Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: Alexiel Mihawk    28/09/2015    3 recensioni
All’epoca non vivevo in Inghilterra, sebbene ci fossi nato; avevo abbandonato il conforto della mia casa e della mia terra, delle sue verdi vallate e la sua pioggia frequente, per viaggiare. L’Europa, l’oriente, il mondo mi sembravano in quegli anni l’unica cosa che valesse la pena scoprire, volevo vedere nuove città, paesaggi diversi da quelli a cui mi ero abituato nella più tenera infanzia. Feci una scelta, che all’epoca a molti sembrò discutibile. Chi mai avrebbe scambiato i confortevoli pomeriggi davanti a un camino accesso, con afose giornate in un deserto di sabbia? Chi mai avrebbe abbandonato il placido tran tran della vita Londinese per sperimentare la caotica confusione delle città orientali? Furono in molti a non capire cosa cercassi o cosa volessi dalla vita, e, forse, all’epoca non lo sapevo bene nemmeno io.
Fu a Teheran che lo scoprii e qui inizia la mia storia, e, come ogni storia che si rispetti, inizia con una donna.

Hans/Anna, AU, una rivisitazione di Frozen dal punto di vista di Hans, che racconta in prima persona la vicenda di Anna, novella Antigone, in una Teheran della seconda metà del 1800.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna, Hans
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Autrice: Alexiel Mihawk | alexiel_hamona
Titolo: (a)Mors Vincit Omnia
Fandom: Frozen
Personaggi: Hans, Anna, (Elsa)
Rating: giallo, SFW
Genere: introspettivo, angst, malinconico
Warning: AU, character death, prima persona
Parole: 5115
Prompt: camino, mughetto, Iris – U2, Teheran
Note: questa storia è stata scritta per il Mercatino Nomi-Cose-Città di Maridichallenge. La storia, come sempre, è una Hans/Anna, nata in modo del tutto inaspettato; la canzone Iris, degli U2, è stata l’ispirazione principale per la storia e da lì mi sono resa conto di quanto mi ricordasse l’Antigone di Sofocle. Così è nata questa storia che è una rivisitazione di Frozen dal punto di vista di Hans, che racconta in prima persona la vicenda di Anna, novella Antigone in una Teheran della seconda metà del 1800. Diamo a Cesare quel che è di Cesare e creditiamo ciò a cui mi sono ispirata:
- Da I sette contro Tebe: Fatevi forti, figliole, ancora avvolte dal calore materno. Tebe nostra è salva: via il collare da schiava! Crollò la folata arrogante di guerrieri nervosi. Tebe naviga in pace. Tra gli schiaffi dell'abisso agitato, non stivò acqua la chiglia. Fa scudo la cinta. || Così s'abbatterono. Fratellanza eccessiva di mani assassine. Tebe è sicura, ma la Terra s'imbeve del sangue dei principi fratelli. Reciproco assassinio. Così maledetto destino li strinse in un nodo. Sì, destino disperde quel sangue sinistro. Sono eventi degni di festa, e insieme di pianto. || Io ai potenti di Tebe rispondo: se pure nessuno è disposto, con me, a scavargli una fossa, io lo farò sfiderò questo rischio d'inumare il fratello. Non ho pudore di rompere il patto, rivoltarmi allo Stato. Nodo enorme la vita dallo stesso ventre, da madre afflitta, da padre sinistro. Oh, mio cuore, osa: spartisci la rovina con lui che non ha più volontà. Da viva a morto, con fraterno sentire. Non sfamerà mai la sua carne gole abissali di lupi. Non fateci conto. Tumulo, funebre fossa per lui: scoverò io, come fare. Sono donna, che importa? Userò il lembo del peplo di velo. Sono sola, ma l'avvolgerò. Nessuno s'aspetti smentite. L'ardire avrà dalla sua espediente efficace.
- Dall'Antigone: Non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore. || e fondamentalmente l’intera seconda parte della storia.
- Il titolo è un più o meno gioco di parole latino, la frase Amor vincit omnia significa “l’amore vince sempre/su ogni cosa”, Mors vincit omnia, invece, significa “La morte vince sempre/su ogni cosa”.
- Detto ciò, se avete domande o non vi è chiaro qualcosa, vi ricordo che potete trovarmi in giro e scrivermi, sia su ask, che su twitter, che sul profilo di faccialibro.

 
 
(a)Mors Vincit Omnia
 
 
Once we are born, we begin to forget
The very reason we came
But you
I’m sure I’ve met
Long before the night the stars went out
We’re meeting up again
Hold me close, hold me close and don’t let me go
Hold me close like I’m someone that you might know
Hold me close the darkness just lets us see
Who we are
I’ve got your life inside of me
Iris – U2
 
 
C’è un periodo, nella vita di ogni uomo, in cui qualsiasi cosa sembra possibile. Giorni che scorrono mentre la cognizione del tempo si perde, la consapevolezza di una gioventù che pare eterna e l’ebbrezza di sperimentare nuove emozioni. È questo il periodo della crescita, e, forse più importante ancora dell’adolescenza, è il secondo intervallo di formazione, quella maturazione che avviene nella decade tra i venti e trent’anni, quando diventiamo le persone che siamo destinati ad essere.
Questa è la storia della mia crescita, di come ho cessato di essere un ragazzo e ho imparato ad essere un uomo; erano altri tempi e il mondo non sembrava così grande e spaventoso come ci appare ora, o almeno così credevo, ma la verità era che non sapevo proprio un bel niente del mondo. Ero giovane, ricco e viziato e fin troppo spesso mi sfuggiva l’importanza delle cose e non solo quella; in quegli anni mi scivolarono dalle mani oggetti che rimpiango di aver perduto e persone che ancora oggi vivono nei miei sogni, nei miei incubi.
Lasciai che ogni cosa scivolasse dalle mie mani, come sabbia tra le dita, mentre il mondo prendeva a girare vorticosamente e io mi rendevo conto di non riuscire a seguirlo.
Ma non state capendo niente, d’altronde queste non sono che le chiacchiere di un vecchio, i ricordi confusi di un tempo passato e se non inizio dal principio allora nulla di tutto questo avrà un senso.
All’epoca non vivevo in Inghilterra, sebbene ci fossi nato; avevo abbandonato il conforto della mia casa e della mia terra, delle sue verdi vallate e la sua pioggia frequente, per viaggiare. L’Europa, l’oriente, il mondo mi sembravano in quegli anni l’unica cosa che valesse la pena scoprire, volevo vedere nuove città, paesaggi diversi da quelli a cui mi ero abituato nella più tenera infanzia.
Feci una scelta, che all’epoca a molti sembrò discutibile. Chi mai avrebbe scambiato i confortevoli pomeriggi davanti a un camino accesso, con afose giornate in un deserto di sabbia? Chi mai avrebbe abbandonato il placido tran tran della vita Londinese per sperimentare la caotica confusione delle città orientali? Furono in molti a non capire cosa cercassi o cosa volessi dalla vita, e, forse, all’epoca non lo sapevo bene nemmeno io.
Fu a Teheran che lo scoprii e qui inizia la mia storia, e, come ogni storia che si rispetti, inizia con una donna.
 
Anna aveva lunghi capelli aranciati e una manciata di efelidi sul viso; non sapevo come lei e la sua famiglia fossero giunti in quella parte del mondo e, ad essere del tutto onesto, nemmeno mi interessava. Non aveva un vero lavoro, si diceva che, insieme a sua sorella Elsa, vivesse della carità degli abitanti della città, la verità è che il lavoro di entrambe era troppo poco dignitoso per essere preso in considerazione come reale da chi le conoscesse: Elsa, chiusa in una stanza dipinta di azzurro, prediceva il futuro; Anna, da sempre più esuberante ed entusiasta della vita, trascorreva le sue giornate coi bambini degli inservienti del palazzo. Li accompagnava lungo le strade affollate e li seguiva nelle piazze vuote, giocando assieme a loro e facendo del suo meglio per accudirli; gli abitanti del quartiere le erano sinceramente affezionati e parlavano di lei con una nota di dolcezza nella voce, una nota che raramente era riservata a sua sorella.
Io ero giunto a Teheran assieme all’ambasciatore e come suo amico ero stato introdotto a palazzo; la famiglia reale mi aveva in qualche modo preso in simpatia, d’altra parte ho sempre avuto la capacità di saper interagire nel modo migliore con gli estranei. La vita mi aveva donato un spetto affascinante e una parlantina svelta, doti che mi hanno sempre permesso (allora come più avanti nel corso degli anni) di riuscire ad incantare quasi chiunque mi trovassi di fronte. Divenni ben presto ospite fisso del palazzo, affascinato dalle abitudini e dalla cultura di un popolo così diverso dal mio; quella era la Persia, uno degli stati più antichi del mondo, la cui storia poteva rivaleggiare con quella dell’antica Grecia e, forse, persino dell’Egitto. Ma sto divagando, non era di questo che volevo parlare.
La prima volta che incontrai Anna fu per caso; più che un incontro il nostro fu uno scontro, una di quelle conoscenze volute dal caso che ti cambiano completamente la vita. Cercavo, in quei giorni, qualcuno con cui passare il tempo che non fosse prettamente un abitante del palazzo; le guide che mi erano state fornite fino a quel momento erano state molto precise e gentili, ma mi avevano condotto solamente in alcuni luoghi, luoghi che erano considerati ameni o piacevoli per la vista, ma che non erano in grado di soddisfare appieno la mia curiosità di turista.
Mi venne addosso mentre giravo un angolo, nessuno dei due aveva visto l’altro e non facemmo in tempo a scostarci; emise un versetto sorpreso prima di cadere all’indietro e lasciar andare il mazzo di fiori che stringeva gelosamente tra le mani. I mughetti candidi si sollevarono per aria, ricadendo in una pioggia leggera sopra di noi, seduti sul selciato polveroso della strada.
«Imbarazzante…» borbottò pensando che non sentissi e correggendosi subito dopo nel notare il mio sguardo stranito «No, non voi… Io sono imbarazzata. Voi siete bellissimo. Aspettate, cosa?!»
Ricordo ancora la sua risata in quel momento, si rialzò senza accettare la mano che le avevo teso e non so davvero se non lo fece perché non se ne accorse o perché non ne aveva bisogno; l’aiutai a raccogliere i fiori, sparsi scompostamente ai nostri piedi, e quando glieli porsi le mie dita sfiorarono le sue e fu in quel momento, quando finalmente parlò, che mi accorsi che la ragazza che avevo di fronte era Europea almeno quanto lo ero io.
«Perdonate la mia goffaggine, non sono solita correre a questo modo per le strade, normalmente» ovviamente non era vero, ma all’epoca non lo sapevo «Mi chiamo Anna, vi siete forse perduto?»
Non so esattamente cosa fu ad attrarmi di lei in quell’istante, forse la carnagione tanto pallida o le lentiggini che con insospettata grazie le coprivano il viso, forse fu il sorriso gentile che mi rivolse o la dolcezza della sua voce, io non lo so. L’unica cosa di cui sono certo è che quel giorno le sorrisi anche io e mi offrii di accompagnarla a casa, preoccupato che potesse attraversare da sola i bassifondi della città.
«Non dovreste preoccuparvi per me, Hans. Questa città è la mia casa, queste sono le strade in cui sono cresciuta e vissuta, niente potrebbe farmi del male».
«Siete nata qui? A Teheran? Non avete l’aspetto della donna Persiana».
«Oh, beh, non sono… Non siamo… Voglio dire, i nostri genitori giunsero qui circa venticinque anni fa, e credo avessero intenzione di tornare in Inghilterra, ma ecco… Morirono che avevo circa quindici anni».
«E non avete mai pensato di tornare?»
«Io e mia sorella, noi siamo nate qui, questa città che per voi è straniera è casa nostra, non saremo ricche, né avremo il prestigio sociale che la nostra famiglia deteneva in patria, ma la verità è che non ci interessa. Siamo felici qui».
Sorrise piano, stringendo a sé il suo piccolo mazzo di mughetti e io pensai a quanto fosse ridicolo quel discorso; se fossero tornate in patria avrebbero potuto vivere una vita ben più dignitosa di quella che conducevano in Persia, avrebbero probabilmente ottenuto maggior credito e sarebbero state in grado di rilevare le proprietà di famiglia. Non riuscivo a capire come fosse possibile che una ragazza bella e apparentemente intelligente come Anna potesse scegliere di vivere isolata dalla società, in uno stato di semi-povertà, per di più in una città inospitale e a prima vista arretrata come Teheran.
Ovviamente non le dissi niente, non in quel momento almeno.
«Pensate che sia possibile» domandai invece «Vedervi ancora?»
Anna scoppiò a ridere e mi indicò una piccola casa di mattoni, dalle cui finestre pendevano vasi ricolmi di fiori colorati.
«Io abito qui, e la nostra porta è sempre aperta per gli amici» disse piano «Potrete venire quando vorrete».
La presi in parola e non mi vergogno di dire che mi approfittai della sua gentilezza e, soprattutto, della sua ingenuità; nelle sue parole non c’erano impliciti inviti e questo lo avevo capito, ma avevo visto in Anna una facile preda, una facile preda dagli occhi celesti e il viso delicato e ne ero rimasto invaghito, senza ancora sapere quanto questo incontro mi avrebbe cambiato.
 
«Parlami ancora di Londra» mi chiedeva Anna, con gli occhi pieni di stupore e le ginocchia raccolte al petto. Era più disinvolta di qualunque ragazza avessi mai incontrato nella mia vita, non badava alle etichette né conosceva le regole del bon ton, ma in fondo non era mai vissuta in Inghilterra e laggiù, tra le vie in cui viveva, queste cose non contavano affatto.
Piegava la testa di lato e chiudeva gli occhi, mentre io le raccontavo del mondo, dell’Europa, delle grandi città che avevo visitato e in cui ero vissuto; Londra, Parigi, Roma, Atene, ogni cosa era alle sue orecchie meravigliosa. Mi ascoltava mentre lavava i panni al fiume, mentre passeggiavamo nelle affollate vie del mercato, mentre inseguiva i bambini nella piazzetta della città bassa; non aveva davvero importanza cosa stesse facendo, lei mi ascoltava e io la seguivo, ammirandola non poi così segretamente.
Era trascorso solamente un mese dalla prima volta che ci eravamo incontrati quando trovai l’ardire di baciarla; le passai un braccio lungo la vita sottile, attirandola a me e mai il corpo di una donna era stato così vicino al mio, nemmeno durante un ballo. Trattenne il respiro e arrossì leggermente, senza però distogliere il viso e fu in quel momento che mi resi conto che avrei potuto dirle qualsiasi cosa e lei ci avrebbe creduto; quando il bacio finì, Anna mi appoggiò una mano sul petto e strinse tra le dita sottili la stoffa della mia divisa, ridacchiando sommessamente.
«Lo trovi divertente?»
«No, è solo che ho sempre creduto nel destino e quando avevo iniziato a pensare che fossero tutte scemenze e che fossi rimasta troppo influenzata dal lavoro di mia sorella, ecco che sei apparso tu e ora questo. Io, ecco, credo solo di essere felice».
Risi con lei, accarezzandole i capelli, continuando a pensare dentro di me a quanto fosse ingenua perché, io lo sapevo molto bene, le coincidenze non esistevano e l’unico avvenimento casuale era stato il nostro incontro, tutto quello che era accaduto dopo non era stato altro che frutto di un mio insieme di atteggiamenti studiati ad arte.
«Per molto tempo ho creduto di essere rimasta ferma nel tempo, qui in questa città che era la mia casa, in attesa di qualcosa. Ora so che aspettavo te».
Mi piaceva Anna, mi piaceva molto, ma non avevo (non ancora) nessuna intenzione seria nei suoi confronti; quello che volevo era ciò che ogni uomo, soprattutto se giovane e prestante, ricerca in una donna: divertimento senza impegno e calore.
Il suo sorriso e la sua personalità delicata non erano che un incentivo e mi ci volle ancora qualche settimana per realizzare che stavo iniziando ad affezionarmi a lei più di quanto non avessi programmato all’inizio.
Ero partito da casa con grandi progetti e con la consapevolezza che, essendo l’ultimo di tredici figli, non avrei mai potuto sperare di avere una posizione di prestigio né tantomeno di ereditare il titolo di famiglia; la carriera militare era stata l’unica valida alternativa e mi ci ero fiondato a capofitto, cercando di non pensare a tutto ciò che sarei voluto essere e che non sarei mai potuto diventare. In questo i miei fratelli non erano certo stati benevoli e non era mancata occasione in cui non mi avessero fatto notare l’ininfluenza della mia persona e le fioche possibilità di successo che si aprivano di fronte a me. Ma quando conobbi Anna, senza rendermene conto, mi trovai di fronte a qualcuno che credeva ciecamente in me e nelle mie capacità, una persona che si fidava e viveva con la consapevolezza che sarei potuto diventare chiunque avessi voluto e avrei potuto fare tutto ciò che avessi sognato.
«Io credo in te, Hans Westergard, più che in qualsiasi altra cosa».
La sua voce giungeva morbida alle mie orecchie, mentre i suoi capelli arancioni mi sfioravano le spalle e la linea nuda della sua schiena veniva illuminata dagli ultimi tiepidi raggi di sole della giornata. Ogni volta che mi parlava così mi chinavo su di lei e stringendo tra le braccia il suo corpo nudo la avvicinavo a me, affondando il viso nel suo collo, baciandole il viso e il seno, finché non ricominciavamo a fare l’amore, come se al mondo non esistesse niente altro oltre noi.
A volte il dovere ci richiamava all’ordine, ma i miei doveri erano pochi e si riflettevano principalmente negli omaggi e nel tempo che dedicavo alla famiglia reale; Anna, d’altra parte, aveva una vita da mandare avanti e una sorella a cui doveva rispondere. Continuava a lavorare con i bambini, ignorando i pettegolezzi che iniziavano a girare sul suo conto; agli occhi più attenti non era sfuggito il tempo che trascorrevamo assieme e in molti cominciavano oramai a parlare, giudicando il suo atteggiamento disdicevole. La sua stessa sorella aveva iniziato a rivolgerle sguardi penetranti, che Anna coglieva ogni qual volta Elsa credeva non prestasse attenzione. Razionalmente sapeva che era solo preoccupazione, ma aveva la spiacevole sensazione di venire giudicata da qualcuno che, in tutto quell’insieme di persone che si prendevano la libertà di fare del moralismo su come conduceva la sua vita, avrebbe dovuto appoggiarla.
«Non sai davvero chi sia» le diceva spesso, Elsa «E se ti stesse prendendo in giro? Oh, Anna, cosa faresti in quel caso!?»
Nel profondo del mio cuore non mi sentivo di darle torto, sapevo che la nostra relazione (completamente inappropriata sotto ogni punto di vista) era iniziata esattamente con quell’intento, ma oramai mi ero spinto troppo oltre per potermi limitare a classificarla come semplice gioco. Ero fin troppo consapevole dei sentimenti che avevo sviluppato nei confronti di Anna, così come ero consapevole di tutto ciò che continuava a dividerci: a cominciare dal rango, continuando con le umili origini, per finire con la parentela discutibile.
La verità era che non mi importava.
Avrei sposato Anna anche il giorno successivo, ignorando il nome della sua famiglia e ciò che avrebbe potuto dire la mia nel venire a conoscenza di un’unione così affrettata e disdicevole, ma, quando glielo proposi, stringendola a me in una notte di luna piena, Anna scoppiò a ridere e scosse la testa.
«È molto tempo oramai che sono convinta che il nostro incontro sia stato frutto del destino, dentro di me vivo con la consapevolezza che questa non sia la prima volta che ci incontriamo. Forse non in questa vita, forse non in questo secolo, ma sappiamo entrambi che questa non è la prima volta, o forse lo è, a suo modo. È la prima volta in cui mi sento di dirti che non ho intenzione di sposarti. Siamo onesti, non ho mai creduto, nemmeno per un attimo, che sarebbe stata una cosa fattibile, sebbene non esista niente altro che desideri di più, ma sono ben consapevole della mia posizione e del mio ruolo in questa città».
Fu la prima volta che il mio cuore si spezzò, o forse, col senno di poi, in quel momento furono solo il mio ego e la mia logica a subire un duro colpo: il primo perché nessuna donna mi aveva mai rifiutato e non mi sarei mai e poi mai aspettato che a farlo fosse l’unica di cui mi ero davvero innamorato e che sapevo provare nei miei confronti sentimenti altrettanto forti; il secondo perché mi rendevo conto che Anna, che avevo giudicato ingenua e a tratti frivola, era stata in grado di mantenersi lucida anche di fronte a una proposta di quel genere.
«Cosa vorresti fare allora?» le avevo domandato, con il cuore ricolmo di incertezza, improvvisamente incapace di prendere in mano ciò che mi trovavo di fronte, improvvisamente incapace di gestire quella situazione in cui mi ero andato a infilare da solo.
Anna aveva sorriso e mi aveva baciato con la delicatezza che le era propria, senza mai distogliere i suoi occhi dai miei, e non aveva risposto.
Quella notte, come molte altre prima di allora (e troppo poche in seguito), si era svegliata, turbata dal mio sonno agitato; aveva vegliato su di me, accarezzandomi i capelli e risvegliandomi dai miei incubi, impedendo loro di afferrarmi come ombre scure. Le avevo già raccontato dei miei fratelli e della mia famiglia, nonostante per lei fosse difficile accettare che delle persone che mi stavano così vicine potessero davvero vedermi in modo così mediocre e distaccato; per lei era inconcepibile, nonostante i problemi che poteva avere con sua sorella, più fredda e riservata di quanto avrebbe desiderato ogni tanto, che due fratelli (che tredici fratelli) potessero odiarsi a tal punto. Le parlai della grande casa in cui ero cresciuto, di come sognavo di vagare per quelle stanze vuote senza mai trovare nessuno, con l’angosciante consapevolezza di essere stato lasciato indietro, di essere stato lasciato da solo; le raccontai del mio disperato tentativo di raggiungere i miei genitori, di ottenere un segno di approvazione da parte loro e degli sguardi di fredda delusione che mi rivolgevano ogni notte nei miei sogni inquieti.
Anna mi baciava gli occhi e la fronte, mi baciava le labbra e mi accarezzava i capelli e mi sussurrava all’orecchio: «Non era che un sogno Hans, non puoi temere per sempre un mondo che ti sei lasciato alle spalle».
Imparai ben presto che il mondo di cui dovevo avere paura era sempre accanto a me, mi circondava ogni giorno, e il mostro più terribile era l’uomo stesso con la sua indifferenza, le sue superstizioni insensate e le sue paure ignoranti.
 
 
You took me by the hand
I thought that I was leading you
But it was you made me your man
Machine
I dream
Where you are
Iris standing in the hall
She tells me I can do it all
Iris wakes to my nightmares
Don’t fear the world it isn’t there
Iris – U2
 
 
Finì tutto il giorno in cui Elsa ghiacciò la città.
Quello fu il giorno in cui il mio piccolo mondo andò in pezzi, il castello di carte che mi ero costruito crollò davanti ai miei occhi e il mio cuore si spezzò, questa volta senza possibilità di ricovero alcuno.
Non so dire con esattezza cosa fu a spingerla all’ira, né cosa la condusse proprio quel dì ad uscire di casa senza i suoi guanti; forse qualcuno la molestò, forse vide qualcosa che scatenò in lei una furia cieca, forse, semplicemente, decise che non aveva più intenzione di rimanere nascosta. Fatto sta che, quando Elsa uscì di casa, quell’afosa mattina di Agosto, perse il controllo e ciò che per anni aveva tentato di nascondere al mondo e a sua sorella si riversò come un fiume in piena su Teheran.
Ci volle così poco, una volta che il suo potere si manifestò, perché ne perdesse il controllo, uno sguardo spaventato, le grida dei cittadini che l’additavano come mostro, l’accusa di stregoneria; Elsa prese a fuggire, nemmeno Anna, con le sue gambe snelle riuscì a seguirla, scivolando sulla spessa lastra di ghiaccio che la sorella lasciava dietro di sé, ad ogni passo.
Fu il caos.
Laggiù, all’orizzonte del mondo, ultima costa di Persia, ai piedi dei monti Elburz, venne a galla uno dei grandi segreti dell’uomo, che messo a prova di fronte alla presenza di fatti inspiegabili, si trincerò dietro alle sue paure e scelse di epurare quella che ai suoi occhi non era che una minaccia senza senso, un abominio mostruoso che sovvertiva le regole della scienza e i principi di qualsiasi religione. Oh sangue indemoniato, carico d’odio divino, oh universo di lacrime, oh sangue scarlatto che nutri la terra, così si abbatterono le mani assassine su quella minuta figura e a nulla valsero le urla di Anna e i suoi tentativi di fermare quegli stessi cittadini che il giorno prima la guardavano con affetto chiamandola sorella, a nulla valsero le sue unghie spezzate e le lacrime amare che scivolarono svelte sul suo viso ghiacciato.
Elsa cadde riversa sulla terra rossa e i suoi biondi capelli si macchiarono di sangue vermiglio. Non osai, in quel momento, lasciar andare il respiro di sollievo che avevo trattenuto nel profondo; la vista di Anna, distrutta da quella morte, feriva il mio cuore più di ogni altra cosa. E non riuscii mai a trovare il coraggio per tentare anche solo di spiegarle quali sentimenti avssero mosso la folla, sebbene nel mio cuore riuscissi a capirli, pur non potendo approvare l’esito della loro follia.
Il ghiaccio si disciolse nel momento stesso in cui Elsa emise l’ultimo respiro e, in quel momento, sono ancora oggi convinto, Anna abbandonò la vita.
«Fatevi forti, cittadini, Teheran nostra è salva, crollò il mostro dal gelido soffio che minacciava con aria infingarda le mura della nostra città. Teheran naviga in pace, tra gli schiaffi dell’abisso agitato, non si gelò nel freddo gelo la chiglia; il suo stesso maledetto destino condusse la strega ad un nodo di morte, il suo maledetto destino disperde quel sangue sinistro. Quindi gioite in questo giorno di festa e che la sua carne morta e le sue ossa fredde siano scagliate fuori dalla città. Senza fossa, straziato dagli animali e dalle intemperie, tanto spetta al mostro dal fiato di ghiaccio» così parlò l’araldo del principe e a nulla valsero le urla strazianti di Anna.
I suoi occhi gonfi di pianto e velati di lacrime mandavano lampi, i suoi capelli erano arruffati e scomposti e le sue mani sporche del sangue di sua sorella, tuttavia mai la trovai più bella e fiera di quando, in quel momento, si alzò in piedi e fissò il banditore con occhi di ghiaccio.
«Se anche nessuno fosse disposto a dare una degna sepoltura a mia sorella, se anche l’intero esercito dovesse frapporsi fra noi, io lo farò. Sfiderò questo rischio di inumare il sangue del mio sangue e non ho paura di quello che potrebbe aspettarmi. Non sfamerà mai la sua carne gole abissali di lupi. Non fateci conto. Tumulo, funebre fossa per lei: scoverò io, come fare. Sono donna, che importa? Userò il lembo del peplo di velo. Sono sola, ma l’avvolgerò. L’ardire avrà dalla sua espediente efficace».
Non le diede retta, in quel momento, l’emissario del re e forse fu meglio così, se l’avessero arrestata allora cosa ne sarebbe stato di lei? Preferisco non pensare a come si sarebbe consumata e, forse, addirittura spenta. In ogni caso non fu benigna con noi la sorte e vane furono le mie preghiere al principe.
«Vi prego, Maestà, cercate di capire! Era sua sorella».
Il sovrano mi guardò con aria indulgente e, con fare amichevole, mi diede una leggera pacca sulla spalla.
«Era un mostro, giovane Westergard, e col tempo imparerete che dei mostri non bisogna avere pietà».
«Forse avete ragione e non mi sento di darvi torto, non del tutto, ma era anche sua sorella e Anna ha il diritto di seppellirla, di piangerla. Vi prego».
«Non capisco come mai vi diate così tanto da fare per una come lei, Westergard. Ma vi assicuro che anche se fosse la figlia di mio fratello, la risposta sarebbe comunque no. Non insudiceremo la terra con un simile abominio, né lascerò che venga bruciata e il suo fetore insozzi il cielo. Nessun dio, né il nostro Allah, né il vostro Gesù approverebbero che una simile empietà macchi ulteriormente la terra».
Non ci fu verso di convincerlo, ma non sono davvero sicuro di avere fatto tutto il possibile; nel profondo del mio cuore ero convinto che avesse ragione e quando me ne resi conto, anni dopo, capii che non avrei mai perdonato me stesso.
Quella fu l’ultima sera che trascorsi con Anna.
Stretta tra le mie braccia, in un pianto silenzioso, fissava un cielo senza stelle. Il suo respiro affannato e stanco e le borse scure sotto gli occhi gonfi rimanevano a indicare quanto quella giornata l’avesse provata; tra i capelli, una ciocca era diventata completamente bianca, e in quel momento pendeva di fonte al suo viso, mossa da un vento leggero. Represse un brivido, prima di mormorare piano: «Non ti chiederò di venire con me, ma sappi, Hans, che ti avrei seguito ovunque».
«Hai davvero intenzione di seppellirla, non è così?»
«È mia sorella, non tua, e non si dica mai che io l’abbia tradita per paura dello stato o di una legge emessa da uomini vuoti».
«Anna, è un divieto emesso direttamente dal Re…»
«Fosse anche emesso da un imperatore, a me non importa. Esistono leggi non scritte, leggi di Dio che impongono il rispetto dei morti. Non ho padre, né madre, non più, ma Elsa è stata per me entrambe le cose, che sorella sarei se ora la lasciassi insepolta? Se non cantassi per lei un lamento di morte?»
Non sapevo cosa rispondere e tacqui, per la prima volta in quei suoi occhi azzurri vidi un barlume di delusione; non delusione perché non l’avrei aiutata, no, questo mai, Anna non avrebbe mai pensato male di me per ciò che non potevo o non volevo fare, ma delusione perché in quell’istante si accorse che non riuscivo a capire.
«Ci sono cose, Hans» mi sussurrò piano, accarezzandomi il volto «Che vanno fatte nonostante tutti ti dicano l’opposto; ci sono decisioni che dobbiamo prendere con il cuore e non con la mente; decisioni che la società non approva perché ne infrangono le regole o non riflettono ciò che gli altri si aspettano da noi. Non posso fermarmi adesso, non ho paura della morte, né di gridare al mondo che quella era mia sorella. Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore».
Repressi la tentazione di chiederle di fuggire, di scappare con me verso lidi lontani, al riparo da quella terra cosparsa di sangue e dolore, non lo feci e mi limitai a guardarla, preoccupato ed innamorato, timoroso di domandarle, ancora una volta, se avrebbe voluto sposarmi. Ora so che avrebbe detto di sì, ma nessuno di noi disse nulla, ben sapendo che le successive ventiquattrore avrebbero deciso il destino di entrambi.
Quando mi svegliai, quella mattina, Anna non era più tra le mie braccia e io seppi, con l’inquietante consapevolezza di chi ama, che non l’avrei stretta mai più.
Fu il principe stesso a chiamarmi, mi convocò a palazzo tramite un messo; là nella sala del trono stava Anna, in piedi, avvolta in misere vesti e sporca di terra. Mi dissero che due volte si era avvicinata al cadavere, due volte lo aveva coperto di sabbia e aveva cantato per lei, solo alla terza era stata scoperta, quando un soffio di vento più forte degli altri aveva rivelato ai soldati la sua posizione. Non si era ribellata e non aveva cercato di fuggire, né aveva cercato di negare le sue azioni; era rimasta lì, ferma, immobile, a osservare con sguardo spento il corpo dell’ultima componente di quella che era stata la sua famiglia.
«Verrai fucilata per questo».
«Ne sono consapevole».
«Sapevi dunque dell’editto che io stesso emanai?»
«Certo, sapevo. Ma non ho lasciato che il divieto imposto da colui che non è che un uomo mi impedisse di onorare la morte di colei che chiamo sorella. Morirò prima del tempo, lo so» mi rivolse uno sguardo mesto, non supplicò, non chiese perdono, si limitò a continuare a guardarmi mentre le unghie sottili delle sue dita affondavano nel palmo «Lo sapevo da subito e non ho paura».
La ricordo così, in piedi di fronte a me, sporca di terra e sudore, i capelli scomposti e lo sguardo di fuoco, mentre le sue labbra scandiscono piano un ti amo lontano, una promessa sbiadita che il tempo, però, non è riuscito a cancellare. La fucilarono a mezzogiorno, nella piazza principale della città e il suo corpo rimase per qualche secondo immobile, inchiodato dai proiettili contro la parete di pietra, prima di cascare a terra, privo di vita. Piansero quel giorno gli abitanti di Teheran, nell’acquisizione della lenta consapevolezza delle loro azioni, nel cordoglio e nel dolore dovuti alla morte di quella ragazza innocente che aveva allietato i loro pomeriggi oziosi.
Ad ogni azione segue una reazione uguale e contraria, ma se Anna aveva con cognizione di causa valutato le conseguenze dei suoi gesti, lo stesso non avevano fatto i membri di quella folla invasata nello scagliarsi contro Elsa per lapidarla, senza mostrarle alcuna pietà. E ora portavano quel peso nel cuore e nell’animo e io sperai, e spero tuttora, che il ricordo di quelle morti li perseguiti e che quella vista orribile infesti i loro incubi come Anna torna a farmi visita nei miei.
 
 
Iris playing on the strand
She buries the boy beneath the sand
Iris says that I will be the death of her
It was not me
Free yourself, to be yourself if only you could see yourself
Free yourself, to be yourself if only you could see…
Iris – U2
 
 
Mi sovviene ancora, alle volte, quella sua risata argentea e lo scintillio eccitato dei suoi occhi celesti, mentre, dopo una notte di follie e di amore, mi abbracciava felice, dicendomi: «Se continui così mi ucciderai, Hans».
Ma, alla fine, non fu il nostro amore a ucciderla, no, non fui io.
Avevo perduto Anna e con lei una parte di me si spense per sempre, la prima donna che avevo amato con tutto me stesso mi era scivolata tra le mani senza che potessi far nulla per impedirlo. Mi ritrovai a dover crescere senza averlo chiesto e fuggii: fuggii da Teheran, fuggii dall’oriente e decisi che non avrei mai più rimesso piede in quel luogo. Nei miei viaggi attorno al mondo, capii quanto fossi simile a quella folla e diverso dall’uomo che Anna aveva visto in me, così decisi di diventarlo e se ora sono la persona rispettabile che tutti ammirano è solo grazie a lei e alla fiducia cieca che ripose in me durante quei giorni felici. Credevo di essere io a guidarla, ma mi sbagliavo, per mesi fu lei a condurmi verso una meta che non riuscivo a vedere, fu lei a prendermi per mano e insegnarmi ad amare, a confrontarmi con la vita e con la morte.
Mi chiedo se le cose sarebbero andate diversamente se allora fossi stato l’uomo che sono oggi, ma la verità è che il destino degli esseri umani è fisso e immutabile, così come lo è la loro anima nera e so che nulla sarebbe cambiato. Da qualche parte, dentro di me, Anna continua a vivere, anche se la mia vita, così come il mondo, è andata avanti e io ho incontrato altre donne e ho amato altre donne e ho vissuto fino ad oggi. Ma nessuna, nessuna è mai stata come lei: Anna che mi chiama amore, Anna che danza scalza sul greto del fiume, Anna che scivola fuori dalle coperte e riflette la luce del sole sul suo corpo nudo. Nessuna fu mai come lei, nessuna amai come lei e, anche ora che sono vecchio e sento la morte avvicinarsi a passo leggero, non ho paura, perché dentro di me vive la bruciante consapevolezza che ci incontreremo ancora, in un giorno di primavera, scontrandoci senza prestare attenzione sotto una pioggia di fiori candidi.



 

 
   
 
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