchina e come se qualcuno avesse aperto un rubinetto, un attimo più tardi una cortina di acqua rese quasi impossibile vedere alcunché ad un metro da loro.

 

La terra battuta della strada si trasformò velocemente in fango e la macchina prese a slittare pericolosamente.

Tom, dopo l’ennesima scivolata, si fermò sbattendo le mani sul volante. «Per la miseria!», sibilò a denti stretti e tornò a picchiare un altro paio di volte il volante, prima di appoggiare la fronte sulle mani con un che di sconfitto. 

 

Sentì Charlie sospirare. 

«Tom.»

Tom sospirò a sua volta, preparandosi per un commento acido o un “te lo avevo detto”.

«Tom.»

Lui alzò finalmente la testa e si voltò a guardarla.

 

E Charlie scrollò appena le spalle. Nessuna espressione divertita o soddisfatta. Ma nemmeno arrabbiata. 

«Non dovremmo essere troppo lontani da un paesino, credo.»

«E come lo sai? Lo hai letto nella pioggia?», chiese Tom acido, reso tale dall’irritazione che provava verso se stesso. Si rese conto immediatamente dell’errore e cercò di scusarmi, ma lei era già fuori dalla macchina e sotto la pioggia.

«Abbiamo passato un cartello qualche miglio fa», gli disse caustica, sbattendo poi la portiera con forza.

 

Tom sospirò ed appoggiò di nuovo la fronte sul voltante. Quando alzò la testa, vide Charlie camminare lungo la strada, in direzione della collina. Era già completamente fradicia. 

Uscì dalla macchina velocemente e la chiamò. Lei non rispose.

Mormorò allora una parolaccia e si decise a raggiungerla.

 

«Charlie, per l’amor del cielo, che stai facendo?»

Lei si fermò solo quando Tom l’afferrò per il braccio. Non bisognava essere geni per rendersi conto che era decisamente infuriata. Si liberò dalla presa con un gesto irritato ed indicò un punto al di là della collina. «Vado a cercare un posto caldo e asciutto dove passare la notte. Possibilmente lontano da te.»

«Charlie, avanti. Mi dispiace. Davvero. Sono solo stanco ed irritato. Non volevo dire quello che ho detto. Davvero, Charlie. Non sai nemmeno quanto dista questo paese. Torniamo alla macchina, aspettiamo che il temporale passi e poi ci mettiamo in moto di nuovo. Dai, Cha-»

«Ti ho già detto che il mio nome è Charlotte, smettila di chiamarmi Charlie», replicò lei arrabbiata, dandogli una spinta. Tom alzò le mani in segno di resa. «E se solo mi avessi ascoltato anche solo una volta in queste ultime ore, ora non ci troveremmo in questa situazione assurda», aggiunse poi dandogli un’altra spinta che fece arretrare di un passo Tom. «E il cielo è coperto - coperto, Tom - di nuvole nere, cosa esattamente ti fa pensare che smetterà presto di piovere? Non voglio congelare durante la notte o ritrovarmi con la broncopolmonite. Il paese, invece, secondo i miei calcoli è giusto al di là di questa collina.»

Tom fece un altro passo indietro, prima che Charlie lo potesse colpire per la terza volta. Alzò le mani un po’ di più. «Okay, okay. Come dici tu. Prendiamo le borse, chiudiamo la macchina ed andiamo.»

 

Charlie lo trafisse con un ultimo sguardo infuriato prima di superarlo e raggiungere il bagagliaio della macchina.

Tom le fu subito dietro cercando di non scivolare nel fango. Quando le passò la borsa, la guardò per un attimo con la coda degli occhi. 

Charlie - Charlotte - lo aveva in qualche modo sorpreso.

Non era certo stata la sua testardaggine, quello era un tratto di lei che conosceva bene. Eppure, quando lo aveva spinto e bagnata dalla pioggia gli aveva risposto infuriata, c’era stato qualcosa in quell’attimo che non solo gli aveva fatto passare l’irritazione, ma gli aveva anche fatto vedere il lato comico di tutta quella situazione. 

Ma perché la cosa lo divertisse tanto era una questione che preferiva comunque ignorare. 

 

 

Charlotte guardò il letto con la stessa espressione con cui avrebbe guardato un’equazione diofantea. Sapeva che c’era una logica dietro la complicazione, solo che lei non riusciva a coglierla.

 

Il paese, per fortuna, era risultato anche più vicino di quanto Charlotte avesse ritenuto, ma anche più piccolo. Il pub del luogo era l’unico posto che offriva rifugio e si limitava ad avere una sola camera per quello scopo.

 

Una sola camera con un solo letto, inoltre.

Che - come Charlotte aveva notato con crescente allarme - sembrava a mala pena abbastanza grande per due persone. 

 

Tom aveva fatto finta di nulla, o forse non l’aveva semplicemente notato. In fondo erano entrambi arrivati fradici ed esausti, e lui aveva ordinato qualcosa da mangiare per entrambi mentre lei si era infilata sotto la doccia. E nell’attimo in cui lei era uscita dal bagno, lui aveva preso il suo posto.

 

Il rumore dell’acqua e un filo di vapore che usciva dal bagno la distrassero per un attimo dal suo imbarazzo, solo per crearne uno del tutto nuovo ed anche peggiore. 

Scosse appena la testa e per pensare ad altro raggiunse un piccolo vassoio carico di sandwich, appoggiato su di un cassettone che fungeva - apparentemente - sia da guardaroba che da ripiano per una televisione che era stata forse in voga cinquant’anni prima. 

Afferrò un sandwich e gli diede un morso, trovandolo più buono di quanto si sarebbe aspettata. Ma quando accese la televisione, gli unici canali che sembravano avere una ricezione quasi decente trasmettevano notiziari, previsioni meteorologiche od un vecchio film in bianco e nero.

 

«Qualcosa di decente da guardare?», domandò Tom uscendo dal bagno in quel momento.

Charlotte si girò involontariamente, solo per trovarsi a pochi passi da un Tom in un paio di pantaloni di felpa ed un asciugamano che stava usando per asciugarsi alla bell’e meglio i capelli. L’uomo apparentemente non credeva nell’uso delle magliette.

Charlotte si voltò immediatamente, nascondendo l’imbarazzo dietro una vaga risposta.

 

«Ah, stavo giusto morendo di fame», disse poi lui alle sue spalle, più vicino di quanto Charlotte si aspettasse.

Un braccio di Tom comparve al suo fianco, sfiorandola involontariamente quando allungò una mano per prendere un sandwich, e Charlotte decise che era meglio spostarsi. La camera era indubbiamente piccola, ma non così piccola da rendere impossibile non inciampare l’uno nell’altra più di quanto fosse davvero inevitabile.

 

Tom si sedette sul bordo del letto, mangiando distrattamente il sandwich, gli occhi incollati alla televisione e senza dare segni di volersi infilare una maglietta. 

Charlotte cercò di ragionare - per quanto la schiena nuda di Tom rendesse la cosa più difficile di quanto avrebbe preferito ammettere. Raggiunse la sua borsa e cercò con una certa ingiustificata irritazione un libro che aveva portato da casa, sperando che convogliasse la sua attenzione verso luoghi più sicuri. Alla peggio, poteva sempre usarlo come schermo.

 

Si sdraiò sul letto, infilandosi sotto le coperte e aprendo il libro, nascondendosi immediatamente dietro le pagine. 

Sentì Tom sdraiarsi accanto a lei e nonostante tutto non riuscì ad evitare di lanciare una breve occhiata. Con le gambe incrociate all’altezza delle caviglie, in mano il telecomando e un braccio tra il cuscino e la testa, Tom sembrava l’immagine di chi è perfettamente a suo agio e rilassato.

Charlotte strinse un po’ di più la presa sul libro. «Potresti almeno indossare una maglietta», mormorò tra i denti.

«Come?», domandò Tom distratto, senza staccare gli occhi dal film in bianco e nero.

«Potresti almeno indossare una maglietta», ripeté le a voce un po’ più alta.

Tom sorrise appena malizioso, ma non si voltò a guardarla. In fondo il divertimento era palese anche solo guardando il suo profilo. «La mia parziale nudità ti offende o ti imbarazza?»

Charlotte alzò gli occhi al cielo. «No, preferirei soltanto che non ti ammalassi. Domani vorrei evitare di fare un’ulteriore fermata inaspettata per abbandonarti all’ospedale.»

«Il tuo altruismo mi colpisce», replicò Tom sarcastico. Ma, quanto meno, allungò un braccio nella sua borsa, ne tirò fuori una maglietta e se la infilò senza discutere oltre.

 

Charlotte mentalmente tirò un sospiro di sollievo. 

Ora, se solo fosse riuscita a dimenticarsi del fatto che lui era sdraiato accanto a lei, forse - forse - sarebbe riuscita a dormire un po’.

 

 

Charlotte sapeva che ad un certo punto gli occhi si erano chiusi involontariamente e le mani si erano abbassate e il libro era finito sul suo petto. Lo sentiva, quel piccolo peso, ma in quel momento non importava.

Perché in quel momento era di nuovo in quello strano sogno - l’abito lungo, le scarpe, la luna - ma piuttosto che avvolta da sensazioni, quella volta si trovò a camminare verso un piccolo lampione solitario dove qualcuno sembrava la stesse aspettando. Esitò un momento e le sembrò di cogliere in lontananza una canzone. L’aria della sera si fece un po’ più fredda, ma non in modo non piacevole. L’uomo, poi, si voltò e le sorrise e lei, stranamente, si sentì quasi malinconica.

 

Il sogno al quel punto si dissolse, perché qualcosa la svegliò leggermente. 

Qualcuno - Tom, realizzò Charlotte dopo un attimo - le stava sfilando il libro dal petto, sollevandolo delicatamente dalle sue mani. Lo avvertì poi allungare cautamente un braccio sopra di lei, per appoggiare il libro sul comodino.

Il materasso si mosse appena quando lui tornò a sdraiarsi.

Tom, pensò Charlotte.

E di nuovo quella sensazione di quasi malinconia. 

 

 

«Dove stai andando?»

 

La mattina seguente, dopo colazione, erano stati sul punto di rimettersi in strada, quando Tom aveva deciso che nonostante il segnale sul cellulare era tornato in vita, preferiva comunque chiedere indicazioni al padrone del pub.

 

«L’ho visto uscire sul retro del giardino», rispose lui aprendo un cancelletto di legno che segnava l’ingresso del giardino.

 

Charlotte prese istintivamente Tom per un braccio. Lui la guardò perplesso.

«Non credo che sia una buona idea.»

Tom alzò un sopracciglio. «E come mai?»

Charlotte agitò appena una mano. «E’ una sensazione.»

«Oh, una sensazione», replicò lui vagamente ironico. «E che tipo di sensazione?»

«Qualcosa di…», cercò di spiegare lei agitando un po’ di più le mani, «…qualcosa di irritante. E bagnato. Dal cielo.»

Tom alzò gli occhi e con un’aria di divertita pazienza alzò un dito. «Il cielo è perfettamente azzurro», disse poi attraversando il cancelletto, «nessuna nuvola, nessun peric-»

Quella che sembrò una secchiata d’acqua gli impedì di finire la frase.

Charlotte alzò lo sguardo e da una delle finestre del secondo piano vide una donna dall’aria mortificata con una mano sulla bocca e l’altra su di un annaffiatoio che, s’immaginò Charlotte, era a quel punto vuoto.

Tornò a guardare Tom inclinando appena la testa di lato. «Sai, ora che ci penso meglio, la sensazione era esattamente questa.»

Tom le sorrise senza l’ombra di divertimento.

 

 

Gli abiti bagnati erano stati stesi come possibile sui sedili posteriori della macchina e Tom si era cambiato nei vestiti ormai pressoché asciutti del giorno prima. 

Charlie si era rinchiusa nel suo solito silenzio, solo l’alone di un sorriso a ricordargli quello che era successo poco prima.

Il cielo non portava tracce del temporale della sera precedente e la strada era libera e senza ombra di traffico. In linea di massima, quindi, la nuova giornata di viaggio era cominciata con auspici favorevoli. 

Tom trovò la cosa vagamente sospetta.

 

«C’è un punto panoramico tra poco», disse poi Charlie rompendo il silenzio. «Forse potremmo fermarci.»

Tom tenne gli occhi sulla strada, ma accolse quelle parole con una punta di timore. «Come mai?»

Lei doveva aver riconosciuto il modo inusualmente cauto con cui lui aveva pronunciato quella domanda, dato che scoppiò a ridere. «Pensavo solo che potrebbe essere interessante.»

Tom trattenne un sospiro di sollievo.

 

Non che avesse improvvisamente iniziato a credere a segni e premonizioni - era tutt’ora dell’idea che fossero sciocchezze colossali - ma, se non altro, aveva imparato ad esprimere i suoi giudizi con più accortezza.

 

 

Fu entrando nel parcheggio del punto panoramico che la radio cominciò a trasmettere una canzone che parlava di primi amori e primi baci.

Charlie la zittì spegnendola e mormorando un “per l’amor del cielo” che fece ridere Tom.

«Non dirmi che sei contro il romanticismo.»

«Non sono contro il romanticismo di per sé», rispose lei aspettando che Tom si fermasse e scendendo poi dalla macchina. «Sono contro le scemenze come in quella canzone.»

Tom rise di nuovo, copiandola quando lei si sedette sul cofano della macchina per guardare il paesaggio maestoso di fronte a loro. «Così giovane e già così cinica.»

«Forse», replicò lei lentamente, guardando dritto davanti a sé. «O forse è solo perché penso che ci siano cose migliori da ricordare che un primo bacio o un primo amore.»

Tom si sdraiò appoggiando la schiena al parabrezza, le mani intrecciate dietro la testa, un cielo infinito sopra di lui. «Tipo?»

 

Charlie non rispose subito. Giocherellò con un filo della maglietta, prima di sdraiarsi accanto a lui, le dita allacciate sullo stomaco. «Tipo questo. Ora.»

Tom girò appena la testa per guardarla. Gli tornò alla mente quello che sua madre gli aveva detto solo qualche giorno prima - “aveva questa adorabile infatuazione per te” - ed un certo nervosismo gli annodò lo stomaco. 

Si domandò se lei fosse sul punto di confessargli qualcosa.

Il nervosismo aumentò un po’.

Charlie, pensò. Charlotte, si corresse. 

Che la prima volta che aveva incontrato era stata una bambina. E che tutt’ora, anni dopo quel primo saluto, non riusciva del tutto a scuotersi di dosso quell’immagine.

Non poteva. Non era-

 

Ma prima che potesse continuare con le sue riflessioni, Charlie tornò a parlare.

 

«Voglio ricordare questo cielo. E questi colori. E quest’aria. E questa…questa libertà.»

 

Tom trattenne per un momento il respiro. Il nervosismo era scomparso. Al suo posto, però, era comparsa una vaga scontentezza. Preferì ignorarla.

«Libertà?», domandò allora forzando un tono leggero.

 

Charlie si tirò su e scivolò dal cofano della macchina. Si voltò a guardarlo con un sorriso senza filtri. «Siamo in Scozia, Tom. Quale posto migliore per usare la parola?»

«Immagino che tu abbia ragione», rispose lui imitandola e lasciando la macchina. Raggiunse il parapetto del punto panoramico e si perse per un attimo in quell’angolo di Scozia. «Quanto c’è ancora di viaggio?»

Charlie controllò il cellulare. «All’incirca tre ore. Dipende dal traffico.»

«Meglio andare, allora.»

 

Charlie esitò un attimo - un’ultimo sguardo al panorama in un modo che sembrava quasi un addio - e poi accennò un sì. 

«Meglio andare.»

 

 

«Quindi», disse Charlie allungando appena la “i” finale.

«Quindi», ripeté Tom.

 

Entrambi avevano le braccia incrociate ed entrambi stavano fissando con costernazione una delle ruote della macchina. O, più correttamente, il pneumatico squarciato.

 

«Come pensi che sia successo?», domandò Tom.

«Ho chiesto a quelli del negozio», rispose Charlie indicando l’edificio annesso alla stazione di servizio. «Pare che ci siano in giro un gruppo di ragazzini con poco da fare e una discutibile idea di cosa sia divertente e cosa no.»

Tom sospirò. 

«Quindi…»

«Quindi siamo senza ruota di scorta ed è domenica», riassunse la situazione Tom.

 

Charlie diede un piccolo calcio alla gomma. «Io domani non devo necessariamente essere ad Inverness prima delle undici, il simposio inizia a quell’ora. Se riusciamo a cambiare il copertone domani mattina presto, non ci dovrebbero essere problemi per me.»

«Ed il matrimonio di Neil è martedì, quindi non ci sono problemi nemmeno per me.»

Si scambiarono un’occhiata di mutua rassegnazione. 

«Coraggio, andiamo a cercare un albergo», suggerì Tom.

 

 

Passarono il resto della giornata a fare i turisti.

Tom si stupì di quanto gli piacque. Sembrava passata una vita dall’ultima volta in cui si era potuto permettere una tale libertà. Per le strade del centro non c’era molta gente, e quella che c’era sembrava occupata a godersi la domenica tanto quanto lui e Charlie.

Solo ad un certo punto una ragazzina in un gruppo di amiche gli rivolse un’occhiata sospetta, ma qualcosa sul suo cellulare la distrasse e Tom colse al volo l’occasione e prese Charlie per la mano e la trascinò via. 

 

Si arrampicarono fino al castello in cima al paese e da lì, appoggiati ad un antico muretto di pietra, si fermarono ad osservare la vista.

 

«Non credere che non lo capisca», disse all’improvviso Tom.

«Cosa?», domandò Charlie incuriosita.

«Quello che hai detto questa mattina. Sul cosa ricordarsi.»

Charlie prese una foglia e ci giocherellò per un po’, senza aggiungere nulla. 

«E’ tutto il pomeriggio», continuò allora Tom, «che non faccio altro che ripetermi quanto rara sia questa occasione, questo ora. Ultimamente ho sempre meno possibilità di muovermi come vorrei o disporre del mio tempo libero come preferirei. Quindi», si girò verso di lei appoggiandosi con un gomito al muretto, «grazie mille.»

Charlie rimase per un attimo in silenzio e Tom ebbe la netta sensazione che fosse imbarazzata. «Non devi ringraziare me.»

Tom le sorrise, anche se lei non lo vide. «Guardati ora», le disse scherzosamente, spingendole con un dito la testa, «tutta timida e carina, esattamente come quando avevi undici anni.»

Lei alzò drammaticamente gli occhi al cielo e sospirò con finta esasperazione, ma dietro tutta quella pantomima non riuscì a nascondere un sorriso divertito a Tom.

«Quasi quasi ti compro un gelato, dato che oggi sei stata così brava.»

«Solo se poi posso suggerirti dove te lo puoi anche mettere», replicò lei con un tono esageratamente dolce.

Tom rise.

Charlie si unì a lui.

L’eco di quel suono si perse in quel tardo pomeriggio.

 

 

Era ridicolo.

E non che Charlotte non ne fosse totalmente cosciente, ma valeva la pena ripeterselo.

Soprattutto perché era al terzo cambio di abiti e, come la peggiore delle ragazze insicure, non riusciva a decidersi su cosa indossare.

E solo perché doveva cenare con Tom al ristorante del piccolo hotel in cui avrebbero passato la notte.

Per l’ennesima volta si sfilò nervosamente quello che indossava e si lasciò cadere sul letto, soffocando un mezzo urlo esasperato nel cuscino. 

Stranamente si sentì un po’ meglio. 

Ma non aveva ancora idea di cosa indossare.

 

 

Non che Tom non sapesse cosa stava facendo. Era routine. 

Doccia, pettinarsi i capelli, indossare pantaloni e camicia (gli ultimi due bottoni lasciati aperti a mostrare un accenno di pelle) e controllare tutto allo specchio.

Come già detto, routine.

 

Il problema, semmai, era il fatto che quella serie di azioni precise e l’attenzione con cui le aveva eseguite erano generalmente riservate a quando appariva a qualche evento pubblico o quando aveva un appuntamento.

 

E decisamente non era il primo caso e anche più decisamente non era il secondo. 

 

Guardò il suo riflesso nello specchio e si passò una mano tra i capelli, disordinandoli appena un po’. 

Notò con sorpresa che le mani gli tremavano appena. Nervosismo.

 

Era un idiota.

 

 

Charlotte trovò Tom in una piccola sala adiacente al ristorante. Non si sorprese davvero, dato che una delle pareti era una libreria carica di volumi dal pavimento al soffitto. 

La parete adiacente invece ospitava un caminetto antico come il resto dell’hotel, e il fuoco che era stato acceso catturava di tanto in tanto qualche riflesso nei capelli di Tom.

 

Charlotte non voleva disturbarlo. 

Sembrava così interessato ad un volume che teneva in mano.

Ed osservarlo - in quel modo quasi segreto - le sembrava una rarità.

Era e non era lo stesso Tom di sempre. Era e non era la stessa persona con cui aveva iniziato quel viaggio assurdo solo due giorni prima.

O forse era lei che era cambiata. Non poteva saperlo con certezza. 

 

Studiò per qualche attimo di più il profilo di Tom e il modo in cui il taglio corto dei capelli sembrava mettere in evidenza i caratteri più spigolosi del suo viso in un modo ridicolmente elegante e virile. Con le dita lunghe stava sfiorando una pagina del libro con un che di sensuale - come se non fosse carta ma, piuttosto, la pelle delicata di una mano o di una guancia di una donna. Un passaggio in particolare doveva aver catturato la sua attenzione, perché lo vide muovere le labbra e formare parole mute, passandosi poi per un attimo la lingua sul labbro inferiore.

 

Charlotte abbassò lo sguardo, accorgendosi con imbarazzo del respiro corto e del battito del cuore accelerato. Cercò di riguadagnare un’ombra di controllo e si portò una mano alla base della gola, come se quel gesto potesse trattenere la confusione di emozioni che stava provando. 

E dopo un attimo, quando tornò ad alzare lo sguardo su Tom, trovò quello di lui su di lei.

 

 

Il fianco appoggiato allo stipite della porta, la mano sulla gola, il viso rivolto appena verso il basso, le labbra socchiuse. In quel momento Charlie sembrava uscita da un film d’altri tempi.

Tom non sapeva quando fosse arrivata, ma sapeva che da quando aveva appoggiato gli occhi su di lei, per qualche ragione non era riuscito a smettere di farlo.

 

La vide alzare lo sguardo ed incrociare il suo con imbarazzo - la causa, un altro mistero per Tom. 

 

«Trovato qualcosa d’interessante?»

La domanda lo riscosse dai suoi pensieri. Chiuse il libro e le mostrò la copertina, quasi a disagio quando lei lo raggiunse e si fermò vicino a lui.

 

«Catullo?», domandò Charlie prendendogli il volume dalle mani. Lo sfogliò con curiosità. «Mi sono sempre piaciute le sue poesie d’amore.»

«Le hai lette?»

Lei gli lanciò uno sguardo mezzo offeso. «Non c’è bisogno di essere così sorpresi.»

«Scusa», replicò lui rimettendo il libro nel suo posto. «Non volevo dire che-»

Charlie lo fermò con un gesto noncurante della mano. «A dire il vero è successo più che altro per caso. Io per prima mi sono sorpresa di quanto mi siano piaciute.» Rise piano. «Pronto per andare a mangiare qualcosa?»

Tom accennò un sì allungando un braccio per invitarla a passare per prima. Che non era solo per educazione, ammise a se stesso, ma anche e soprattutto per cautela.

 

Qualcosa in lei quella sera lo stava velocemente mettendo nell’umore ideale per commettere qualche stupidaggine colossale. E Tom davvero non poteva permettersi di fare errori del genere con lei.

 

(Il problema, però - come avrebbe poi ammesso più tardi - era che non aveva calcolato di scoprire quanto gli piacesse farla ridere o trovare che c’era davvero poco altro comparabile al piacere di vederla assolutamente felice e a suo agio con lui.)

 

 

«E quando mi sono reso conto di quello che avevo detto», finì di raccontare Tom, «era già troppo tardi. E vivo con quell’umiliazione da allora.»

Charlotte scoppiò a ridere appoggiando il bicchiere di vino per non fare disastri.

 

Da qualche parte durante quella sera aveva finalmente accettato l’idea che i suoi sentimenti per Tom non erano stati messi da parte anni prima, come si era sempre sforzata di credere, e che per lui non provava solo - a seconda dei casi - fastidio o indifferenza.

C’era qualcosa di diverso, era ovvio. Ma preferiva comunque non dare nomi, perché la piccola illuminazione riguardo ai suoi sentimenti era arrivata mano nella mano con il riconoscere che, qualunque cosa fosse quello che provava per Tom, per lui Charlotte era e sarebbe sempre stata Charlie: la figlia minore della migliore amica di sua madre, una bambina che aveva conosciuto anni fa. 

Era evidente.

 

Ma, indipendentemente da tutto quello, Charlotte si era anche detta che tanto valeva godersi quella serata e divertirsi, piuttosto che crogiolarsi nell’autocommiserazione. 

E Tom, con il suo arsenale di aneddoti e storie assurde, rendeva la cosa assolutamente facile.

 

«Sai cosa mi disse tua madre qualche anno fa?», gli chiese Charlotte pescando improvvisamente dalla sua memoria quel ricordo.

«Non voglio immaginare», replicò Tom indeciso tra il divertimento e l’imbarazzo.

«Disse che il giorno in cui imparasti a parlare fu anche il giorno in cui cominciasti a cacciarti nei guai», annunciò lei ridendo. «Terribilmente corretto, mi pare.»

Tom si unì alla sua risata. «Non so se dovrei sentirmi offeso oppure no.»

 

Charlotte prese un sorso di vino e per qualche istante un silenzio rilassato si allungò fra loro due. Era facile, si disse, in un momento come quello dimenticarsi del resto e lasciarsi tentare dal pretendere che fosse tutto diverso. 

Che i sorrisi di Tom e il modo in cui la guardava quella sera fossero altro al di là di Tom che si comportava da Tom. Che non ci fosse Charlie in fronte a lui, ma che finalmente invece vedesse Charlotte.

 

«Posso farti una domanda?», domandò a quel punto lui, distraendola dalle sue riflessioni.

«Certo.»

«Come mai non vuoi più essere chiamata Charlie?»

Charlotte si irrigidì appena.

 

 

Tom lo capì immediatamente che la domanda aveva cambiato qualcosa nell’umore di Charlie. Aveva raddrizzato le spalle e spostato immediatamente lo sguardo altrove. Le dita si erano chiuse sullo stelo del bicchiere e il suo sorriso era scomparso per un attimo, rimpiazzato poi da qualcosa di più meccanico.

 

«Non c’è una ragione precisa», rispose lentamente.

Tom sapeva che stava mentendo. E sarebbe stata una facile via d’uscita, replicare con un “okay” e cambiare argomento. Farla ridere. Tornare a qualche attimo prima.

Ma stava mentendo e Tom voleva sapere perché.

«Per non esserci una ragione precisa, di sicuro non nascondi quanto ti dia fastidio.»

Charlie portò finalmente lo sguardo su di lui, ma lo distolse di nuovo quasi subito, come se non si fidasse di quello che gli avrebbe potuto lasciar vedere. 

«E’ solo che», accennò lei rilassando appena la mano sul bicchiere, «non sono io.»

Tom la guardò confuso, ma non disse nulla per il timore che lei smettesse di parlare o cambiasse argomento. 

«Sembra la mia definizione», continuò lei con un sospiro. «Kiki è la sorella maggiore, bella e determinata. Susan è la sorella di mezzo, intelligente e femminile. E io…io sono Charlie. L’eterna sorellina.»

«Ed è una cosa così terribile?», domandò cautamente Tom.

Charlie lo guardò con un accenno di irritazione. «Lo sapevi che quando sono nata, Kiki disse a nostra madre che non voleva un’altra sorella, ma un fratello invece? E’ lei che ha iniziato a chiamarmi Charlie. Tutti trovarono che era una cosa così adorabile.» La nota di asciutto sarcasmo con cui pronunciò le ultime due parole rendeva chiaro quanto lei non lo trovasse adorabile affatto. «E da allora mi è rimasto addosso. Sono sempre Charlie. Sempre. Per tutti. Come se andassi ancora in giro con i codini e una salopette rosa.»

«E’ solo un soprannome», fece presente Tom. Alzò una mano per fermare l’obiezione della ragazza. «Ma credo di capire cosa vuoi dire. Non essere riconosciuti per se stessi, ma sempre in definizione di qualcos’altro.»

Charlie sospirò. «Voglio solo essere vista per quello che sono. Vorrei solo che le persone che mi stanno attorno notassero che, tra le altre cose, non sono più una bambina.»

 

Tom si fermò su quell’ultima frase. Prese un sorso di vino, cercando di ragionare sul senso. Forse si stava lasciando influenzare dalla serata o dal sospetto che lei provasse qualcosa per lui, ma Tom si domandò se quelle parole fossero dirette a lui. E se così fosse stato, cosa fare.

 

C’era stato un momento durante quella serata in cui lei lo aveva preso in giro riguardo a qualcosa e si era poi messa a ridere. E Tom, in quell’attimo, aveva ammesso per la prima volta a se stesso quanta luminosa bellezza Charlie avesse in sé. E quanto, se avesse potuto, avrebbe voluto baciarla. Ma era stato solo un attimo ed era passato, e Tom aveva messo da parte quei pensieri perché - esattamente come lei aveva detto - lei era Charlie. 

 

Anche se  quello che lei non sembrava capire era che, almeno per quanto riguardava Tom, il fatto che lei fosse “Charlie” non significava che lui non la vedesse per quello che era - una giovane donna attraente - ma piuttosto che non poteva permettersi di ferirla. Non poteva metterla tra i suoi impegni e le sue priorità, sperando che lei capisse ed avesse pazienza. Semplicemente, non poteva permettersi di danneggiarla.

 

E alla fine di quei pensieri, quando il silenzio divenne più malinconico che piacevole, e i toni discreti ed educati ma distratti, decisero entrambi che era ora di chiudere quella strana serata.

 

 

Il pneumatico della macchina, la mattina successiva, era stato cambiato velocemente e in poco più di due ore avevano raggiunto Inverness. 

Charlie aveva insistito per essere lasciata alla stazione ferroviaria e Tom non aveva davvero cercato di farle cambiare idea. Almeno non fino a quando lei, con il borsone da viaggio ai piedi, fu pronta per salutarlo e Tom si rese conto che non era del tutto contento di mettere la parola fine a quel viaggio.

«Ti posso lasciare all’università, se vuoi. Non è problema.»

«Va benissimo qui, grazie.»

C’era qualcosa nel suo sorriso, notò Tom, che sembrava leggermente triste ma risoluto. 

«Mille grazie ancora per il passaggio», gli disse poi lei facendo un passo indietro.

«Hai bisogno…vuoi un passaggio anche per tornare a Londra?»

Charlie fece un altro passo indietro, una nota quasi di panico sul suo volto. «No. Voglio dire, grazie ma no. Mi organizzo in qualche modo e-»

 

«Charlie?», la chiamò improvvisamente un ragazzo a qualche passo di distanza. 

Lei si voltò e arrossì appena accogliendo il nuovo arrivato. «Ehi, Connor.»

Il ragazzo li raggiunse velocemente. «Non sapevo che saresti venuta anche tu, avremmo potuto fare il viaggio insieme.»

«Non ero sicura, ho trovato un passaggio all’ultimo minuto», rispose lei indicando Tom.

Connor lo notò solo in quel momento. «Salve. Ah. Oh. Wow. Scusa, ma sei uguale a-»

«Tom Hiddleston», tagliò corto lui. 

«Esatto», replicò Connor.

Charlie rise, il che riportò l’attenzione di Connor su di lei, ma lasciò quella di Tom sul ragazzo.

Obiettivamente non si poteva negare che fosse attraente. Giovane, di sicuro. Atletico. Sicuro di sé. Pieno di energia e sorrisi. Tanti sorrisi. Troppi sorrisi. Per Charlie, soprattutto. Che sembrava contenta di riceverli. 

 

Tom fece un passo indietro dandosi mentalmente del cretino. Si domandò se per tutto quel tempo non avesse fatto altro che vedere la situazione dal punto di vista sbagliato. Perché, a giudicare da quello che poteva osservare in quel momento, sembrava improvvisamente più plausibile che il problema per Charlie non fosse tanto Tom e il suo chiamarla “Charlie”, ma piuttosto questo Connor e il suo fare lo stesso.

 

Charlie si voltò in quel momento ed accennò un sorriso a Tom. «Noi andiamo. Ma mille grazie di nuovo.»

«Non c’è di che», rispose Tom abbassandosi per lasciarle un bacio sulla guancia. Fu premiato da un’espressione graziosamente imbarazzata sul viso di Charlie ed una appena gelosa su quella di Connor.

 

Non che Tom avesse niente contro il ragazzo. Per carità, non lo conosceva nemmeno. E comunque sembrava un tipo a posto. 

Ma che gli fosse chiaro che Charlie non era da sola e, soprattutto, non era (ancora) di nessuno. 

 

 

La seconda sera ad Inverness, alla cena di chiusura del simposio, Charlotte colse la sua immagine in una delle enormi portefinestre della sala storica dove era stato allestito il banchetto. 

Alle sue spalle si riflettevano le luci degli imponenti lampadari di cristallo e gli invitati in eleganti abiti da sera. Un soffice chiacchiericcio accompagnato da un discreto sottofondo di musica classica la avvolgeva, ma in quel momento l’attenzione di Charlotte era appuntata su altri particolari.

L’abito lungo che indossava, la notte - fuori - che si adagiava sul giardino e la luna che rischiarava appena l’oscurità. E, non troppo lontano, un piccolo lampione solitario che sembrava chiamarla. 

 

Uscì dalla sala lasciandosi alle spalle la cena quasi volta al termine e non si stupì di sentire l’aria fredda e pungente sfiorarle la pelle. Raggiunse il limite del patio pavimentato e per un attimo - e quasi con esitazione - guardò l’erba ai suoi piedi. Conosceva già la carezza soffice che avrebbe sentito, se avesse deciso di sfilarsi le scarpe e camminare verso il lampione. 

Il punto era se volesse farlo o meno.

Il punto era non sapere cosa sarebbe successo una volta raggiunta la fine del suo sogno.

 

Inspirò profondamente per calmare il battito del cuore. Non aveva paura. Era nervosa, sì, ma anche curiosa. Quindi perché no. 

 

Si sfilò le scarpe, che dondolarono poi - leggere e delicate - in una mano. Una parte di lei avrebbe voluto correre ed affrettarsi, ma la notte e il terreno sconosciuto ai suoi piedi le forzarono un passo lento e cauto. Anche così, non le servì molto prima di raggiungere il lampione ed una volta lì, si trattenne al di fuori dell’alone dorato che distendeva attorno a sé.

Si guardò attorno. Era sola.

Aspettò qualche istante ascoltando i rumori della sera, ma tutto quello che colse fu il vago eco di una canzone e i suoni di qualche animale notturno. 

Sospirò. Non c’era nessuno oltre a lei. Forse il suo sogno non era del tutto corretto. Forse qualcosa era cambiato, da qualche parte. In fondo non si trattava certo di una scienza esatta.

 

Ma poi qualcuno chiamò il suo nome.

Charlotte si voltò. E guardò Tom con la stessa sorpresa dipinta sul suo volto. 

«Cosa ci fai qui?», le domandò lui facendosi un po’ più vicino.

«E’ la serata di chiusura del simposio», spiegò lei indicando l’imponente edificio storico che aveva lasciato. «E’ tradizione finire con una cena con i partecipanti. Tu?»

Tom puntò all’antica serra di metallo e vetro alle sue spalle. L’interno - come una lucina natalizia - era illuminato da morbide luci dorate. «Hanno organizzato il banchetto del matrimonio all’interno della serra dell’università. Di effetto, ma anche terribilmente umido.»

Tom sembrò poi esitare un attimo. «Sei qui da sola?»

Charlotte lo guardò perplessa. «Sì, perché? Voglio dire, con chi dovrei…»

«Il giovane Connor?», rispose Tom con l’accenno di un sorriso.

«Connor? Perché mai dovrei essere con lui?»

Tom la guardò divertito. «Ah, ma mia cara miss Charlotte, il ragazzo è evidentemente preso dalla tua graziosa persona.»

«La smetteresti di parlare come se fossi uscito da uno dei racconti di Dickens? E per la cronaca», aggiunse poi lei abbassando appena lo sguardo, «non sono stupida, lo so. Ma siamo solo amici.»

Tom la osservò in silenzio per un attimo, prima di piegarsi appena verso di lei. «E come mai?»

 

C’era stato qualcosa nel tono lento con cui lui aveva pronunciato la domanda che era suonato quasi pericoloso alle orecchie di Charlotte. Come trovarsi all’improvviso al limitare della tana del Coniglio Bianco e chiedersi se saltare o no.

Non era Alice, si disse Charlotte.

Ma saltò comunque.

 

 

«Perché mi piaci tu.»

 

C’erano state alcune regole che Tom si era dato prima di raggiungere Charlotte, quando l’aveva vista camminare nel giardino e fermarsi al lampione.

L’avrebbe solo salutata, mantenuto la conversazione entro limiti accettabili e all’interno di una distanza di sicurezza.

Ma quando si era trovato a pochi passi da lei - graziosa in maniera quasi eterea quella sera - le regole erano andate sgretolandosi piuttosto velocemente. 

E sapeva esattamente quali territori potenzialmente pericolosi la sua semplice domanda riguardo a Connor avrebbe potuto aprire, ma si era detto che lei probabilmente avrebbe risposto in maniera imbarazzata ed evasiva.

In altre parole, non aveva preso in considerazione che Charlotte avrebbe potuto sorprenderlo con una risposta diretta. 

Una risposta diretta, tra l’altro, che Tom accolse con un’altrettanta inaspettata euforia. E che fece di tutto, però, per tenere a freno.

 

«Non dovresti prendere in giro chi è più grande di te», rispose allora lui con un finto tono leggero. «Charlie», aggiunse poi, sapendo esattamente cosa stava facendo e come lei lo avrebbe interpretato.

Lo sguardo ferito che Tom aveva previsto affiorò in un attimo sul volto di Charlotte. Spostò lo sguardo altrove, cercando di ignorare il senso di colpa.

«Non ti sto prendendo in giro», lo raggiunse la voce di lei. 

Tom si era detto di non tornare a guardarla, ma il tono sicuro con cui aveva parlato lo rese impossibile.

«Mi hai fatto una domanda e io ho risposto onestamente», continuò lei lentamente, «e non perché mi aspetti chissà che cosa da te, ma perché qui, ora, questo è quello che sento. E dato che raramente ci sarà un’altra occasione come questa in futuro, preferisco dirtelo e andare avanti, senza quello che provo tenuto nascosto dentro. Perché mi piaci, ed è ovvio, e sarebbe sciocco pretendere il contrario.»

Sospirò, poi, ma non come se fosse triste, piuttosto come se si fosse finalmente liberata di un peso. Gli rivolse quindi un sorriso aperto e fiducioso. «E ora io ho una cena a cui tornare e tu un matrimonio da festeggiare.»

 

Alzò una mano in saluto e si girò per tornare da dove era venuta. Tom la seguì con lo sguardo per qualche istante, registrando tutto quello di lei che la notte non rendeva impossibile da notare. La linea dritta della schiena, la curvatura dolce delle spalle, una mano che tratteneva un lembo dell’abito e l’altra che faceva dondolare le scarpe. 

Ma non era solo quello che stava perdendo, si rese finalmente conto Tom. Stava lasciando andare via i suoi sorrisi e le sue risate, e curiosità e testardaggine, e una certa gioia e un tipo particolare di libertà che apparteneva solo a lei.

Stava guardando allontanarsi una luminosa possibilità.

 

 

Le parole di Tom la fermarono nella notte. 

 

«E cosa succederebbe se ti dicessi che mi piaci anche tu?»

 

Charlotte si voltò e lo guardò protetta dall’oscurità. Tom non si era mosso dall’alone dorato del lampione e lei rimase dov’era, insicura su cosa dire. Le parole sembravano essersi mescolate. Troppe possibilità. Inspirò, cercando di calmarsi.

«Nell’ultimo periodo ho fatto spesso lo stesso sogno», cominciò lentamente. Vide Tom guardarla perplesso, ma continuò comunque. «Cammino in un giardino, di notte, così come sono ora. Raggiungo un lampione e lì c’è qualcuno ad aspettarmi.»

Tom fece un passo verso di lei. «E cosa succede poi?»

Charlotte scrollò le spalle e gli sorrise. «Nulla. Il sogno finisce così.»

«Non capisco», ammise Tom.

Lei gli sorrise un po’ di più. «Neanch’io, all’inizio. Ma ora forse sì. Non sta ai miei sogni definire cosa può succedere nella mia vita. Sta a me decidere cosa fare e come finire. Forse era già scritto che dovessimo incontrarci qui e ora, ma di sicuro non c’è nulla di già stabilito su cosa possa o non possa succedere da qui in poi.»

 

Tom rimase in silenzio per qualche momento, ma quando si decise a raggiungerla fu da lei in un attimo. «La mia vita è un casino», annunciò studiandole il viso.

Lei rise. «Anche la mia.»

«Sono quasi sempre in viaggio.»

«Non importa.»

«E non ho molto tempo libero.»

«Non importa.»

«Potrei ferirti.»

«Non importa.»

«Cosa importa, allora?», domandò quindi Tom a corto di obiezioni.

Charlotte sorrise. «Questo. Qui. Ora», rispose alzandosi sulle punte dei piedi. Appoggiò una mano sul petto di Tom e gli sfiorò le labbra con un bacio.

 

E lui scoprì che, tra domande e dubbi e paure, quello era in fondo tutto ciò di cui aveva semplicemente bisogno. Fece scivolare una mano sulla nuca di Charlotte ed approfondì il bacio, stringendola a sé come se avesse avuto paura di vederla scomparire. O come se, senza saperlo, avesse aspettato quel momento per tutta la vita.

 

E cosa il futuro riservasse per loro era, come per tutti gli altri, un mistero. 

(Più o meno).

  
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