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Autore: tyelemmaiwe    09/10/2015    5 recensioni
La Guerra d’Ira è finita da pochi giorni, Morgoth è stato sconfitto e la sua fortezza distrutta dall’esercito dell’occidente composto dai Maiar, dai Vanyar e dai Noldor di Aman.
Ora che la guerra è finita Calandil, uno dei vanyar partiti assieme agli eserciti dei Valar, ancora oppresso dai ricordi e dal dolore per la morte dei Due Alberi e per la perduta gioia di Valinor, decide di addentrarsi nell’Ossiriand per cercare Ondorwe, che tanto tempo prima aveva lasciato Valinor unendosi alla fuga dei Noldor.
Il racconto dell’incontro tra due amici, dopo un’era di separazione.
(Seguito di “Pace dorata”, ma leggibile separatamente)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Calandil si sedette e posò la spada in grembo, guardandosi stancamente intorno.
L’esercito dei Vanyar era accampato in una piccola radura, ancora verde nonostante la guerra appena conclusa avesse devastato tutta la terra in cui avevano vissuto i suoi consanguinei delle Terre-di-qua. Il colore delle foglie e dell’erba era così intenso da fare quasi male, dopo il nero e il grigio della cenere e della tenebra di Moringotho che aveva ricoperto tutto, spegnendo i colori e soffocando ogni cosa, lasciandola secca e contorta.
La battaglia, l’ultima di quella guerra estenuante, si era conclusa da poco, lasciando dietro di sé un silenzio profondo, che aveva spento le voci dei Vanyar, e persino i canti dei Teleri sulle navi in attesa. Erano tutti stanchi, sfiniti, e i feriti, sia dei Vanyar che dei Noldor di Arafinwe, erano stati portati al riparo per essere curati, con l’aiuto di tutti i guaritori e le guaritrici di cui disponevano.
Calandil abbassò lo sguardo sulla spada. Mai avrebbe pensato di impugnarne una, e invece ora, dopo una guerra durata più di quarant’anni, aveva finito per abituarsi ad essa. Ricordava con precisione come, all’inizio, l’acciaio gli fosse sembrato freddo, insopportabilmente freddo. Gli avevano consegnato la spada quando erano ancora in Aman, ed erano stati gli stessi Maiar a insegnargli come impugnarla, come usarla per uccidere e tenersi in vita. Gli erano occorsi dei giorni per abituarsi alle sue nuove armi, al peso della cotta di maglia, al vedersi rivestito di metallo.
Le armature, nella sua immaginazione, erano sempre appartenute a lontani racconti della guerra delle Potenze contro il Nemico, o ai racconti sugli Etyangoldi a cui non aveva mai voluto prestare attenzione. E ora se ne era rivestito anche lui, e non voleva né pentirsi, né cedere alla paura, per quanto questa non avesse mai smesso di minacciarlo da vicino.
Quella era una guerra al fianco delle Potenze per liberare i Quendi, e lui aveva deciso di affrontarla con gli altri guerrieri della sua gente. Per poco non gli sfuggì una risata, al pensiero di che cosa avrebbe detto Ondorwe, che portava con orgoglio lo scudo quando ancora splendevano gli alberi… Scacciò il pensiero con decisione, non voleva ricordare quello scudo, né ciò che aveva provato nel vederlo al braccio dell’amico. Era stata la prima volta che si era sentito quasi deluso da Ondorwe, e il ricordo gli faceva male.
Eppure quello non era il peggio. Ciò che era successo dopo la morte dei Due Alberi era stato per lui tanto devastante che, a volte, si ritrovava a rimpiangere la delusione che aveva provato nei confronti del comportamento di Ondorwe. Il buio era tornato, e quell’attimo di amarezza era diventato insignificante come un litigio tra bambini. Il giorno in cui Laurelin e Telperion si erano spenti era stato come precipitare in un incubo, come vedere le sue peggiori paure riapparire davanti a lui, attorno a lui, ingigantite e mille volte più orrende e terribili.
Quel giorno aveva pianto come non gli era mai capitato di fare prima né gli era più capitato in seguito, accasciato a terra, senza riuscire a frenare le lacrime né a muoversi, ignorando tutto ciò che lo circondava. Tutta la sicurezza, la pace e la bellezza che aveva conosciuto, in cui aveva dimorato per anni che gli erano sembrati infiniti era scomparsa, si era frantumata sotto i suoi occhi come un riflesso sull’acqua. La luce era sparita, svanita come se non fosse mai esistita, divorata da un buio orrendo, soffocante, che aveva attraversato la terra di Aman.
Nessuna creatura vista nella sua infanzia, nessun sussurro di paura attorno a Cuivienen, nemmeno i suoi peggiori incubi avrebbero mai potuto anche solo vagamente rivaleggiare con l’orrore che aveva intravisto nella piana. Non ricordava per quanto tempo fosse rimasto lì dov’era quando la luce era scomparsa, né rammentava di essersi alzato e recato con gli altri al Mahanaxar, ricordava solo che a un certo punto si era ritrovato a fissare, disperato, quei due alberi morti, quei due resti informi, e si era sentito mancare il respiro, come se stesse morendo anche lui.
Laurelin era morta, niente più che un tronco secco, avvizzito, pronto a cadere a brandelli. Laurelin che non aveva mai smesso di splendere, Laurelin che con la sua luce gli aveva restituito la felicità e il coraggio.
Ricordava l’indignazione che lo aveva invaso quando Feanaro Curufinwe si era rifiutato di donare i silmarilli a Yavanna, quei gioielli che lui stesso aveva ammirato, anche se in un primo momento vedere imprigionata la luce dei Due Alberi lo aveva infastidito, quasi come se fosse qualcosa di eccessivo, di sbagliato persino. Eppure quei tre gioielli avrebbero potuto risolvere ogni cosa, ridare vita agli alberi e scacciare di nuovo la tenebra.
E invece l’arrivo delle notizie da Formenos aveva distrutto anche l’ultima speranza, portando nuovo dolore e nuovo strazio. Non solo tenebra e disperazione, anche morte.
Calandil si era riaccasciato a terra e aveva ripreso a piangere, a mala pena consapevole dei singhiozzi di altri della sua gente attorno a lui.
Era stato quando aveva sentito i Noldor allontanarsi, sconvolti, che qualcosa aveva fatto per un momento breccia nella sua disperazione. Ondorwe. Lo aveva incontrato alla festa, ma poi non si era accorto che l’amico si era riunito agli altri Noldor di Tirion.
Era andato a cercarlo, salendo il colle di Tuna dopo anni che non entrava più in quella città, e l’aveva trovata in tumulto. Aveva supposto che la ragione fosse il dolore per la morte di Finwe, re di Tirion e dei Noldor, ma il motivo, aveva scoperto, era un altro. Quel tumulto non veniva dalla rabbia e dal cordoglio, era provocato dai preparativi per una partenza.
Ondorwe lo aveva accolto con lo sguardo illuminato da una luce febbrile, un fuoco che brillava come le torcie con cui i Noldor illuminavano le strade. Aveva ancora quello scudo al braccio, e, come se non bastasse, aveva una spada appesa al fianco. Un’arma.

“Calandil”, gli aveva detto, “vieni con me in Endore. Torniamo a casa.”
Calandil era rimasto per un attimo immobile, confuso da quelle parole e dalla luce determinata negli occhi dell’amico. “Ondorwe, è questa casa nostra, ora. Dobbiamo rimanere qui, dobbiamo rimanere al sicuro finché…”
“Al sicuro?” La voce di Ondorwe era dura. “Non siamo più al sicuro. Il Cacciatore è arrivato anche qui, e ha di nuovo ucciso. Dobbiamo andarcene, e provare a tornare in Endore. Ti prego, vieni con me!”
Calandil aveva scosso la testa, la disperazione che minacciava di sopraffarlo da un momento all’altro.
Ondorwe gli aveva messo una mano sulla spalla, un’espressione indecifrabile sul viso. “Addio, Calandil” Aveva detto, con voce triste.
Terrorizzato, Calandil gli aveva afferrato le mani, pregandolo di restare, di non andarsene senza la protezione dei Valar.
Ondorwe però aveva scosso la testa, abbracciandolo. “Dobbiamo partire ora. Aspettare non serve a niente, può solo aumentare la disperazione per questo buio che ci ha di nuovo raggiunti.”
Calandil lo aveva supplicato ancora, ricambiando l’abbraccio e ricordandogli le tante scoperte che aveva fatto nella terra dei Valar, le tante cose che aveva imparato… Nulla era servito. Ondorwe se ne era andato, e Calandil si era ritirato a Valimar con gli altri Vanyar, sordo a tutte le terribili voci che giungevano da Eldamar sulla fuga dei Noldor.
Aveva quasi ignorato il primo sorgere di Isil e Anar, perché ai suoi occhi nemmeno il fiore e il frutto dei perduti Due Alberi era una consolazione. Moringotho, il Cacciatore, aveva distrutto tutto ciò che aveva. Il mostro crudele, l’ombra nelle tenebre, l’assassino aveva perseguitato la sua infanzia, lo aveva costretto a fuggire dalla terra in cui era nato, e ora era arrivato a contaminare persino la terra delle Potenze, portando con sé quel terrore che Calandil aveva cercato in tutti i modi di dimenticare.
Moringotho aveva ucciso Laurelin e spinto di nuovo i quendi a fuggire, e Calandil non lo avrebbe mai perdonato per questo.
Erano trascorsi anni, durante i quali aveva parlato solo con la sua famiglia, e cantato solo quando la sua gente intonava l’Aldudenie. Non c’era più musica né poesia che riuscisse a spingerlo a cantare o a comporre a sua volta, se non quel lamento.
Poi, col tempo, il dolore si era attenuato, restando però come un rumore sordo in sottofondo. Aveva ripreso a interessarsi a ciò che lo circondava, e così quando re Ingwe aveva convocato tutti coloro che volevano seguire le potenze nella Guerra contro Moringotho lui aveva subito accettato di partire con l’esercito dei Valar.
Quel dolore devastante era quasi riuscito a piegarlo, e quella nuova esperienza si era lasciata dietro delle cicatrici che Calandil intendeva provare a guarire.
Nella terra di Aman, il luogo in cui per ere intere aveva creduto di aver trovato la pace, aveva invece conosciuto anche la delusione, e aveva ritrovato il terrore, il buio da cui pensava di essere fuggito per sempre.
E ora voleva rivedere Endore, come aveva fatto Ondorwe. Non aveva intenzione di abbandonare per sempre Aman, che ai suoi occhi appariva ancora la più splendida delle terre, ma se ora la luce era uguale in tutti i luoghi e il dolore si era sparso anche lì, voleva ritornare alla terra in cui era cresciuto, e voleva ritrovare il suo amico.
Anche lui aveva finito per provare rabbia e impotenza, e aveva finito per capire meglio ciò che aveva visto negli occhi di Ondorwe e sentito dietro le sue parole il giorno in cui i Noldor erano partiti.
Continuava a considerare la scelta dei Noldor follia, la Guerra per cui era partito lo confermava, ma per lui Ondorwe non aveva colpa, e Calandil voleva ritrovarlo, e riportarlo in Aman, il più lontano possibile dalla fortezza di Moringotho.
Quando aveva rimesso piede in Endore si era fermato un attimo, riconoscendo quell’aria, come si riconosce un viso amico dopo anni di separazione. Non gli era mancata, eppure ora risentirla lo aveva scosso.
Si era convinto che non avrebbe mai più rivisto quei luoghi, li aveva chiusi assieme ai ricordi in una parte remota della sua anima, e ora, dopo tutto quel tempo, si ritrovava a calcare di nuovo la spiaggia da cui era partito, a contemplare le montagne lontane che avevano attraversato durante la marcia, e ciò che vedeva e che sentiva gli risvegliava memorie che credeva perdute.
Endore però era cambiata, a causa del calore di Anar e della violenza di Moringotho, e ovunque Calandil vedeva piccoli e grandi segni di mutamenti che avrebbero finito, pensava, per renderla irriconoscibile.
La guerra era stata lunga, terribile e atroce, un susseguirsi di morte e battaglie e incendi in cui, Calandil se ne era quasi convinto, nessuno di loro sarebbe sopravvissuto, malgrado la protezione dei Maiar che combattevano con loro. Aveva visto la morte colpire i quendi in mille, strazianti modi, e, quando era solo, aveva pianto e cantato quel nuovo dolore, nel tentativo di attenuarlo, di riuscire ad affrontarlo.
Aveva rivisto gli Etyangoldi, ma di sfuggita, e ciò che aveva visto aveva aumentato la sua preoccupazione per la sorte di Ondorwe. Giravano voci terribili tra gli eserciti di Valinor su ciò che era successo ai loro fratelli in Endore, e Calandil ogni giorno temeva di scoprire che Ondorwe era morto da anni, bruciato dai draghi, o ucciso dagli orchi, o peggio trascinato come prigioniero negli abissi d’orrore da cui erano usciti gli eserciti del Nemico.
Ora, dopo quarant’anni, Calandil si sentiva stremato, e con lui i suoi compagni. Era partito per scrollarsi di dosso il dolore e il senso di impotenza, per porre fine al terrore che lo aveva perseguitato, e ora che il Cacciatore era sconfitto, Calandil non riusciva a capire se provava veramente sollievo. La vittoria non gli avrebbe restituito ciò che aveva perso.
Si riscosse, strappandosi a quel flusso di ricordi, e si guardò ancora una volta intorno. Ingwion stava passando tra i suoi guerrieri, alto e dritto, ma anche lui segnato dalla stanchezza.
Calandil aveva imparato a conoscere meglio il suo principe, in quegli anni in cui avevano combattuto fianco a fianco, e ora vedeva chiaramente le spalle curve sotto il mantello bianco, e la fatica degli ultimi anni che gli segnava il viso luminoso.
Il figlio di Ingwe era più giovane di lui, ma si erarivelato un comandante abile e attento, pronto a fare ogni cosa in suo potere per portare a termine quella guerra, senza però mettere inutilmente in pericolo la vita dei suoi soldati. Aveva ereditato la lungimiranza e il carisma di suo padre, e inoltre aveva la capacità di saper intuire ciò che si nascondeva sotto l’apparenza delle cose.
Calandil si alzò e raggiunse il principe, per chiedergli il permesso di addentrarsi nell’Ossiriand. Se Ondorwe non era morto, lui lo avrebbe trovato, e cercarlo nell’unica terra sicura rimasta sarebbe stato il suo primo tentativo.

************************************

Calandil si avviò lungo una delle spiaggie che si erano formate là dove si era fermato il mare, disperato. Aveva cercato l’amico nei boschi, chiedendo notizie agli strani Eldar che vivevano lì e che, gli avevano spiegato, erano detti Laiquendi.
Calandil non conosceva la loro lingua, ma fortunatamente alcuni Laiquendi parlavano il Sindarin, la lingua dei sudditi di Elwe, ed erano riusciti a comunicare quel tanto che bastava a Calandil per muoversi in quel territorio sconosciuto.
Il mare non aveva gettato nessun relitto della guerra sulle rive dell’Ossiriand, e Calandil ne fu contento. La Terra dei Sette Fiumi era rimasta verde e bella, come se la guerra non l’avesse mai nemmeno sfiorata da lontano, ed era rassicurante vedere che lì, dove si infrangevano le onde del Belegaer che aveva sommerso il Beleriand, si poteva per un momento dimenticare l’orrore degli ultimi anni.
Calandil stava quasi per allontanarsi dalla spiaggia, quando scorse una figura solitaria seduta sulla sabbia. Si avvicinò cauto, cercando di capire se fosse un elda o un atan, e si immobilizzò, come colpito da una freccia.
Aveva riconosciuto quella figura, ma non poteva credere ai suoi occhi, non voleva. Ondorwe era seduto abbandonato sulla spiaggia, lo sguardo perso nel vuoto. Il noldo instancabile, sempre in viaggio, sempre pronto a reagire a ogni difficoltà e a gettarsi in ogni nuova impresa, ora era ridotto a un essere magro, sfinito.
Non si accorse dei passi di Calandil sulla sabbia, lui che era sempre attento a ogni rumore… Teneva il viso rivolto verso le onde,i capelli sciolti e arruffati, le mani abbandonate in grembo, immobili.
Calandil sentì le lacrime rigargli le guance e tentò di scacciarle. “Ondorwe?” Chiamò, quasi sperando di essersi sbagliato, che l’elfo stremato che aveva davanti non fosse il suo amico.
Ondorwe si voltò lentamente verso di lui, alzando il viso per incontrare i suoi occhi, e Calandil si sentì mancare. Gli occhi che lo fissavano erano quelli di Ondorwe, ma lì dove prima c’era la luce della curiosità e della gioia di scoprire, ora c’era il vuoto. La scintilla che aveva sempre animato lo sguardo del suo amico era morta, spenta, e al suo posto c’era un grigio vuoto come un cielo senza stelle.
Calandil cadde in ginocchio accanto a Ondorwe, le lacrime che avevano ripreso a scorrergli sul viso.
“Ti ho trovato, Ondorwe…”
Il noldo incurvò appena le labbra, l’ombra dell’ombra di un sorriso. “Non pensavo saresti venuto anche tu, alla fine, Calandil…”, Mormorò, la voce rauca.
“Sono venuto, invece, e ora ti riporterò a casa”. Replicò Calandil, cercando di infondere forza nella propria voce, come se questo potesse trasmetterne anche all’elfo che aveva difronte.
Ondorwe lo guardò, e Calandil seppe che se ne avesse avuto la forza avrebbe riso, una risata amara.
“Casa?” Ripeté ondorwe, come se non conoscesse quella parola.
“Io non ho più una casa, Calandil.”
Calandil gli passò un braccio attorno alle spalle, sentendolo rabbrividire leggermente, come se non fosse più abituato a un simile contatto. Dov’era la sua sposa? Dov’era la famiglia che aveva sempre sognato di avere? “Certo che ce l’hai, una casa, Ondorwe. E’ a Tirion. Ti riporterò con me in Aman…”
“Non posso tornare, Calandil.”. La voce di Ondorwe era amara, insopportabilmente amara.
“Là mi cacceranno, mi puniranno come si punisce il peggiore dei traditori. Io ho ucciso altri quendi, Calandil, e non una volta sola. Ho provato a rimediare, alla fine, ma era già troppo tardi…” Si interruppe, la voce spezzata da un singhiozzo trattenuto mentre una lacrima, solo una, gli rigava la guancia.
Calandil strinse la presa sulle sue spalle, deciso. Sapeva cosa aveva fatto Ondorwe, anche se per yeni aveva finto di non sentire, di ignorare quella consapevolezza. Il suo amico aveva usato quelle armi con cui l’aveva visto partire ancora prima di arrivare in Endore, e non le aveva usate per la vendetta.
Ma a Calandil non importava, non più. Ondorwe gli era caro quanto un fratello, e non lo avrebbe abbandonato su quella spiaggia. Durante quegli anni di Guerra, mentre attraversava il Beleriand in cui avevano combattuto gli Etyangoldi e i loro alleati Sindar, e con loro gli Atani, i più giovani figli di Iluvatar, aveva ascoltato le tante storie e notizie che si spargevano mano a mano che incontravano i Secondogeniti e che questi si univano ai loro eserciti, portando con loro le storie delle battaglie e delle vicende che i loro padri avevano vissuto durante la prima era del sole.
La disperazione e l’orrore di quelle storie lo aveva amareggiato, ma con altrettanta forza l’aveva colpito la speranza e la voglia di riscatto che si era insinuata col tempo in quei racconti, e alla fine aveva deciso. Avrebbe contribuito anche lui a riaccendere quella speranza, per scrollarsi di dosso l’ultima traccia della sua antica disperazione, andando a cercare colui che solo poteva capirlo senza giudicarlo, come aveva sempre fatto. Avrebbe riportato a casa Ondorwe e, a sua volta, lo avrebbe capito senza giudicare le sue azioni passate.
Aiutò con gentilezza l’amico ad alzarsi e lo prese per mano.
“So ciò che hai fatto, Ondorwe. Ma i Valar vi hanno perdonati, e con loro i Teleri. Siamo qui anche per riportarvi a casa, ma con tutti gli onori, non come prigionieri.”
Ondorwe si voltò a guardarlo, gli occhi segnati dalla stanchezza che ora erano lucidi per le lacrime. “Mi sei mancato, Calandil…”, mormorò.
Calandil gli strinse forte la mano, e, camminando lentamente, si avviarono verso i porti appena costruiti, dove i Teleri attendevano di riportarli in Aman.

Note dell’autrice:
ciao! Ritorno di nuovo con una storia sui miei due personaggi originali, Calandil e Ondorwe.
Mentre lavoravo su questi due elfi nella stesura di Pace dorata, ha iniziato a prendere forma, anche se ancora vagamente, questo progetto sulla Guerra d’Ira. Col tempo poi ha preso sempre più corpo, e alla fine ho deciso di provare a scriverlo e a pubblicarlo.
Mi piaceva l’idea di vedere come i due elfi avevano vissuto il periodo della prima era, e in particolare dalla prospettiva di Calandil, che la prima era l’ha trascorsa in Aman, mentre Ondorwe è partito per la Terra di Mezzo, vivendo perciò tutti gli eventi che sono raccontati nel Silmarillion.
E mi piaceva soprattutto l’idea di farli ritrovare alla fine di tutto, dopo la Guerra d’Ira, e dopo che entrambi avevano superato eventi che hanno finito per segnare le loro vite.
Etyangoldi è la parola Quenya per Noldor esiliati.
Moringotho è la versione più antica del nome Quenya di Morgoth, ed era probabilmente la versione usata dai Vanyar.
Yeni è il plurale del termine yen, una parola Quenya che indica un periodo di centoquarantaquattro anni, l’equivalente elfico del nostro secolo.
Endore è la traduzione Quenya del nome Terra –di-Mezzo.
Ho lasciato i nomi Ossiriand, Beleriand e Belegaer in Sindarin perché purtroppo non abbiamo la traduzione in Quenya (Quanto sarei felice se ci fosse…).
Infine: Ingwion. E’ detto sia nel volume V che nel volume X della History of Middle-hearth che fu il figlio di Ingwe a guidare l’esercito dei Vanyar nella Guerra dell’Ira. Questa versione mi ha sempre attirata, forse per la mia curiosità verso i personaggi poco considerati, e ho deciso di adottarla come mio headcanon, aiutata anche dal passo del Silmarillion in cui si dice che Ingwe non tornò mai più in Terra di Mezzo. Tolkien purtroppo è sempre stato incerto sul nome di questo figlio di Ingwe, perciò io ho scelto di non inventare un nome nuovo per lui, ma di chiamarlo semplicemente Ingwion, che letteralmente significa figlio di Ingwe, un tipo di nome usato tra gli elfi (Pare, sempre dalla HoME, che Finwion fosse la prima forma del nome di Feanaro, prima che il padre lo cambiasse in Curufinwe, per esempio)..
Spero davvero che questa nuova storia su Calandil e Ondorwe vi sia piaciuta, e come sempre sarò più che felice di ricevere un commento!
A presto!
Tyelemmaiwe
  
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