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Autore: Virgyl Item    27/08/2015    2 recensioni
Gerard Way ha sedici anni, qualche problema di troppo, e una disarmante voglia di vivere.
Le sue giornate passano velocemente, alternandosi fra lezioni private, sedute psicologiche ed inutili litigi con i genitori.
Ma quando inizierà a frequentare la Redflame, rinomata scuola superiore di New York, Gerard dovrà vedersela con un nuovo mondo, e con una diversa realtà.
Un insolito incontro con un ragazzo renderà la sua vita una scoperta ai confini dell’esistenza, una lotta fra razionalità e sentimento, un’ incredibile avventura che vedrà come protagonista l’indistruttibile forza dell’amicizia e dell’amore.
E soltanto allora, i colori riusciranno a vincere.
 
“Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.
Il mio nome è Gerard Way, e sono un ragazzo indaco.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                      OF
                                                               NOVEMBER
                                                                      ***
Canzone: Toxicity- System of a Down (magari il testo non è eccessivamente fedele al senso del capitolo, ma il disordine c’è, e anche il silenzio. E poi è una delle mie canzoni preferite. Enjoy :D)
 
Capitolo Ottavo- Stop watch to me.
 
Se c'è qualcosa che Gerard Way odia fare, allora si tratta sicuramente della preparazione al pranzo di Natale.
Stiamo parlando del venticinque di dicembre.
Lui si sveglia, scende in salotto, saluta sua nonna, e poi impreca, mentre con riluttanza piega i tovaglioli ai lati dei piatti, che adornano con eleganza l'intero tavolo al centro della stanza.
Vorrei proprio poter provare compassione per le sue gesta.
Ma dal momento che Gerard Way sono io, posso soltanto affermare di non aver vissuto momenti più orribili.
 
Stamattina mi sono alzato dal letto nauseato dal forte odore d'incenso che la nonna ogni anno accende, puntualmente, dopo la nascita di Gesù.
Ho sceso con pigrizia le scale, ho salutato mamma, ho salutato Mikey, ed ho ignorato Elena.
 
“Dov'è Frank?”, ho poi esclamato, una volta aver messo piede in cucina.
Mio fratello ha sollevato le spalle, ficcandosi in bocca una qualche schifezza al cioccolato.
Ho guardato mia mamma, che con disinvoltura mi ha avvisato che il mio ospite era andato a prendere una boccata d'aria fuori, da solo.
Ho sbuffato, mi sono vestito, e sono uscito anche io, senza neanche chiedermi dove potesse essere andato.
Sapevo perfettamente la sua meta.
 
E così adesso sono qui, al Suo fianco, sopra il solito ponte, a guardare l'acqua risplendere sotto l'opaca luce invernale che ci circonda.
 
“Mia mamma mi ha telefonato stamattina per augurarmi buon Natale”, mi comunica, scagliando una piccola pietra nel fiume.
“I tuoi sono credenti?”, gli domando, guardandolo.
Lui fa spallucce, afferrando un nuovo sasso, e mirando ad un punto più calmo e meno profondo, provocando così una serie di perfetti cerchi concentrici.
“Abbastanza”, risponde.
 
Anche la mia famiglia è credente.
Credente e praticante.
Mia madre è una di quelle donne che se non lavorano cucinano, e se non cucinano sono in chiesa a pregare.
Mia nonna frequenta la messa da quando è morto mio nonno.
Mikey invece crede in Dio soltanto quando gli conviene.
Gli unici che la pensano diversamente, siamo io e mio padre.
Ma mio padre non fa più parte della famiglia, e io ho tutto il diritto di non essere credente.
Lo ha detto il dottore.
I ragazzi come me spesso non hanno un orientamento religioso ben definito.
Ecco detto tutto.
 
“Tua nonna ti ha regalato qualcosa?”, mi chiede ad un tratto Frank.
“Non mi piacciono i regali, e lei lo sa”, rispondo.
Lui sembra improvvisamente sconsolarsi.
“Io ti ho fatto un regalo”, mormora.
Deglutisco.
“Cosa? Quando? Perché lo hai fatto?”, esclamo paonazzo.
“Ti ho comprato una cosa. L'ho presa prima di partire per il Jersey. Mia mamma mi ha obbligato a farlo per sdebitarmi.”, spiega.
Sbuffo.
“Da quando ci si sdebita materialmente?”, imploro, sollevando le braccia.
Il ragazzo spalanca lievemente la bocca.
“Ma insomma, che noia ti dà Se odi così tanto i regali, vorrà dire che dopo averlo scartato lo getterai! Sai che mi frega”, mi aggredisce, con riluttanza.
Scuoto la testa.
“Lascia stare”, ringhio.
Frank mi guarda confuso.
Lo guardo anch'io, ma con più sicurezza.
Poi decide di tornare a puntare i suoi occhi sul fiume.
Faccio la stessa cosa.
“Comunque penso che domani ritornerò a casa, qui è una noia”, chiarisce, scompigliandosi i capelli con una mano.
Faccio spallucce.
“Fa' come vuoi”, commento.
“Quindi non t'importa poi così tanto della mia presenza”, esordisce, ridacchiando.
Non controbatto.
Mi sembra di aver già parlato abbastanza di questo.
“L'altra sera mi hai detto che eri felice che io fossi qui”, insiste, senza smettere di ridere.
“È così”, affermo, staccando un sottile filo d'erba, e facendomelo passare tra le dita.
“Allora vedi che t'importa di me?”, ironizza, scuotendo la testa subito dopo.
Sento i suoi occhi su di me.
“Non l'ho mai negato”, dico, ritornando a guardarlo.
Frank apre la bocca, ma non ne fa uscire alcun suono.
Poi, si allontana lentamente dalla staccionata del ponte.
“È meglio che vada da tua nonna, magari ha bisogno di aiuto per il pranzo”, esclama.
“E da quando ti piace aiutare le persone?”, gli domando.
“E da quando tu credi a ciò che dico?”, scherza, con quel suo solito tono strafottente.
Da sempre.
“Vado a fare una passeggiata, ci vediamo dopo”, mi avverte, senza aspettare la mia risposta, prima di camminare via velocemente.
Non lo seguo.
Neanche con lo sguardo.
Non lo seguo e non lo guardo.
Un giorno mi dice che gli ho salvato la vita, quello dopo che vuole aiutarmi a trovare il mio quinto motivo per non morire, e poi? 
E poi si scorda di tutto.
Di ogni frase detta.
Ogni cosa fatta.
Ogni strada percorsa.
Tutto.
Frank è un avido pozzo senza fondo, una piccola stanza senza pareti.
Dentro di Lui niente regge.
Niente riesce a rimanere.
Come se fossero tutte barzellette.
Tutte maledettissime menzogne.
 
Ed è così che passa il mio tempo.
Frank se n'è andato.
E io resto qui.
A pensare.
Ad appesantirmi la mente di inspiegabili ragionamenti.
 
Guardo il fiume scorrere velocemente, diretto verso una meta a me nascosta, e che non ho il desiderio di scoprire.
Se vedessi dove realmente va a sfociare questa corrente, la magia svanirebbe.
E ritornerei alla realtà.
Una realtà dannatamente triste.
Eppure era così semplice, da bambino.
Così normale.
Ma la verità è che quando si è piccoli non siamo capaci di guardare in faccia una sola realtà.
Se ne presentano centinaia, davanti ai nostri occhi ingenui.
Innumerevoli realtà che ci portano dritti verso un'ineguagliabile illusione.
La felicità.
I bambini sono sempre allegri.
Sempre sorridenti.
Fastidiosamente ed incomprensibilmente solari.
Accidenti, quanto li invidio.
Quanto invidio loro, e quanto invidio chi riesce a rimanere così anche quando cresce, e diventa adulto.
Chi non pensa.
Chi non fa della sua vita un peso sulla coscienza.
Chi se ne frega di tutto e di tutti, chi non piange su un foglio ormai da tempo redatto, e già celatamente strappato.
Come le foglie di un albero, che nascono con la consapevolezza che prima o poi abbandoneranno la loro salvezza vitale.
E lo faranno perché le battaglie non durano per sempre, e perché le vittorie si ottengono arrendendosi.
O come le onde.
Lente, scure, che adagio si infrangono sulla riva dopo essersi portate dietro un infinito blu chiamato mare.
Il peso di un infinito sulle spalle.
Quanto vorrei non essere umano.
E poter vedere la vita da un altro punto di vista.
 
 
Un forte ed improvviso rumore mi fa sussultare.
Mi volto, accigliato, guardandomi intorno.
Ma sembra tutto così silenzioso.
Così vuoto.
Scuoto la testa, sedendomi su una roccia, e gettando nell'acqua il filo d'erba che avevo staccato poco fa.
Lo vedo svolazzare nell'aria, per poi scendere lentamente, e posarsi delicatamente sul letto d'acqua.
Tanto leggero da poter sembrare invisibile.
Inesistente.
Quasi come me, nell'Universo.
 
Un nuovo frastuono mi obbliga a scattare in piedi.
“Merda”, sussurro, chiedendomi cosa stia succedendo.
Mi allontano a passo lento dal ponte, finendo col ritrovarmi a calpestare l'asfalto della strada parallela al fiume.
Guardo il cielo.
È scuro.
È arrabbiato.
Inizio a camminare, avviandomi verso casa di mia nonna.
Ma il rumore ricomincia.
E stavolta, la Terra inizia a tremare.
Deglutisco, fermandomi.
La mia testa sembra appesantirsi, procurandomi un fortissimo dolore.
 
E il rumore non finisce, non smette di muoversi sotto i miei piedi.
Ritorno a camminare, con cautela.
Mi chiedo quanto sia lontana la casa.
Quanto sia lontana la salvezza.
Una nuova scossa rimbomba con maggiore potenza, destabilizzandomi.
Il terreno non cessa di tremare.
Devo andarmene da qui.
Ma sono solo.
E da solo non riesco a fare niente.
Finirei per immobilizzarmi in un qualche angolo della strada.
Sono solo.
Solo, in mezzo al terrore.
 
Improvvisamente, spalanco gli occhi.
Indietreggio.
Sento i miei occhi prendere fuoco, e le gambe cedere pericolosamente.
“Frank”, mormoro.
 
E in un attimo, inizio a correre.
 
***
 
 
Corro, velocemente, senza voltarmi indietro.
Corro sull'asfalto, e sulla ghiaia che le mie scarpe sono costrette a calpestare, scivolando di tanto in tanto.
E la Terra che continua a danzare intorno a me, e il cielo che non sembra essere più sereno.
E il rumore.
Il rumore che mi rimbomba dentro, e poi rimbomba fuori, e poi rimbomba ancora dentro.
Dentro la mia testa, dentro il mio cuore, dentro ciò che è rimasto.
 
Infine, il suo nome.
Il suo nome, che mi graffia, mi spinge con violenza, costringendomi ad aumentare la velocità.
Il suo nome, che non riesco a pronunciare, e che vorrei aver già urlato, e che vorrei Lui avesse già ascoltato.
 
Vado a fare una passeggiata, ci vediamo dopo.
 
Fanculo alle passeggiate, fanculo a me che non sono andato insieme a Lui, fanculo alla sua incoerenza.
Il vento invernale mi scompiglia i capelli, mi fa bruciare gli occhi, mi rende impotente.
Penso alla casa di mia nonna, penso a tutti i suoi preziosi ed inutili oggettini che si schiantano al suolo, esplodendo in centinaia di irrecuperabili e minuscoli pezzi.
Penso alla preoccupazione di mia madre, che mi cerca ovunque, sperando che io stia bene.
E penso a Frank, che è andato semplicemente a fare una passeggiata, ma che tanto semplice non si è dimostrata.
E che adesso non sa cosa fare, non sa cosa pensare, e non sa dove io sia.
E non sa dove Lui sia.
Corro, corro velocemente, corro senza meta.
Corro seguendo l'unica immagine che la mia mente riesce ad elaborare.
Ed è l'immagine di un vicolo, un vicolo scuro, buio, con l'asfalto rovinato e l'odore acre di sporco, cibo andato a male preparato da persone altrettanto andate a male.
So dove si trova quel posto.
È il posto che tutti evitano, e che nessuno cerca.
È il posto in cui è stato trovato morto il fratello del sindaco di Belleville, pochi anni fa.
È il posto in cui gli spacciatori vendono la loro droga più costosa.
Ed è lo stesso posto in cui le persone si rifugiano da loro stesse.
 
La velocità della mia corsa aumenta.
 
Arrivo davanti al vicolo ansimando, e guardandomi intorno con la paura che cresce dentro di me.
Non c'è nessuno, qui vicino.
È tutto così grigio.
Così triste.
Così diverso dalla parte che il resto delle persone conoscono del Jersey.
O meglio, che vogliono conoscere.
Avanzo furtivo verso la parete dell'edificio che delinea la stretta e oscura strada.
Ma quando poggio la mano sulla superficie polverosa e grinzosa, ricomincia di nuovo a tremare tutto.
Un enorme nodo mi si forma in gola, invitandomi a chiudere gli occhi e a respirare, lentamente.
E sento come un potente brivido attraversarmi le vene, passando per il fegato, lo stomaco, ed infine arrivando violento al cervello.
Sussulto, rendendomi conto di dove mi trovi.
Vedo il grigiore circondarmi, il terrore sopprimere i miei sforzi di sembrare coraggioso.
Deglutisco, prima di fare un passo avanti, e di entrare completamente nel vicolo.
 
Non riesco a vedere quasi niente.
Sebbene sia appena mattina, la luce è poca, e il cielo si comporta in modo tutt'altro che normale.
Mi muovo ancora, inoltrandomi nel buio.
Ed ecco che l'insopportabile odore mi pervade le narici, facendomi arricciare fastidiosamente il naso.
Assottiglio gli occhi, cercando di scrutare meglio l'alone scuro che mi si presenta davanti.
È tutto così maledettamente inutile.
Non riesco a vedere.
Non riesco a capire.
Non riesco a percepire alcun rumore, alcun suono, oltre a quello della Terra, che di tanto in tanto continua a tremare.
Ad un tratto, sento qualcuno tossire.
Mi avvicino.
“Frank?”, sussurro.
Un nuovo colpo di tosse accompagna un rumore cartaceo.
“Frank?”, ripeto, con più enfasi.
Inclino leggermente il collo, aumentando la velocità dei miei passi.
Poi, due piccoli fanali si illuminano, lasciando sfuggire la loro solita opaca brillantezza.
 
E improvvisamente, il cielo sembra piombarmi addosso.
 
Mi getto su di Lui, accovacciandomi al suo fianco.
“Frank, stai bene?”, gli domando, con la voce di chi ha paura di sentire la risposta.
Lui mi ignora, e lentamente si alza.
Lo vedo barcollare, nel buio della strada, e strofinarsi una mano sull'occhio sinistro.
Lo tengo fermo per le spalle, di fronte a me.
“Frank, dobbiamo tornare a casa”, lo avverto.
“Lasciami stare”, sussurra lui, gettando qualcosa ai nostri piedi.
Seguo la traiettoria della caduta dell'oggetto.
È una sigaretta, che lentamente va a stendersi sull'asfalto umido, spegnendosi.
Guardo Frank con espressione interrogativa.
“Tu fumi?”, domando, confuso.
“Vattene, Gerard”, mi ignora il ragazzo, aggredendomi con voce roca, e spingendomi indietro.
Tentenno per un attimo, mentre riprovo ad avvicinarmi.
“Cosa fai qui? Dobbiamo andarcene. Crollerà tutto!”, esclamo poi, paonazzo.
Ma Lui si allontana, scuotendo la testa.
“Ma che stai dicendo? Va' via”, ringhia, scandendo al meglio le sue parole.
Lo guardo spalancando occhi e bocca, stringendomi i capelli con entrambe le mani.
Il terreno sotto di noi ha smesso improvvisamente di tremare, e ogni cosa sembra essere tornata alla normalità.
“Frank, maledizione! Andiamocene di qua!”, urlo, afferrandolo per un braccio.
“Lasciami stare! Ma che cazzo fai?”, controbatte, sfuggendo alla mia presa.
“Il terremoto, Frank. Non hai sentito!?”, strillo.
Lui mi guarda accigliato.
Poi si stringe nel suo giubbotto scuro, indietreggiando.
La mano salda attorno a qualcosa, che porta dietro la schiena.
“Ma di cosa stai parlando?”, mi domanda, assottigliando gli occhi.
“Il rumore, i boati! E la Terra che tremava! Si può sapere cosa stavi facendo?”, rispondo, allungandomi verso di Lui, e cercando di aggrapparmi al suo polso.
“No!”, esclama però Frank, scansandosi.
Deglutisco.
“Cos'hai là dietro?”, mormoro.
“Niente”, sibila, abbassando lo sguardo.
“Frank, cos'hai nella mano?”, ripeto, enfatizzando il tutto.
Non risponde.
Sbuffo.
Poi, con un rapido gesto, lo immobilizzo al muro.
Le mie braccia bloccano le sue, ai lati del viso.
Ci guardiamo per qualche istante.
E posso sentire i suoi respiri su di me.
E il suo cuore battere sul mio petto.
E i suoi occhi unirsi ai miei, come sempre.
 
Velocemente, afferro l'oggetto che le sue dita tengono ancora saldamente stretto, indietreggiando subito dopo.
“Lascialo!”, strilla Lui, saltandomi praticamente addosso.
Ma riesco a farlo allontanare, finché non analizzo bene ciò che adesso è in mio possesso.
Mi sposto verso la luce, all'esterno del vicolo in cui entrambi ci troviamo.
 
Sul mio palmo prende forma una piccola lametta di ferro, che si illumina con un fastidioso luccichio.
E come se le mie dita fossero sabbia, la lama cade nel vuoto.
Cade, cade, cade, finendo con lo sbattere rumorosamente sulla strada.
La guardo.
E poi guardo Frank, che immediatamente si poggia sulla parete di uno degli edifici, coprendosi il viso con le mani.
Lo raggiungo, camminando lentamente.
 
“Tu...”, sibilo.
Scuoto la testa.
“Prima ascolti il mio discorso sull'importanza della vita... E poi... Ti autolesioni?”, lo aggredisco, mantenendo basso il mio tono di voce.
Il ragazzo inizia a singhiozzare.
Con un gesto violento, gli allontano i polsi dalla faccia, scoprendo la sua espressione abbattuta e disperata.
E i suoi polsi sono rossi, sono feriti.
“Cristo, smettila di piangere!”, esclamo.
Lui evita il mio sguardo, cercando inutilmente di trattenere le lacrime.
“Sei così tristemente-”, mi interrompo, sospendendomi con un cazzotto al muro.
E cerco di trattenermi.
E di non esplodere.
E di non pensare.
Ma c'è la delusione, che si unisce alla paura, e che sfreccia selvaggiamente dentro di me.
 
“PATETICO!”, urlo, tornando a puntare i miei occhi su di Lui.
Frank ricomincia a singhiozzare, negando le mie parole con cenni del capo.
“Non è vero”, mormora.
“Ah no?”, gli domando, apparendogli davanti, e afferrandolo da dietro il collo.
“E allora dimmi, cosa ci facevi con quella fottuta lametta?”, lo aggredisco, alludendo all'oggetto metallico intriso del suo sangue.
“Gerard, lasciami stare...”, implora, come fosse una preghiera.
“Frank, io ti ho salvato, e ho provato ad aiutarti! Ma tu non fai niente per resistere!”, esclamo, esausto.
Poi, mi avvicino.
“Perché non provi a resistere, Frank?”, sussurro.
Lui non risponde.
“Perché non ti dai una possibilità?”, continuo, diminuendo la distanza.
Il ragazzo stringe le mani in due pugni, e inizia a respirare con più difficoltà.
Posso sentire la rabbia riempire le sue vene, salire su verso il cuore.
E picchiarlo, picchiarlo con inaudita violenza.
“Perché non ti liberi, una volta per tutte?”, insisto.
Lui continua con il suo interminabile e sofferente silenzio.
Vedo i suoi pugni stringersi sempre di più, e le nocche lentamente sbiancarsi.
“Vuoi picchiarmi? Avanti, vuoi picchiarmi?”, lo incito.
Frank deglutisce.
“Forza, colpiscimi. Fallo.”, esclamo.
Lui abbassa lo sguardo.
“Esplodi, Frank. Su, picchiami”.
Non so più neanche io cosa stia dicendo.
Da quando in qua ho voglia di farmi pestare da qualcuno?
Il ragazzo sembra ignorarmi.
Allora mi avvicino ancora, fino ad arrivare a pochi millimetri dal suo viso.
“Esplodi, Frank”, sussurro.
Un suo sospiro.
Poi, uno mio.
Esplodi”, ripeto, per l'ultima volta.
 
Il primo colpo arriva insicuro ma violento sullo stomaco.
Mi piego su me stesso, allontanandomi di qualche passo.
“Cosa ne sai tu?!”, dice Frank, venendomi in contro.
“Cosa aspetti? Ammazzami”, ghigno.
La mia fragile voce sembra essere divisa da minuscole crepe.
Una nuova spinta mi destabilizza, e sento il peso di Frank piombarmi addosso.
Riesco comunque a rimanere in piedi, trovando appoggio al muro dietro di me.
“Smettila di essere sempre così tranquillo! Che ne sai tu di cosa si prova ad essere costantemente rifiutati da tutti?!”, strilla.
E lo vedo diverso, cambiato.
Non è più il solito ragazzino debole che se ne sta appartato in un qualche angolo del mondo, nell'ombra dell'umanità.
Cosa ne so io?”, gli chiedo con disprezzo, avvicinandomi velocemente, e restituendogli la spinta verso la parete.
Lui sussulta, ma in pochi attimi ritorna sulla difensiva, uscendosene con:
“Anni e anni passati a nascondermi da tutto e da tutti. I miei coetanei che mi attaccavano, e i miei genitori che mi assecondavano...”.
Per un momento, vedo ritornare la sua normale espressione.
Poi, un improvviso rumore sordo.
“COSA NE VUOI SAPERE TU?!”, lo sento urlare, poco prima che mi molli un cazzotto in pieno viso.
 
Perdo parzialmente l'equilibrio.
Il mio udito sembra abbassarsi, e la mia vista appannarsi.
Un fastidiosissimo e acuto rumore si fa spazio tra le mie orecchie, obbligandomi a coprirmele con le mani.
Dopo qualche secondo, mi porto due dita sul viso.
Dal mio naso esce tanto di quel sangue che probabilmente, se riuscissi a vederne chiaramente il colore, ne rimarrei inorridito.
“Merda”, borbotta Frank, davanti a me.
Vedo le sue gambe avvicinarsi, e lentamente tendermi un braccio.
I miei respiri si fanno irregolari e pesanti, il mio cuore sembra pronto a scoppiare.
Non mi piace fare del male ad altre persone.
Non mi piace.
È orribile.
Disgustoso.
E poi Frank, per quale motivo dovrei farne a lui?
Ma accidenti, inizio a credere che non tutto abbia sempre un motivo.
 
Con uno scatto fulmineo, mi getto sul ragazzo, facendolo sbattere sul solito muro, oramai sgretolato.
Afferro con forza il colletto del suo giubbotto, immobilizzandolo.
Non riesco a capire.
Non riesco a capire perché io abbia appena fatto questo.
 
“Tu pensi che essere me sia semplice?”, mormoro, con la voce impastata dal sangue e dalla saliva.
“Pensi che sia divertente frequentare ogni giorno uno specialista diverso? Che ti guarda, ti sorride, e poi si appunta ogni fottutissima cosa che la tua bocca si fa sfuggire sul suo maledettissimo quaderno?”, continuo.
E le parole escono come se fossero le ultime che dico.
Lente.
Tremanti.
E pesanti.
Frank non commenta.
Lo strattono con forza.
“Avanti, pensi che sia divertente?!”, lo aggredisco, urlando.
Lui sposta il viso verso destra, strizzando le palpebre, ed interrompendo l'incontro fra i nostri sguardi.
“Eppure, guardami. Ti ho salvato la vita”, concludo, con un sibilo, allentando la presa, ed indietreggiando di qualche passo.
Il mio zigomo continua a pulsare, e il liquido rosso a scendere verso il mento.
Ma non m'importa.
Non è dolore, questo.
È soltanto fragilità.
 
Stavolta sono io che vengo bloccato dalle sue mani, dopo che con rapidità corre verso di me, e preme sui miei avambracci.
Fissa i miei occhi, ed io faccio lo stesso con i suoi.
E sembrano essere così pieni di ingiustizie, e di un'immensa forza d'animo.
“Io voglio aiutarti, Frank”, esordisco, mentre sento fitte più forti ai miei arti superiori.
Non vuole lasciarmi andare.
Ha finalmente il controllo su di me.
Provo a liberarmi, ma non cede.
Adesso, sono io che devo ascoltare.
 
“Venivo picchiato”, inizia.
Immediatamente vado in allerta.
“Da chi?”, esclamo.
Frank scuote lentamente la testa.
“Non è importante”, risponde.
Deglutisco sonoramente.
“E quando tornavo a casa, papà mi metteva in punizione”, continua.
Apro la bocca per parlare, ma la sua voce mi interrompe:
“E lo sai perché?”.
Passa un attimo di silenzio.
Una lacrima gli sfugge, e corre giù, verso il basso.
Ormai mi sono abituato al buio circostante, e sono in grado di vederla.
 
Perché un vero uomo non deve mai subire, può soltanto combattere e poi vincere. Sempre.”, spiega poi, citando le parole del padre ed imitandone anche il tono.
“Frank, io-”
“No. Non dire che ti dispiace. Mio padre ha ragione. Guardami, a malapena mi reggo in piedi... Dovrei vergognarmi”, continua.
“Non dire cazzate”, esclamo.
Lui ghigna, con la disperazione che si cela dietro le sue labbra tese.
“Essere fiero del proprio figlio è il sogno di tutti i padri. Io sono soltanto una vergogna per il mio”, mormora, annuendo.
Poi, lentamente, molla la presa, distaccandosi.
E con un gesto veloce riesco ad invertire nuovamente le posizioni.
“Non sei una vergogna. Non devi pensare di esserlo”, dico.
Frank scuote la testa, rimanendo in silenzio.
“Smettila di sottovalutarti”, insisto, cercando il suo sguardo.
“Lasciami stare, Gerard. Domani me ne andrò, le cose miglioreranno”, controbatte, provando ad allontanarsi da me.
Ma immediatamente gli stringo i polsi con maggiore forza.
Ritorniamo a guardarci.
Ed è tutto così strano.
Faccio unire le nostre fronti, creando un nuovo contatto.
Lui prova a liberarsi, ma io seguo i suoi movimenti.
E ci riprova, ma no, non lo lascio andare via.
So che non lo vuole davvero.
So che vorrebbe passare così i prossimi minuti, e ore, e giorni.
E che non è casa sua, il posto in cui desidera tornare.
I suoi svogliati tentativi di dimenarsi vengono puntualmente interrotti dal peso della mia fronte sulla sua, della mia pelle che lo trattiene.
Sono qui apposta per lui.
Il rumore, il terremoto.
La Terra che vibrava sotto di me.
Tutto accaduto esclusivamente per avvisarmi.
Tutto.
 
E ad un tratto, Frank sembra riaccumulare le sue forze, e con destrezza riesce ad allontanare un braccio dalle mie dita.
Senza la lucidità che mi trattiene, riprovo ad immobilizzarlo, sfruttando il mio peso su di lui.
Ma le mani non sono abbastanza, il corpo non è abbastanza.
Frank sembra deciso a non cedere.
Il buio non è abbastanza.
Neanche il freddo lo è.
Io non sono abbastanza, nessuno dei due è in grado di vincere.
 
E allora succede.
Succede e basta.
Velocemente, e disperatamente.
Con un gesto rude e sgraziato, violento e deciso.
E le mie labbra finiscono pesantemente sulle sue.
 
Ed il tempo sembra fermarsi.
Accade come un blocco.
Un carismatico momento che ci separa dalla nostra ormai unica realtà.
Dal mondo esterno.
Ci muoviamo all'unisono, con i respiri che si fondono, e il resto che sembra non esistere.
Non è un bacio, non è uno scambio di nessun tipo.
È lontano da tutto questo.
È un'unione.
Come quella che i nostri occhi compiono ogni volta che si incontrano.
Io e Frank, ci baciamo ogni volta che ci guardiamo.
 
Una mano si posa improvvisamente sul mio petto, spingendomi violentemente indietro.
Mi ritrovo a dover combattere per non cadere.
Sgrano occhi e bocca, mentre fisso stralunato Frank.
Anche Lui fa la stessa cosa, schiacciandosi da solo contro la parete alle sue spalle.
Mi fa male la testa.
Mi fa male la gola, e anche lo stomaco.
Mi tremano le gambe, e le braccia, e le mani.
Ho paura.
Ho paura di rendermi conto di cosa è appena successo.
Il ragazzo si porta una mano sulla bocca, sfiorandosi lentamente le labbra.
Deglutisco.
Il contatto mi ha lasciato un sapore amaro, contaminato dal fumo.
Ma è un sapore sincero, vero.
Giusto.
Non avevo mai provato un contatto simile con nessuno, prima di adesso.
Forse perché non ho mai passato il mio tempo insieme ai miei coetanei, o forse perché non ho mai cercato niente di simile.
Eppure non capisco.
Non capisco, non capisco, non capisco.
Ho sempre dato per scontato che gli opposti si attraggono.
Che un giorno sarei diventato come mio padre, e mi sarei sposato con una donna come mia madre.
 
Ma magari questa non è attrazione.
Magari è soltanto confusione.
Scherzi del cervello.
Stupidi ed improvvisi lapsus.
Probabilmente ciò che è successo era esclusivamente un modo per non farlo andare via.
Per non fare andare via Frank.
Accidenti, accidenti e accidenti.
 
Mi allontano lentamente dal vicolo, uscendo finalmente all'offuscata e tiepida luce del sole.
Non c'è nessuno.
Giusto qualche anziano che parla con altri anziani di cose che i giovani non potranno mai capire.
L'aria è ferma.
Il mondo è fermo.
Avanzo con cautela verso la via che porta a casa di mia nonna.
Mi sento intorpidito, e la testa sembra pronta ad esplodere.
 
“Non sono gay”, esclama ad un tratto qualcuno alle mie spalle.
Mi volto, destabilizzato e confuso.
Frank mi guarda con l'imbarazzo che gli colora il viso.
“Non sono gay”, ripete, con più sicurezza.
Annuisco lievemente, poi con più convinzione.
“Lo so”, affermo, ritornando a camminare.
E il silenzio ci segue, rassicurante, durante tutto il tragitto.
 
***
 
“Gerard, dove siete stati? Fra poco pranziamo”, ci accoglie mamma, quando entriamo in casa.
Non rispondo alla sua domanda, e mi dirigo in salotto, dove mia nonna sta addobbando un orribile alberello sintetico.
I suoi oggettini sono tuti al loro posto.
Non una crepa, niente di rotto.
Ecco Gerard e i suoi terremoti interni.
 
“Nonna, posso parlarti?”, le chiedo, raggiungendola, ed appendendo ad uno dei rami una campanella d'argento.
Lei annuisce, mentre inizia ad intonare un'orribile melodia natalizia.
Faccio roteare gli occhi.
“Frank domani tornerà a New York”, dico, alludendo al ragazzo, che sta inspiegabilmente parlando con mio fratello nella stanza accanto.
Elena smette improvvisamente di canticchiare, spostando il suo sguardo allibito su di me.
“Così presto?”, indaga.
Annuisco con un cenno della testa.
“Avete litigato?”, insiste.
“No”, rispondo in fretta.
Lei lascia cadere l'addobbo che aveva fra le mani in una scatola al suo fianco, avvicinandosi a me.
“È successo qualcosa”, esordisce.
“No”, ripeto.
“Non era una domanda”, puntualizza.
Deglutisco.
“Faresti meglio a dirmi cosa c'è, Gerard”, mi aggredisce, puntando un dito ossuto sul mio petto.
“Non c'è nulla! Frank domani se ne andrà, ecco cosa dovevo dirti”, concludo, sfuggendo al suo tocco, e avviandomi verso il corridoio.
Posso sentire lo sguardo di mia nonna su di me.
E vorrei soltanto correre.
Correre fino allo sfinimento.
Cadere affaticato sulla strada, per poi svenire, accasciandomi al suolo.
E rimanere lì.
Per ore.
Giorni.
Per sempre.
Ma per adesso, posso soltanto accontentarmi di un letto, su cui pesantemente gettarmi.
E infine, soffocare le mie urla con il tessuto del cuscino.
 
***
 
“Michael, passami la saliera”, ordino a mio fratello.
Lui mi ignora, raccogliendo i piatti dal tavolo con nonchalance.
Sbatto un pugno sul legno del piano, provocando un rumore che fa voltare il ragazzo.
“Michael, Cristo, passami quella fottuta saliera”, ripeto, ringhiando con riluttanza.
“Sei l'unico della famiglia che continua a chiamarmi Michael”, osserva lui.
Lo guardo accigliato.
“Dovresti iniziare a chiamarmi Mikey”, continua, annuendo.
“Va bene, Mikey, adesso passami la saliera”.
La mia pazienza che va a disperdersi velocemente.
“Parola d'ordine?”, domanda con sarcasmo Michael.
“Passami la saliera”, insisto, non curandomi della sua richiesta.
“Risposta errata”, dice, scuotendo la testa.
Con uno scatto, gli dò una spinta verso sinistra, allungandomi da solo verso la saliera ormai vuota, e portandola al suo posto.
Lui strilla qualcosa di incomprensibile.
Ed io lo mando all'Inferno.
 
“Ma che cazzo ti succede?”, lo sento poi esclamare, alle mie spalle.
Lo ignoro, chiudendo lo scaffale in cui ho riposto l'oggetto.
Il pranzo è iniziato con una preghiera.
Tutti hanno mangiato.
Nessuno ha parlato più di tanto.
E poi il pranzo si è concluso con la stessa preghiera, ripetuta tre volte consecutive da mia mamma e mia nonna.
È stato identico a tutti gli altri pranzi di Natale a cui ho partecipato durante tutta la mia vita.
Tutti.
E la presenza di Frank non ha poi cambiato eccessivamente le cose.
Ha consumato, ha ringraziato, e si è ritirato.
 
Una mano mi strattona la spalla destra, obbligandomi a voltarmi, e a guardare negli occhi mio fratello.
“Insomma, che ti succede?”, implora, agitando le braccia.
“Fatti gli affari tuoi”, rispondo con acidità, avviandomi nuovamente verso il salotto.
Ma lui riesce comunque a bloccarmi.
“Adesso tu mi dici cosa c'è che non va!”, mi ordina, severo.
E sto per parlare.
Per dirgli tutto.
Per raccontargli cosa è accaduto in quel fottutissimo vicolo.
Della lametta di Frank, del suo pugno, e delle mie labbra sulle sue.
E di quanto entrambi avessimo cercato quel contatto, e immediatamente lo avessimo comunque interrotto.
Ma non posso.
Non posso farlo.
Michael potrebbe reagire nel modo sbagliato, io potrei reagire nel modo sbagliato.
E ci allontaneremmo da Frank, e da tutti i suoi problemi.
E dalle sue cicatrici sui polsi, e dalle sue cicatrici nel cuore.
 
E non ce la faccio.
 
“No”, concludo, ignorando le successive parole di Michael, e salendo lentamente le scale, verso la mia stanza.
Mio fratello sembra non aver capito.
Ma la verità è che neanch'io, ho capito.
Probabilmente neanche mia nonna sarebbe in grado di farlo, e figuriamoci mia mamma.
Poi c'è Frank, che si taglia le vene con una lametta rovinata, mi picchia, e infine mi dice di non essere gay.
E io ci credo.
Neanche io lo sono.
Non era un bacio, quello.
Non era niente.
 
Cammino velocemente, cercando di rimuovere, almeno temporaneamente, ogni ricordo di questa mattina.
Ma mentre cerco di arrivare alla mia stanza, evitando di perdermi in inutili grattacapi, vedo la porta della camera di Frank socchiusa.
Trattenendo il respiro, mi avvicino.
Lentamente.
La finestra è aperta, e il sole sembra essersi nascosto da qualche parte nella stanza.
In terra noto una valigia.
È la stessa che ho portato qui io, quando il ragazzo è arrivato.
Capisco che è stata appena riempita dai suoi vestiti, ed è quasi del tutto chiusa.
Ma manca una cosa.
O forse due.
Qualcosa di cui Lui non potrà mai dimenticarsi.
 
Frank se ne sta lì, seduto sul bordo del letto, con lo specchio fra le mani, e gli occhi lontani dall'oggetto, attenti a non incontrarsi involontariamente con il loro riflesso.
Sembra assorto in pensieri confusi, intrecciati, complicati.
Sembra voler provare a guardarsi, una volta per tutte.
Ma sembra anche troppo fragile, troppo insicuro per poterlo fare.
I corti capelli scuri e la pelle liscia e delicata, lasciata intravedere dalla scollatura del maglioncino blu, contribuiscono ad accentuare le sue debolezze, rendendolo così piccolo, e al tempo stesso così grande.
Così pieno di magia, dentro di sé.
E le sue mani sottili, che stringono con potenza il mosaico specchiato.
E lo fanno per sentirsi più forti, per riuscire ad avere controllo su qualcosa che in realtà spaventa il loro possessore.
Un possessore che il controllo non riesce a gestirlo.
 
Entro lentamente e silenziosamente nella stanza, stando attento a non fare troppo rumore.
Ma è tutto così tristemente inutile.
Lui riesce sempre a sentirmi.
Anche se non si volta, se non mi parla.
Frank sa che sono entrato, e anche che lo stavo osservando.
Frank sa che mi sono avvicinato, e che adesso mi sono seduto dietro di Lui.
 
E anche se ho paura, poggio dolcemente una mano su una spalla.
Ma Lui ignora il mio gesto.
Sembra non averlo neanche percepito.
Ma non importa.
Non è questo l'importante.
 
Sento il mio cuore sparare scintille, mentre faccio lentamente scivolare le dita dell'altra mano verso lo specchio.
Frank deglutisce.
Con cautela, lo alzo, fino a ritrovarmi all'altezza del suo mento.
Poi, lo guardo.
Guardo il suo profilo, il suo naso perfetto.
Le sue labbra rossastre, che ho violentemente toccato, mentre lo immobilizzavo al muro di uno sporco edificio grigio.
E la sua espressione decisa, ma al tempo stesso timida e fragile.
Lo guardo con gli stessi occhi con cui lo guardo sempre, andando a catturare i suoi più nascosti pensieri.
 
La situazione è tranquilla, normale.
Come se niente fosse successo.
Come se io fossi semplicemente Gerard, e Lui semplicemente Frank.
 
E infine, con una leggera insicurezza, il ragazzo annuisce.
E capisco che posso continuare.
Lui chiude gli occhi.
Ed io porto l'oggetto davanti al suo volto.
Sento i suoi respiri farsi più pesanti, e la spalla, che sto ancora toccando, iniziare a tremare.
Sa che è venuto il momento.
Sa che deve guardare in faccia quel maledettissimo riflesso.
Che deve finire di nascondersi.
Che deve capire chi è, e come appare.
Osservo meglio lo specchio.
I nostri visi sono proiettati sulla sua superficie, spezzettati in decine di piccole parti informi.
Ci sono io, con i miei soliti capelli neri, che mi ricadono disordinati sul viso.
E poi c'è Lui, che con le palpebre abbassate aspetta di ricevere la giusta spinta per poter guardarsi.
E sembra così delicato.
Che un pugno basterebbe ad infrangerlo.
Che un bacio basterebbe a scioglierlo.
Gli accarezzo con più enfasi la spalla.
E Lui decide di farlo.
Decide di liberarsi.
Decide di lasciarsi scivolare addosso ogni cosa che si porta dietro da ormai troppo tempo.
E con un lento, leggero, delicato movimento, apre gli occhi.
 
Due sottili fessure chiare escono dallo scudo, ingrandendosi sempre di più.
Risplendono, come sempre, in tutta la stanza.
E si espandono, si mostrano al mondo.
E si mostrano al loro maledetto e tanto temuto riflesso.
 
Lo vedo spalancare leggermente la bocca, e incurvare le sopracciglia con sorpresa.
Sorpresa, e paura.
Paura, ed emozione.
Emozione, e tristezza.
Una sottilissima ed impercettibile lacrima scende giù, sul suo viso, attraversandogli una guancia, e andandosi ad infrangere alla fine della mascella.
I suoi occhi scrutano attentamente i lineamenti del suo viso, i colori delle sue iridi e la forma delicata delle sue labbra.
Guarda le ciocche di capelli scuri contornargli la fronte, e le orecchie fare capolino da entrambi i lati del viso.
Con una mano, va a toccarsi gli zigomi, prolungandosi poi verso il mento e infine verso collo.
Vuole sentirsi, vuole essere sicuro di poter reggere il peso della potente immagine che lo fissa costantemente, lì, di fronte a Lui.
 
Poi, ad un tratto, il suo sguardo si sposta sul mio riflesso.
Sul mio volto e sulla mia pelle diafana.
Sulla mia espressione comprensiva, e sui miei occhi verdi.
E improvvisamente, sento come una sensazione di vuoto.
Di un vuoto diverso, di un nuovo vuoto.
Un vuoto che da solo non riesco a colmare. 
Un vuoto che mi spaventa.
Un vuoto che mi chiama, dal profondo.
Frank che guarda me.
Ed io che guardo Lui.
E noi che guardiamo uno specchio.
 
Il ragazzo si volta, lentamente.
Lo faccio anch'io, mollando la presa sulla sua spalla, e abbassando l'oggetto.
Ed in un attimo, ci ritroviamo faccia a faccia.
Lui con i suoi occhi lucidi.
Ed io con il mio infinito vuoto.
Lo vedo inumidirsi le labbra, per poi deglutire.
Un'immensa forza che continua a trascinarmi verso il solito vuoto.
Un senso di inspiegabile torpore.
Abbasso lo sguardo verso il suo collo.
Sembra quello di un bambino.
Quello di un neonato.
Frank ha l'aspetto di un bambino.
Lo ha sempre avuto.
Fin da quella volta che lo trovai accasciato nel bagno della Redflame.
Era un fottutissimo bambino, lasciato solo in un mondo troppo grande.
Solo come sole sono le gocce di pioggia quando cadono sul vetro della finestra, e che con fatica fanno l'impossibile pur di incontrarsi fra di loro, ed unirsi, per poi morire insieme sul fondo.
 
“Non sei più solo, Frank”, mormoro, tornando ad incrociare il suo sguardo.
Lui sorride leggermente, sollevando appena un angolo della bocca, e dando vita ad una simpatica fossetta sulla guancia.
Lo imito, mentre i miei occhi perlustrano per intero il suo viso.
Poi, sento come un cedimento da parte delle mie ossa, dei miei organi, del mio corpo.
Del mio tutto.
Senza smettere di fissare le sue iridi luminose, inizio ad avvicinarmi.
E più mi avvicino, più la distanza diminuisce, e più sono in grado di sentire il suo respiro.
Le palpebre iniziano ad abbassarsi, e non riesco a fare più nulla.
E non riesco a controllare più nulla.
Percepisco il calore di Frank avanzare verso di me, arrivando al limite della vicinanza con il mio viso.
E ad un tratto, sento le sue labbra poggiarsi delicatamente sulle mie.
 
E le labbra si muovono, si uniscono, si esibiscono in una danza dolce ed insicura.
Le mie dita vanno a toccare il suo viso, accarezzandolo.
E non capisco, non capisco più niente.
Non capisco dove mi trovi, e perché io lo stia facendo.
Perché lo stia facendo con Frank.
 
E l’incontro è fatale.
Come la collisione di due Oceani, con le diverse temperature che combattono per restare insieme.
E si fondono delicatamente, lasciando che scosse e brividi si disperdano lungo tutto il corpo.
E se non capiamo non importa.
E se non possiamo, non importa.
Perché la sola cosa che importa, è che noi, ci stiamo salvando.
 
***
 
Buon salve a tutti.
Sebbene avessi detto, l’ultima volta, che l’ottavo capitolo sarebbe esploso presto, sono stata costretta a studiare e studiare e soffrire e studiare.
Conclusione:
Un capitolo discreto ma non troppo.
 
Comunque.
È successo.
Hanno rotto il ghiaccio e si sono guardati allo specchio.
A questo punto, le cose non possono far altro che peggiorare!
 
Scherzi a parte, sono soddisfatta di essere arrivata a questo punto.
Dopo una parte così importante, gli avvenimenti saranno molto più fluidi e decisivi per una futura conclusione (che arriverà, secondo i miei calcoli, fra una decina di capitoli).
 
Vi chiedo di farmi sapere se vi è piaciuto, o almeno se lo avete apprezzato.
(Per qualunque errore, date tranquillamente la colpa alla mia beta).
 
A questo punto, immagino che ci sia poco da dire J
Vi lascio con una domanda:
Come pensate che affronteranno la situazione Frank e Gerard? :P
 
A presto (spero, dato che avrò gli esami di riparazione a breve),
Virgyl,
 
Ps: Se non l’aveste capito –e non perché siete stupidi, ma perché io non riesco sempre ad esprimere ciò che penso- il terremoto non c’è mai stato. Si trattava di un avviso elaborato mentalmente da Gerard che lo avvertiva del pericolo di Frank.
 
Pps: Due capitoli fa, ho chiamato il padre di Frank con il suo nome d’arte, Cheech, e non quello vero, Anthony. Lo dico per non creare ulteriore confusione.
 
Ppps: Ringrazio di cuore le quindici persone che hanno aggiunto questa storia alle preferite, e le altre quattordici che l’hanno inserita tra le ricordate (che poi magari sono le stesse ed io non me ne sono accorta, ma who cares, vi sono comunque immensamente grata).
C:  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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