Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Ricorda la storia  |      
Autore: Letsneko_chan    28/09/2015    1 recensioni
[Historical!AU, Teutoburgo!AU]
[Human!RomanEmpirexHuman!GermaniaMagna]
Settembre 9 d.C, foresta di Teutoburgo. Data e luogo di una delle peggiori onte che Roma potesse ricevere. Ma è solo l'impero romano quello a venire sconfitto?
«Homo nascitur ut suum fatum prodeat» gli disse il romano. Ariovisto come sempre non ne capì il significato.
«Il fato non si può ingannare».
«Io dico di sì! Ed è ciò che ho insegnato ai miei nipoti».
Ariovisto scosse la testa poco convinto e Romolo rise, stringendolo a sé mentre gli affondi si facevano rapidi e scoordinati. Poco dopo giacevano entrambi ansimanti sullo scomodo pavimento della casa di Ariovisto.
«Tu sogni troppo, Romolo».
Yeah, they still say I'm a dreamer.
Genere: Angst, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Antica Roma, Germania Magna
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Homo natus est ut fatum suus prodeat
 
Get out your guns, battles begun,
are you a saint, or a sinner?
If love’s a fight, than I shall die,
with my heart on a trigger.
 
 
C'era nebbia.
Ancora una volta, la foresta aveva assunto toni quasi spettrali: gli alberi sembravano fantasmi che sbucavano dalla foschia.
E mentre Ariovisto si dirigeva verso il luogo della strage, seguendo a ritroso il percorso che la sua tribù aveva fatto dopo la battaglia, si sentì pervadere dalla tristezza. Estrasse la spada dal fodero, osservando distrattamente la lama ripulita dal sangue nemico: su di essa non c’era traccia di morte, ma nel suo animo sì. Non riusciva a dimenticare i giorni precedenti né gli avvenimenti che li avevano anticipati: meglio la morte, aveva pensato nelle ore seguenti alla battaglia, chiuso in un triste silenzio.
Era stato insieme spettatore e autore di una delle onte peggiori che potessero capitare alla grandezza di Roma.
Quelle legioni – la XVII, la XVIII e la XIX – erano state annientate: Arminio le aveva prese in trappola e Roma si ritrovava ora a convivere con un'enorme vergogna.
Un altro grave disonore gravava su quelli – pochi – che erano fuggiti: lo stesso Varo, vedendosi sconfitto, aveva preferito darsi la morte. I prigionieri erano già stati sacrificati alle divinità dei Germani o attendevano che le famiglie pagassero il riscatto o che fossero venduti come schiavi.
Ma loro no: erano scappati al loro destino, avevano ingannato la morte. Ma tra loro, lui non c’era.
«Homo nascitur ut suum fatum prodeat1» .
Spesso Romolo diceva quella frase ai suoi nipoti, invitandoli a combattere per percorrere una strada diversa da quella che il fato aveva tracciato per loro. Eppure lui quella strada non la imboccò: cadde in trappola, ingannato dal fato e da Arminio. Ma nella trappola letale, quella del destino, non era caduto da solo: aveva trascinato con sé Ariovisto.
E il germanico lo sapeva, ne era ben consapevole, ma, nonostante ciò, non aveva fatto niente per opporsi.
Romolo lo disse chiaramente, promettendogli che un giorno, nell’aldilà, in qualsiasi modo i loro destini si sarebbero divisi, lui l’avrebbe perdonato.
E forse quella, seppur vaga, promessa di perdono era stata rappresentata da quell'ultimo sorriso di Romolo.
Lui, che portava lo stesso nome del fondatore di Roma, in punto di morte, incapace di liberarsi dalla spada che lo aveva trafitto e inchiodato all'albero, aveva sorriso al suo uccisore.
Sul volto coperto di sangue, teso a causa degli ultimi spasmi di vita, si era disteso un sorriso.
Ariovisto strinse i pugni, fermandosi dietro un albero: si sentiva turbato, non riusciva a togliersi dalla mente lo scenario che si era presentato davanti ai suoi occhi durante e dopo la battaglia. Erano passati a mala pena due giorni, ma per lui erano anche troppi.
Si allontanò di pochi passi, cercando un albero ben preciso: sulla corteccia era inviso l’estremo saluto romano.
Ave atque vale.2
Alla base del tronco giaceva un corpo, ma Ariovisto sapeva fin troppo bene a chi apparteneva.
 
They say before you start a war,
you better know what you're fighting for.
Well baby, you are all that I adore,
if love is what you need, a soldier I will be.
 
 
Aveva combattuto contro i Romani e aveva vinto, era vero, ma dentro di sé stava combattendo una battaglia che non era sicuro di poter sostenere e vincere.
E soprattutto non sapeva per cosa stava combattendo: incapace già da prima di scegliere tra l'amore per la patria e quello per Romolo, inizialmente si era affidato al primo, rendendosi conto solo quando ormai era troppo tardi quanto avesse sbagliato. 
Quell'albero sarebbe stato la misera tomba di Romolo finché non avrebbe avuto degna sepoltura.
Voleva salutare Romolo da solo almeno un'ultima volta. Tuttavia, sapeva benissimo che, finché un romano non si fosse aggirato nei paraggi, i caduti nella battaglia di Teutoburgo non avrebbero avuto pace nella morte.
E potevano passare anni prima che accadesse.
Tutt’intorno a lui vi erano cadaveri: appesantiti dalle armi, rese scivolose dalla pioggia che era caduta continua durante tutti e tre i giorni della battaglia, i Romani avevano cercato di difendersi in ogni modo. Si erano battuti con valore, preferendo darsi la morte piuttosto che essere catturati. E Ariovisto lo sapeva bene: lui stesso aveva visto soldati trafiggersi con la spada non appena si erano visti perduti.
S’inginocchiò accanto al corpo, accarezzandogli una guancia ormai sbiancata. Era ancora coperto di sangue, la spada stretta nella mano.
 
And I want to live, not just survive
 
Si ricordò anche di quando romani e tribù germaniche andavano d'accordo: era strano pensare che appena pochi giorni prima della battaglia, Arminio militasse nell'esercito romano e nelle città l'aria non fosse tesa.
Talvolta, la sera, soldati romani e guerrieri delle tribù, si ritrovavano a bere allo stesso tavolo della locanda e poi intonavano in seguito vecchie canzonacce.
Fu proprio in una di quelle sere – ormai era passato quasi un mese da quando si erano incontrati - che per Ariovisto tutto cambiò.
E se solo tutto fosse successo prima, probabilmente Ariovisto non rimpiangerebbe così tanto quella sola notte passata con Romolo.
Non sarebbe nemmeno irato con se stesso per aver permesso al destino di giocare con la sua vita.
Se la ricordava bene quella sera, il germanico, nonostante l'ubriacatura: pioveva e lui era entrato, da solo, in quella locanda con la speranza di trovare un minimo riparo dalla pioggia. Il mantello verde e la tunica leggera erano impregnati d’acqua e nemmeno gli stivali erano riuscito a proteggerlo più di tanto dall’acquazzone. E dire che lui odiava i vestiti bagnati appiccicati sulla pelle.
Si era guardato intorno, nella speranza di vedere qualche compagno d'armi, ma le sue speranze non furono accontentate. A quanto pareva, quella sera il destino aveva voluto tirargli un brutto scherzo: Romolo, già piuttosto ubriaco, l'aveva afferrato per un braccio e trascinato accanto a sé.
Il romano indossava una semplice tunica bianca e un mantello rosso, ai piedi i soliti sandali: “Ma non sente freddo, quello stupido?” si chiese il germanico, guardandolo storto. Come risposta ricevette un sorriso da parte di Romolo.
Lo conosceva bene, dapprima grazie a qualche parola scambiata per caso, poi i loro incontri al limitare del bosco si erano fatti più frequenti, diventando presto un’abitudine e Ariovisto, da qualche tempo sentiva una strana attrazione verso il romano e più volte si era immaginato di essere posseduto da quel romano.
Solo il pensiero che l'altro aveva famiglia – sapeva che a Roma era atteso dalla moglie e da due nipoti – gli aveva impedito di chiederglielo apertamente.
Per qualche strano motivo, Romolo sorrideva sempre, preoccupandosi il minimo per qualsiasi cosa e ciò dava non poco fastidio ad Ariovisto che tendeva sempre a vedere la realtà così com'era. Se alcune volte si era ritrovato a pensare a lui con un certo desiderio, altre aveva ruotato gli occhi cercando di reprimere l'impulso di strozzarlo.
Anche lui pensava di arrivare agli accampamento invernali in tutta sicurezza.
Ma quella sera, per Ariovisto, tutto cambiò: dopo qualche ora – nemmeno lui sapeva quanto tempo aveva passato e quanto aveva bevuto con Romolo – si era alzato barcollante e ubriaco, dopo aver deciso, in un attimo di sobria lucidità, che era giunto il momento di andare a casa per smaltire l’ennesima ubriacatura.
In quei tempi morti, in cui i Romani cercavano di integrarsi con le popolazioni germaniche, non riusciva a trovare distrazioni, se non il bere.
Vedendolo alzarsi, Romolo l’aveva seguito, crollandogli addosso non appena Ariovisto raggiunse la porta e rischiando di far cadere entrambi a terra.
Con suo grande fastidio, il romano scoppiò a ridere, biascicando poi frasi in un latino sconnesso. Ariovisto, sospirando e pensando che quel gesto gli sarebbe costato caro nei giorni a venire, lo aiutò a uscire dalla locanda, trascinandolo poi alla bene e meglio nella propria casa.
Non appena lo lasciò cadere in un angolo Romolo rise.
Di nuovo, la sua risata calda raggiunse le orecchie del germanico che si convinse di aver fatto la stupidaggine più grande della sua vita portandosi a casa un uomo, romano e ubriaco. E non un uomo qualsiasi. Romolo, discendente di una qualche famiglia nobile che lui si era scordato dopo poco che il romano gliel'aveva detto.
Si mise una mano sulla fronte, scuotendo poi la testa. Romolo biascicò qualche parola che Ariovisto non intese – o fece finta di non capire.
Quando tese un braccio per aiutarlo a rialzarsi, Romolo lo afferrò e, in quello che sembrava un attimo di lucidità, lo trascinò a terra, bloccandolo con il proprio corpo.
Ariovisto fece per scrollarselo di dosso, ma il romano non sembrò della sua idea.
Affondò una mano nei suoi capelli biondi intrecciando una ciocca intorno al dito.
«Semper mihi necessite fuit tibi, Arioviste3» gli sussurrò Romolo all'orecchio prima di baciarlo con foga.
Sapevano di vino e lussuria, le sue labbra.
E Ariovisto, che con il tempo aveva finito per conoscere quel romano meglio di chiunque altro e si era ritrovato spesso a pensare a lui in modi fin troppo poco casti, vide concretizzarsi in quel contatto i sogni che non aveva osato raccontare nemmeno a se stesso.
Quando Romolo si staccò, un rivolo di saliva li continuava a unire. Si guardarono un attimo negli occhi e Ariovisto notò che una strana dolcezza illuminava i suoi occhi marroni.
Da parte sua, invece, Romolo cercava nelle iridi verdi del germanico una qualche scintilla d'esitazione. I suoi dubbi svanirono nel momento stesso in cui fu lo stesso Ariovisto a prendergli il viso tra le mani per baciarlo nuovamente.
Non cercavano la dolcezza e i movimenti esprimevano tutto il loro bisogno nascosto da giorni.
Da quando l'aveva incontrato, Romolo non riusciva a togliersi dalla mente il pensiero di fare suo – e solo suo – Ariovisto.
E quella sera aveva forse trovato il modo per realizzare il suo sogno: erano entrambi piuttosto ubriachi da riuscire a mettere da parte dei e superstizioni e calpestare le mentalità e le stirpi così diverse tra loro.
Lasciò che Ariovisto gli tirasse i capelli, ma senza fargli male, che giocasse distrattamente con quello strano ricciolo ribelle sulla fronte e che fosse lui a condurre la danza che le loro lingue avevano intrapreso.
D'altra parte sapevano entrambi che quello Romolo avrebbe avuto il pieno controllo di quello che sarebbe seguito, una volta che le loro vesti sarebbero state gettate in un angolo.
Fu mentre Romolo trascinava entrambi verso l'oblio che Ariovisto sentì per l'ennesima volta quella frase.
«Homo nascitur ut suum fatum prodeat1» gli disse il romano. Ariovisto come sempre non ne capì il significato.
«Il fato non si può ingannare».
«Io dico di sì! Ed è ciò che ho insegnato ai miei nipoti».
Ariovisto scosse la testa poco convinto e Romolo rise, stringendolo a sé mentre gli affondi si facevano rapidi e scoordinati. Poco dopo giacevano entrambi ansimanti sullo scomodo pavimento della casa di Ariovisto.
«Tu sogni troppo, Romolo».
 
Yeah, they still say I'm a dreamer.
 
Il romano non sembrava intenzionato ad andarsene: Ariovisto lo fulminò con lo sguardo non appena quello si buttò sul suo letto, facendogli cenno di distendersi accanto a lui.
A quanto pareva, Romolo era un ottimo attore. O forse reggeva davvero bene il vino, se dopo aver bevuto così tanto, appariva quasi normale. O forse era Ariovisto ad aver bevuto troppo e l'ubriachezza lo portava a immaginarsi cose troppo surreali per essere vere.
Romolo gli accarezzò i capelli, stringendolo a sé; Ariovisto chiuse gli occhi, lasciando che l'altro lo coccolasse un po'.
Romolo gli baciò la fronte.
«Domani parto. Varo vuole raggiungere gli accampamenti invernali».
No, non aveva bevuto troppo: quella era la realtà e come tale faceva male.
A quelle parole Ariovisto si sentì morire.
Combattuto tra il dire alla persona che aveva ormai capito di amare ciò che Arminio – che covava così tanto rancore per quel governatore che trattava i germani come sudditi di Roma – progettava per loro o tra il nascondere il tutto e lasciare che gli eventi seguissero il loro corso, scelse la seconda. Con la faccia priva di emozioni che era solito avere - anche da ubriaco non cambiava poi tanto - gli dette le spalle: se credeva veramente in quella frase, avrebbe ingannato il destino. E, come gli aveva detto poco prima, Romolo non voleva sopravvivere alle battaglie. Voleva vivere, vivere libero con lui.
E Ariovisto gli aveva dato dello stupido, del sognatore, senza rendersi però conto che anche lui ci credeva a quei pensieri folli.
Senza curarsi delle parole del romano, parole che riguardavo qualche pazzia, Ariovisto chiuse gli occhi, cercando di ignorare il fatto che presto avrebbe dovuto estrarre la spada e combattere contro Roma e contro Romolo.
Ed era sicuro che avrebbe dovuto combattere finché la battaglia non sarebbe stata vinta.
Prima di addormentarsi sentì chiaramente le braccia di Romolo stringerlo più forte e le sue labbra posarsi sul collo.
«Inganneremmo il nostro destino, Arioviste4».
Ma il germanico, per la prima volta, pensò che forse era stato tutto uno sbaglio: per quanto bellissimo, era pur sempre uno sbaglio.
Quando Ariovisto si svegliò, subito capì che Romolo se n'era andato: la zona in cui il romano aveva dormito era fredda.
Si rivestì in fretta, scuotendo poi la testa.
Sapeva che la sua – la loro – guerra contro il destino era già persa. Romolo sembrava così convinto del fatto che potessero ingannare gli dei, che potessero vivere in un mondo perfetto.
Eppure le prove del fatto che non potevano, che non ci sarebbero mai riusciti erano tante ed erano tangibili.
Appartenevano a mondi differenti, che non potevano mescolarsi.
Eppure, Romolo ci credeva: gli aveva detto che sarebbe stato più disposto a combattere per lui che per Roma.
 
I'll throw away my faith, babe, just to keep you safe.
 
Avrebbe messo da parte patria e famiglia pur di stargli accanto, di tentare quell'impresa di unire mondi così diversi tra loro.
Ma Romolo era certo che l'illusione fosse realtà quanto Ariovisto non se ne rendeva conto.
Il sogno era divenuto realtà, coinvolgendoli e abbracciandoli da ogni parte, senza dare loro possibilità di uscita.
Non potevano tornare indietro: le trappole del destino si erano chiuse su di loro, togliendo ogni possibilità di fuga.
Avrebbero potuto ingannarlo, sì: ma per quanto l'inganno avrebbe retto? Per quanto si sarebbero illusi?
La loro felicità si sarebbe presto frantumata. E in quel momento rimediare agli errori non sarebbe stato più possibile. Per Ariovisto, Romolo era diventato il suo tutto: li sembrava che niente avesse senso senza di lui. E il germanico sperava davvero che fosse così anche per lui: il comportamento di Romolo, voluttuoso e libero, sembrava far presagire il contrario; tuttavia, proprio nella serata – di pioggia – delle Calendae5, Romolo gliel’aveva detto. E Ariovisto quelle parole le aveva impresse nell’animo mentre Romolo lo baciava con foga, quasi a imprimergli con forza nella mente quelle parole.
 
Don't you know you're everything I have?
 
***
 
C'era nebbia.
Come sempre d'altra parte. E in quelle giornate Teutoburgo sembrava qualcosa di soprannaturale.
E presto sarebbe anche piovuto: il cielo sembrava davvero sul piede di guerra.
Ariovisto strinse l'elsa della spada: tutt'intorno a lui i Germanici si preparavano al combattimento. Gli archi venivano incoccati e le spade estratte dai loro foderi: presto il terreno si sarebbe tinto di rosso.
L'ira serbata contro Varo e i romani si sarebbe presto trasformata in furore: nessuno sarebbe scampato alla morte, nessuno doveva né poteva. Arminio era stato chiaro e tutti avrebbero obbedito.
Il principe dei Cherusci voleva vendetta.
E vendetta avrebbe ottenuto.
Varo e i suoi tirapiedi avrebbero pagato caro il loro comportamento.
E lo stesso governatore della provincia sembrava facilitare il loro compito: non aveva preso nessun provvedimento dopo quella – finta – rivolta.
Inoltre, le condizioni del luogo non sarebbero state tanto d'aiuto per i romani. Il percorso stretto li obbligava a procedere in fila, impedendo loro di formare uno schieramento a loro vantaggioso.
Presi in trappola in quel terrapieno costruito per l'occasione, non avrebbero avuto scampo.
Ariovisto guardò circospetto i dintorni: nella battaglia che gli si presentava davanti, avrebbe trovato la risposata a quella domanda che agitava il suo animo da qualche tempo.
“L'uomo è davvero nato per ingannare il suo destino?”
 
Fin da subito la battaglia si dimostrò cruenta: i romani, presi alla sprovvista e messi in difficoltà dalle armi rese scivolose dalla pioggia, subirono pesanti perdite.
Cercarono di difendersi alla bene e meglio, ma la scarsa conoscenza del territorio e la ristrettezza del luogo gli mettevano in difficoltà.
Romolo si trovava in testa alla colonna, la prima a cadere in trappola. L'esercito si snodava per miglia e disporlo in ordine di battaglia era pressoché impossibile.
Coperti di sangue e di sudore, quelli che erano sopravvissuti al primo giorno, cercarono di portarsi in un luogo aperto, fiduciosi nella potenza di Roma e accompagnati dalla speranza di salvezza.
Bruciati i bagagli, il giorno dopo la battaglia riprese ancora più violenta.
Il morale dei soldati romani cominciava ad affievolirsi, le speranze a farsi sempre più piccole.
Ma continuavano a esserci.
E Romolo voleva dimostrare quanto ci credeva in quella frase. Era suo compito ingannare il destino, sfuggire alle sue trappole e rendersi libero.
Fu il terzo giorno quello peggiore: incalzati dai germani, molti romani – vedendosi perduti – si diedero la morte.
Erano tre giorni che pioveva e l'atmosfera della foresta stessa aveva condizionato non poco l'animo dei soldati. L’armata romana, decimata dai combattimenti dei giorni precedenti, non riusciva ad avanzare oltre e di poter costruire un nuovo accampamento entro cui difendersi. Varo e gli altri ufficiali, vedendosi perduti, compirono un suicidio collettivo.
Ariovisto si fermò un attimo: aveva appena ucciso uno dei nemici ma le ferite ricevute nei giorni passati e la stanchezza cominciavano a farsi sentire.  
Poi, in un attimo, percepì qualcuno muoversi alle sue spalle, tradito dallo spezzarsi dei rami.
Ariovisto, temendo per la propria vita, si girò di scatto, non esitando a conficcare nel petto del suo assalitore la spada.
Quando sentì il romano gemere per il dolore, intrappolato tra lui e il tronco di un albero, Ariovisto alzò gli occhi.
Subito dopo li spalancò: sebbene fosse coperto di sangue, riconobbe all'istante Romolo. Quello abbozzò un sorriso, portando con enorme fatica una mano sull'elsa della spada.
Il romano sentiva la vita scivolare via come il sangue che sgorgava da quella ferita al petto.
«Arioviste… Semper mihi necessite fuit… tibi… 3» mormorò raccogliendo le ultime forze.
L'altro, incapace di parlare, allungò una mano per accarezzargli il viso; Romolo non si ritrasse.
La battaglia continuava a infuriare, ma sembrava che Romolo e Ariovisto fossero soli in quella foresta.
Il clangore delle spade, che andava via via scemando, e il sangue sparso tutt'intorno, che aveva tinto di rosso molte parti della foresta di Teutoburgo, sembravano cose senza valore.
Ariovisto non si sarebbe mai perdonato il fatto di aver ucciso il romano.
Di tutti quelli che aveva ucciso, ferito o mutilato in precedenza non gli importava troppo: non si era mai fermato a chiedersi chi fossero, se avessero una famiglia, dei figli. Erano nemici e come tali andavano trattati.
Ma con Romolo era diverso: sapeva che né la moglie né i suoi adorati nipotini l'avrebbero rivisto. E lui era la causa della sua morte.
Avrebbe vissuto con il rimorso finché non fosse morto.
Avrebbe avuto quel peso sulle spalle finché la vita non fosse stata strappata dal suo corpo.
Avrebbe combattuto una battaglia contro il passato per sempre.
Ne aveva combattute tante di battaglie - era un soldato, non una donnicciola - e ogni volta aveva chiaro quale fosse il suo ideale, quale l'obbiettivo da raggiungere.
Ma da quando Romolo era entrato nella sua vita, da quando gliel'aveva sconvolta totalmente, non sapeva più a cosa dovesse tendere.
«Arioviste...  Semper prode fatum tuum...6» mormorò Romolo.
Ariovisto gli accarezzò il viso, chinandosi poi a raccogliere i suoi ultimi attimi di vita con un bacio.
«Ave atque vale, Romole2» disse Ariovisto prima di estrarre la spada. Prima di riporla nel fodero incise quelle parole sul tronco: nel caso, molto probabile, in cui fosse ritornato nel luogo della strage avrebbe sicuramente ritrovato il corpo di Romolo.
Riusciva a sentire le grida di giubilo dei suoi compagni, anche se i vari duelli l'avevano portato in un luogo più lontano dal centro della battaglia.
Senza guardare il corpo di Romolo, si diresse a capo chino verso i compagni.
Un sorriso – palesemente falso – gli si distese sul volto.
Ingannare il fato era stata sì un'illusione, ma la morte di Romolo era reale. Se poteva ignorare la prima, non poteva farlo con la seconda.
Fu in quel momento che capì quale fosse la risposta alla domanda di Romolo.
L'uomo non è nato per ingannare il destino. Non può. Il destino lo tiene in trappola e lo inganna.
Si pentì solo di non aver trovato prima quella risposta: avrebbe sicuramente combattuto le tesi quasi irreali di Romolo con la sua cruda visione della vita.
 
I don't care if heaven won't take me back.
 
Accarezzò i capelli di Romolo prima di afferrare la spada con mano tremante – quella che il romano continuava a stringere nella mano – e accostarla al petto.
Lasciò scorrere le lacrime mentre stringeva spasmodicamente l’elsa della spada.
Si alzò in piedi, dando l'estremo addio all’amato, dopo aver innalzato una preghiera agli dei.
Si allontanò di pochi passi, pensando a come la sua esistenza sarebbe stato una volta tornato tra la sua gente.
Si fermò improvvisamente, stringendo la mano sull'elsa.
Si voltò indietro e lasciò che il vento leggero gli spettinasse i capelli.
Tornò sui suoi passi, fermandosi accanto al corpo del romano.
Sfoderò la sua spada e la gettò a terra, alzando poi al cielo quella di Romolo
Chiuse gli occhi mentre, senza esitazione, si affondava la spada in pieno petto.
Caduto a terra, Ariovisto strinse una mano del romano e, mentre sentiva la vita abbandonarlo, osservò per un’ultima volta il cielo grigiastro di Teutoburgo.
 
 
Note:
Sperando di aver tradotto bene le frasi in latino  le traduzioni sono queste!
  1. Homo nascitur ut suum fatum prodeat: l’uomo è nato per tradire il suo destino (Paulo Coelho).
  2. Ave atque vale: formula rituale dell’estremo saluto, attestata nelle epigrafi e ripresa sia da Catullo (Carme CI) sia da Virgilio (morte di Pallante, Eneide XI 97-98). Sia vale che il nome del defunto venivano ripetuti per tre volte alla chiusura dei riti funebri.
  3. Semper mihi necessite fuit tibi, Arioviste: lett. “C’è sempre stata necessità di te per me, Ariovisto”, meglio tradurla come “Ho sempre avuto bisogno di te, Ariovisto.
  4. Arioviste: vocativo di Ariovisto, nome che ho dato a Germania Magna, ma và.
  5. Calendae: era il primo giorno di ciascun mese nel calendario romano.
  6. Arioviste...  Semper prode fatum tuum…: Ariovisto, inganna sempre il tuo destino
  7. Romole: vocativo di Romolo, nome che ho dato a Impero Romano ma và, di nuovo.
Per chi ne volesse sapere di più su Teutoburgo: Battaglia della foresta di Teutoburgo  ho preferito mettere il link perché dilungarsi su Teutoburgo equivarrebbe a scrivere un’altra storia.
 
La canzone (quei pezzi del testo a lato del testo) è Angel With A Shotgun by The Cab

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: Letsneko_chan