La Prima Notte di Quiete
Levi Ackerman non dormiva quasi mai. Tre quattro ore per notte era il massimo che riusciva a concedersi. Era forse colpa dell’adrenalina che gli scorreva nelle vene come una droga, o forse era semplicemente affetto da qualche patologia del sonno.
Questo aveva coadiuvato non poco a renderlo irritabile, insofferente e
soprattutto lo aveva trasformato in una sorta di teina dipendente.
Il liquido caldo e ambrato, con quell’aroma inteso di bosco che, ad ogni sorso gli
accarezzava il palato, era diventato il
suo miglior alleato nel tamponare la stanchezza da insonnia cronica, che a fasi
alterne lo colpiva durante la giornata.
Dormire così poco aveva contribuito anche scavare quelle occhiaie bluastre,
sorrette da una fitta ragnatela di piccole rughe, che cerchiavano, esaltandoli,
quegli occhi così particolari: inflessibili e grigi. Due fessure di ghiaccio
tagliente, che con una sola stoccata erano capaci di valutare nemico e grado di
pericolo.
Levi, un uomo, all’apparenza freddo e distaccato, quasi un dissociato, non aveva pace.
Nonostante la calma fredda ed il controllo ferreo, dentro di lui si contorcevano
i demoni di un’esistenza consumata al margine, forgiata nel dolore e temprata
nella rabbia.
Cinismo sarcastico, insolenza sfacciata, mancanza di tatto. Erano il suo
marchio di fabbrica. Tutte maschere che indossava, una dietro l’altra, a
seconda del caso e dell’occorrenza, per difendersi dal mondo intero e da se
stesso. O forse non indossava nessuna maschera. Era semplicemente fatto così.
Una persona particolare. Fuori dal comune. Con un carattere così pieno di
spigoli, che suo malgrado, non poteva
fare a meno di lasciare il segno.
La cosa certa era la sua forza. Fisica ed interiore, di cui sapeva, senza ombra
di dubbio, fare un ottimo uso.
Ma era stanco, molto stanco.
Questa guerra era durata troppo a lungo e si era lasciata dietro una scia infinita
di vite spezzate, molte delle quali avevano spezzato, un poco alla volta, anche
lui.
Ora però era tutto finito.
Non sembrava neppure reale, eppure era accaduto: i titani erano stati sconfitti
e i giganti erano stati abbattuti, tutti, fino all’ultimo esemplare, che era appena
crollato a terra, con il solito tonfo sordo, finendo di consumarsi tra fumi e
lapilli nell’autocombustione. Il vento stava disperdendo quel fumo pesante, tossico,
residuo di quell’ultimo mostro, portandosi per sempre via un’era di terrore e
prigionia, che aveva quasi estinto l’umanità.
Era stato in quel momento che finalmente si era lasciato cadere sull’erba, a
braccia aperte, e aveva guardato il cielo.
Azzurro, luminoso, interrotto dalle fronde degli alberi, che frusciavano lievi,
al tocco della brezza. Era come se il mondo si fosse fermato. Anche le grida di
gioia ed i rumori circostanti si erano come magicamente sfumati, attenuati, ovattati,
simili ad echi lontani. C’erano solo lui ed il cielo…
Quanto poteva essere bella quella luce così calda e limpida? E quanto straordinaria
era la natura che sembrava quasi sussurrare timidamente, attraverso quelle chiome
mosse da vento, un lieve canto di libertà, che lo cullava come una ninna nanna.
Fu abbracciato da quella sensazione che mai aveva provato nella sua vita: pace.
Si sentiva così bene, quasi totalmente libero da quella rabbia impotente ed incancrenita che lo attanagliava dentro da
anni. Era come se si fosse tolto un peso enorme.
Era così leggero. Quasi una piuma.
Rimase ancora fermo, a respirare a pieni polmoni l’odore dell’erba e a godersi
la vista di quel tetto azzurro che gli riempiva l’anima.
Non male! pensò. Esattamente come la
prima volta che era uscito in ricognizione dalle mura e aveva visto da vicino la
natura circostante, ammirando la volta celeste sopra la sua testa. Da allora
non l’aveva quasi fatto mai più.
Chiuse un attimo gli occhi, come per entrare in comunione con ciò che lo circondava,
quasi volesse farne parte come un corpo unico.
Quando li riaprì, la luce stava calando in modo gentile, dai caldi raggi del
sole era passata alla timida e fresca brezza del crepuscolo. La sentì lieve
sulla pelle, fu quasi come una carezza
sul suo viso magro e affilato, che lo fece rabbrividire un po’.
Poco lontano c’era sempre aria di festa, tutti urlavano felici ed increduli,
come in un rito liberatorio.
Fu allora che decise di andarsene. In silenzio, senza far rumore e senza
salutare nessuno.
Era felice che i suoi ragazzi fossero arrivati tutti indenni alla fine di
quell’incubo assurdo e crudele. Più felice ancora era che fossero sopravvissuti
anche Erwin e Hanji. Erano stati i due maggiori artefici di questa grande
vittoria, sarebbe stato crudele ed ingiusto se non avessero potuto goderne. Si
rese conto che svignarsela così, senza neppure un congedo, forse era ingiusto, ma
lui era stanco. Voleva andare via, altrove, lontano.
«CAPITANO!».
La voce di Eren lo scosse e sì girò. Lo vide che correva in modo affannato
verso di lui, e dietro tutti gli altri. Anche Erwin ed Hanji si erano accorti e
seguivano i ragazzi in una corsa folle.
Lui che era in piedi, vicino al suo cavallo, li guardò non capendo.
All’improvviso si erano fermati tutti come distratti da qualcosa.
Che comportamento bizzarro… forse non l’avevano visto e lo stavano solo
cercando? Si chiese confuso.
Era l’ora di andare. Non poteva attendere ancora. Non si fermò oltre a pensare.
Forse era meglio così.
Era convinto che gli addii fossero inutili e facessero solo male. Del resto non avrebbero
mai colmato l’assenza, lo sapeva bene, quella veniva alimentata dai ricordi, allora
agli altri, meglio non aggiungere anche quello del congedo.
Montò a cavallo e tirò le redini. Non si voltò e partì al galoppo.
Gli sembrava di correre sulle ali del vento. Una sensazione così bella e così
vivida che gli dava quasi l’impressione di volare.
Poi, improvvisa come una mannaia, calò la notte: cupa, fredda, senza luna. Le
tenebre sembravano più fosche che mai, ma Levi era tranquillo, non c’erano più
pericoli. I mostri erano stati sconfitti.
*
Erano
rimasti sconvolti. Nella frenesia nessuno si era accorto che mancasse Levi. Erano
certi che fosse nelle vicinanze, leggermente in disparte, ma presente, come era solito fare.
Invece era lì, disteso su quel prato. Gli occhi grigi sembravano brillare,
limpidi e trasparenti riflettevano la luce del cielo. La cosa straordinaria era
che il suo viso appariva disteso ed era illuminato da un sorriso sereno, come
se contemplasse qualcosa di meraviglioso. Nessuno ricordava di averlo mai visto
sorridere così. La sua espressione era bellissima e li colpì come uno schiaffo
in pieno viso. Era fermo, immobile. Con le braccia aperte e i palmi a contatto
con l’erba. Dall’orecchio destro gli sgorgava copioso un rivolo di sangue. Il rosso
acceso della linfa vitale gli aveva macchiato il colletto della camicia e il
suo prezioso foulard.
Hanji pensò che si sarebbe incazzato a morte per via di quelle macchie, gli
parve quasi di udire la sua voce irritata: Guarda
qui che schifo. Tch! e le venne il magone.
Erano scioccati, nessuno si era reso conto, che nell’abbattere l’ultimo gigante
rimasto in piedi, per poter finalmente aprire
le porte della libertà, il capitano era caduto.
Lo pensavano da qualche parte a riflettere bevendo tè. Lontano, ma vicino. Schivo,
silenzioso, defilato, com’era Levi quando la battaglia era finita e lui si
concedeva il riposo del guerriero.
Invece se n’era andato.
Per sempre.
*
Alla
fine della galoppata arrivò ai piedi di una radura che s’insinuava in una fitta
foresta. D’istinto lasciò il cavallo, gli dette una pacca per farlo allontanare
e proseguì a piedi. Come entrò nella boscaglia intravide subito tra gli alberi una
figura che gli si fece incontro.
«Madre?»
chiese incredulo, quando capì chi fosse, correndo verso di lei, con il cuore in
gola.
Kuchel lo accolse tra le sue braccia e lo strinse a sé «Bambino mio, è da molto
che ti stavo aspettando» gli disse con dolcezza.
«Perdonami» sussurrò alla donna angosciato e confuso. Quella colpa era rimasta
nel suo cuore, crescendo ogni giorno.
«Non c’è niente di cui io debba perdonarti» lo consolò con l’amore che solo una
madre può nutrire per il proprio figlio.
Levi alzò la testa e la guardò. Era così bella, serena, sembrava davvero felice.
«Non ti ho protetta, non sono riuscito a salvarti… ti ho lasciata morire sola in
quel letto, guardandoti spegnere come una candela» le disse addolorato.
«Eri così piccolo Levi, non potevi fare niente per me» lo rassicurò.
«Guarda quello che sei diventato! Hai salvato così tante vite, hai messo la tua
esistenza al servizio degli altri, sono così fiera i te» aggiunse carezzandogli
il viso riempiendo il suo cuore con il suo sguardo così pieno d’amore.
Quelle parole, magicamente, misero a cuccia gli ultimi subdoli mostriciattoli che
gli morsicavano l’anima. Quelli che gli
avevano fatto credere per una vita intera di non essere completamente capace di
proteggere chi amava, di essere un inutile e violento assassino, che lo
straziavano ogni volta che qualcuno per cui provava affetto moriva, alimentando
il suo senso di colpa, nato in quel bordello puzzolente, quado lei era morta
sola e malata, senza che lui potesse muovere un solo dito per aiutarla.
«Sono così stanco madre… ho tanto bisogno di pace…» ammise abbandonandosi di
nuovo tra le sue braccia.
«È tempo che tu riposi, figlio mio. Appoggiati e dormi» gli disse carezzandogli
piano i capelli. Lo tenne tra le sue braccia. Lo cullò, finché la pace totale
non lo rapì e tutto si dissolse in un raggio di luce, che in un lampo silente
sparì.
Quella, per Levi, fu la sua prima notte di quiete.
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Buonsalve! È quella disgraziata dell’autrice che vi parla.
Non uccidetemi!
Mi è uscita così, ogni tanto l’angst si impossessa di me e mi fa scrivere
queste cose…
E comunque a mia discolpa è anche colpa di certe fan art, infatti queste due mi
erano così piaciute tanto, che non sapendo scegliere le ho inserite entrambe.
Isayama tu non ti azzardare a farlo MAI! Ok?
E niente grazie a chiunque abbia letto e a chi vorrà lasciarmi un commento, o
anche un insulto :P fate voi, mi rimetto al vostro buon cuore!
Scherzi a parte spero che questa mia idea vi sia piaciuta. Io amo fare l’introspezione
dei personaggi, sondare il ,loro intimo, immaginare i loro pensieri, le loro
sensazioni più nascoste e recondite,
proprio come se fossero esseri umani veri. Mi piace immaginare che cosa pensano
e come vivono gli accadimenti della loro vita, come reagiscono quali sono le
loro gioie e i loro dolori. Perché è questo che mi spingere a scrivere. Questo
che avete letto è un po’ come introietto Levi. È così che attraverso i
suggerimenti lanciati da Isayama io lo percepisco e così ve l’ho restituito,
grazie di aver letto questa mi interpretazione dei fatti.
PS per chi segue la long aggiornerò in settimana, vi chiedo scusa, ma all’ispirazione non si comanda, quando arriva, comanda lei! :P
Disclaimer: Levi e tutti i personaggi di SNK (purtroppo) non mi appartengono, ma sono proprietà di Hajime Isayama.
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