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Autore: hikachu    19/10/2015    1 recensioni
Mentre il suo universo crollava, pezzo per pezzo, si domandò perché avesse sempre ricercato cose che non erano intese per lui e cose che non avrebbe mai potuto afferrare.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Tsukiyama Shū
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Nel corridoio, racchiuso nella massiccia cornice rococò, il dipinto risaltava sul muro come una finestra aperta su un sogno misterioso: una grotta tenebrosa e, nel suo cuore, un ragazzo intento ad ammirare il proprio riflesso che sembrava squarciare l'oscurità con il fulgore della sua pelle, della sua giovinezza e dei suoi sogni. Eppure, nella flebile luce che a mezzogiorno trapelava dalle finestre del terzo piano, persino la profonda oscurità del dipinto brillava, rivelando la trama e la consistenza della tela, i contorni rozzi delle pennellate, e, per qualche minuto, Shuu aveva abbandonato la sua sedia per avvicinarsi alla parete e poi fare un passo indietro, inclinare il collo a sinistra e poi a destra, cosicché la luce investisse punti diversi e gli rivelasse segreti nuovi.

All'epoca, sebbene fosse ancora solo un bambino, sapeva già – gliel'aveva detto qualcuno, tenendolo d'occhio mentre lui osservava foto su foto di quadri occidentali scorrergli davanti agli occhi alla TV o, forse, si era trattato di uno dei grossi art book con le pagine patinate – che era caratteristico dei colori ad olio, quel brillio. Shuu lo trovava così bello, che avrebbero dovuto trovare un artista, il migliore di tutti, e farlo venire dritto dritto dall'Europa, perché dipingesse un ritratto di famiglia: lui e papan e Matsumae e, se avessero potuto procurarsi una tela abbastanza grande (certo che avrebbero potuto, non c'era nulla che la sua famiglia non potesse fare o permettersi), tutti i domestici con cui era cresciuto. Shuu pensò che avrebbe dovuto parlarne con papan ora che l'aveva ricordato, prima di dimenticarsene di nuovo e che passassero giorni, settimane prima che l'idea riaffiorasse ancora una volta.

Il corridoio era silenzioso, come le sue sbiadite ombre grigie. Non si udiva alcun rumore provenire dallo studio di papan. Doveva essere ancora al lavoro. Shuu sapeva che sarebbe potuto entrare e suo padre l'avrebbe preso tra le braccia con un sorriso (non si arrabbiava mai con lui, non era mai nervoso o di cattivo umore; nessuno lo era mai, nella villa), tuttavia, oggi, si era ripromesso di aspettare, così avrebbero potuto pranzare insieme e parlare per tutto il tempo che desideravano, senza doversi interrompere a causa del lavoro o altri obblighi. Era questo ciò che gli adulti chiamavano essere re-spon-sa-bi-le (aveva appreso la parola soltanto la settimana precedente, perciò la lingua esitava ancora sulle sillabe—ma solo a volte!) ed un ometto del rango di Shuu doveva imparare ad essere (sillabò la parola un paio di volte) responsabile il prima possibile. Dunque, raccolse le mani in grembo e smise di far ciondolare le gambe avanti e indietro, perché quella era una questione seria e, per ammazzare il tempo, cercò invece di concentrarsi sul pensiero del ritratto, dibattendo quale stanza avrebbero dovuto usare come sfondo o se si sarebbe dovuto fare in giardino—se le rose fossero state in boccio allora, avrebbero potuto sistemarsi nel gazebo, sarebbe stato un peccato altrimenti, e poi, sì, avrebbero dovuto procurare dei vestiti nuovi a tutti; avrebbero chiesto al personale delle cucine di preparare il caffè e gli stuzzichini più deliziosi e li avrebbero condivisi assieme e avrebbero discusso esclusivamente di cose piacevoli, in modo che il pittore europeo potesse catturare i loro sorrisi migliori e più brillanti, e se, in futuro, qualcuno si fosse rattristato, avrebbe potuto guardare il ritratto per ricordare la felicità di quel giorno, e si sarebbe sentito subito meglio.

L'ottimismo di Shuu era assoluto. Era, in sé, la base della sua totale sicurezza. Era, d'altronde, l'erede di un'antica famiglia di ghoul benestanti: era al di sopra di tutti gli esseri umani e gran parte dei ghoul per diritto di nascita, e i suoi sogni e le sue certezze non erano destinati ad infrangersi contro gli scogli della realtà, delle difficoltà di ogni giorno o quel fenomeno che fa parte della crescita, ed è comunemente chiamato, perdita dell'innocenza. Era libero di fare, desiderare e diventare qualsiasi cosa volesse; l'unico progetto che suo padre avesse mai avuto per lui era che la sua vita fosse un unico, meraviglioso sogno senza fine—e Shuu accettava anche questo come un suo diritto naturale.

Una colomba passò in volo, troppo vicina alla finestra: il frullio delle ali urtò il vetro, che era sottile e tremò come se stesse per rompersi. Il rumore sorprese Shuu a tal punto da farlo saltare d'istinto in piedi; la sedia cadde e lo schienale colpì rumorosamente il pavimento. Sollevò il capo e vide l'ombra dell'uccello che si dibatteva sulla parete come un pesce fuor d'acqua. Mentre tentava di ritrovare nuovamente l'equilibrio nell'aria, l'ombra volò sul quadro: cadde sul volto del ragazzo che emergeva, solo, nel mezzo della profonda oscurità, come se avesse voluto beccarne gli occhi. Per un momento, Shuu ne fu spaventato. Perché il ragazzo, calmo e concentrato com'era, perso nei propri pensieri, era in realtà completamente vulnerabile. Perché la colomba, cui per natura era concesso di volare a piacimento, era stata in grado di produrre un suono simile, un suono disperato come se potesse già sentire la morte che l'afferrava, nel cielo, nel suo elemento. Per un momento, Shuu pensò che le sue ginocchia non avrebbero retto, se avesse provato a muoversi. Si sentì insicuro, come non lo era mai stato prima, come se tutto ciò che aveva appreso e creduto fino ad allora avesse all'improvviso perso forma e significato, come se avesse dimenticato ogni parola, ogni carattere e la ragione per cui le persone comunicano tra loro. Per un momento, fu come se la sua stessa identità – tutte le cose che avevano definito i contorni e le sfumature dell'esistenza chiamata 'Tsukiyama Shuu' – fosse a un tratto divenuta una cosa vuota, inutile. C'era nulla che non fosse superfluo? Non riusciva a ricordare perché aveva pensato che commissionare quel ritratto fosse tanto importante.

Solo il ragazzo nel dipinto sembrava reale. Nell'oscurità che lo avvolgeva, credeva di poter scorgere, ora, la forma vaga di sogni oscuri che Shuu aveva fatto una volta e dimenticato, ma anche la sagoma di incubi e fantasie che doveva ancora vedere: persino una cosa come il tempo era priva di significato; non aveva posto in quella notte nera come la pece dove tutto esisteva e nulla poteva distinguersi. Gli occhi di Shuu caddero sul riflesso del ragazzo e vide che, ad un certo punto, i tratti del volto si erano deformati: non era più capace di dire a chi appartenesse quella faccia nell'acqua scura, e anche questo lo spaventava. Avrebbe potuto essere un compagno di scuola, l'umano di cui aveva divorato il fegato il giorno prima, uno dei servitori oppure suo padre, o addirittura se stesso. Sentì, allora, con una certezza inspiegabile, che tutte le cose viventi hanno sempre visto gli stessi sogni, nel passato, e che avrebbero continuato a farlo, per l'eternità, nel futuro. Che il dipinto era una premonizione. Che era il suo futuro, racchiuso nella cornice rococò. Ma durò solo un istante: quella consapevolezza, quell'angoscia, quell'intuizione, quel sogno ad occhi aperti. Erano tutte parti di un incantesimo temporaneo. Un'illusione. La porta dello studio si aprì con uno scricchiolio acuto. La colomba era finalmente volata via. Lui riusciva a stento a ricordare il motivo della sua inquietudine.

“Shuu-kun? Ho sentito un rumore.” Mirumo lo guardava con un'espressione preoccupata. Era un'espressione che non gli piaceva sul viso gentile di suo padre.

Shuu corse da lui, premendo il viso contro una delle sue cosce.

“Cosa c'è? Hai visto di nuovo qualcosa che ti ha fatto paura?”

Shuu scosse la testa e, con la coda dell'occhio, lanciò uno sguardo al dipinto.

Il giorno seguente, la riproduzione del Narciso di Caravaggio era scomparsa dal corridoio e dalla mente di Shuu. Sulle pareti, restavano solo le ombre grigie. 



Avrebbe ricordato il quadro diversi anni dopo.

In quel frangente, gli doleva la testa. La tempia seguitava a battere contro una superficie dura, come se stesse seguendo un ritmo. Faceva male, e Shuu voleva che smettesse, ma, i suoi arti e la sua mente erano piombo, e i movimenti che avrebbe dovuto eseguire continuavano a sfuggirgli. Era come se il suo corpo non gli appartenesse più, ma ne era solo vagamente cosciente; non gli riusciva di pensare che importasse poi troppo, non in quel momento. Invece, marchiata a fuoco sul retro delle sue palpebre e chiara come la luce del giorno, era l'immagine del giovane Narciso con il suo farsetto di broccato.

Anche allora, nell'oscurità assoluta che era tipica dell'incoscienza, la sua belle bianca pareva luminosa come il sole. Abbagliante. Accecante. Era bello e terribile come lo era stato quel giorno. Era, inoltre, ignaro di ogni altra cosa come lo era stato allora. Shuu avrebbe voluto chiedergli, come puoi essere ancora lì? Pensò che voleva distruggerlo. Lasciarlo lì, a marcire in quello stagno. Una creatura del genere non è nemmeno degna di essere mangiata. Lasciate che le ninfe lo piangano pure dopo, non merita pietà.

Gli sovvenne, allora, il viso seccato di Hori Chie, tinto di una pallida sfumatura blu dallo schermo del suo portatile. Ah, stava lavorando, e come al solito non si risparmiava nel rammentarglielo. “Non vedi che sono occupata? Anche se ti dico di lasciarmi in pace, mi ronzi sempre intorno come una mosca, Tsukiyama-kun,” era tornata a fissare lo schermo con gli occhi socchiusi; digitò qualcosa e batté i polpastrelli sul touch pad, prima di tornare a guardare lui. Questa volta, i suoi occhi sembravano in qualche modo cauti, più grandi, come se fosse appena stata investita da una qualche profonda epifania. “Nonostante tutta la tua popolarità, sei una persona piuttosto sola, non è vero?”

Se fosse stata una persona diversa, pensò Shuu, avrebbe dovuto chiedersi se all'epoca avesse provato pietà per lui, ma la verità era che semplicemente Hori Chie possedeva il dono di guardare alle cose con assoluta, obiettiva chiarezza—era per questo che erano diventati amici, dopotutto. Amici. Un'amica. Lei era un'amica: adesso era in grado di vedere anche questo con chiarezza. Era in grado di vedere, al di là del proprio riflesso nello stagno, tutte le altre persone – ghoul, umani – che avrebbe potuto, che avrebbe dovuto chiamare a loro volta amici.

C'erano così tante mani che avrebbe dovuto accettare, stringere, proteggere e non lasciare mai, ma si trattava di un tempo che, ormai, era finito per sempre e, immerso in divagazioni nostalgiche, Shuu aveva voglia di piangere.



Indossava la sua faccia—questo era tutto, e doveva tenerlo bene a mente.

Era il volto che aveva bramato, desiderato, sognato, per cui aveva rischiato la vita e la propria reputazione. Era il volto che per la prima volta l'aveva spinto a sollevare lo sguardo dallo stagno e ad accorgersi che il mondo era molto, molto più vasto di quel che aveva creduto—che, in esso, c'erano tantissime persone. Era il volto per cui aveva lasciato che andasse tutto in rovina. Per cui aveva mandato chiunque l'avesse mai amato a morire.

Era finalmente lì, davanti a lui, tanto vicino che, se avesse voluto, avrebbe potuto avvicinarsi – solo pochi passi – per toccarlo con le proprie dita e non sarebbe scomparso e lui non si sarebbe svegliato—ed era, ora, nulla più che una maschera. Era la cristallizzazione del miraggio che aveva cocciutamente inseguito dopo aver abbandonato il miraggio di se stesso. Un fantasma fatto carne, indossato da un estraneo. Quella persona era davvero ancora lì, nascosta da qualche parte in quegli occhi che lo guardavano con un'espressione che non conosceva? Aveva davvero creduto di poterla riportare indietro così facilmente? Mentre il suo universo crollava, pezzo per pezzo, si domandò perché avesse sempre ricercato cose che non erano intese per lui e cose che non avrebbe mai potuto afferrare—astrazioni idealizzate che aveva costruito per sé, rifiutando la realtà che lo circondava. Pensò, allora, a Kamishiro Rize, a come avrebbe riso di lui, adesso, e ad uno dei pomeriggi che avevano trascorso insieme all'Anteiku prima che lui realizzasse che neppure lei era fatta per lui.

“A dire il vero, non nutro molto interesse per storie così antiche, perciò la mia opinione potrebbe non essere molto oggettiva,” aveva detto Rize, con quel sorriso falsamente timido che sfoggiava così di sovente, persino con lui. Sul tavolo tra loro, era un libro rilegato in pelle proveniente dalla collezione della sua famiglia. I caratteri dorati incisi sulla copertina recitavano: Georgiche. “Ma, se Orfeo ha davvero costretto Euridice a voltarsi perché gli mancava vederne il volto, direi che il suo presunto amore non fosse altro che un'ossessione egoista—oh, ma, forse, è questo che sono tutte le forme d'amore. Non saprei. Preferisco di gran lunga l'interpretazione secondo cui avrebbe volutamente rinunciato ad Euridice: forse, Orfeo si era reso conto che lasciare che la sua esistenza fosse dominata da un fantasma non era giusto, e voleva smettere di vivere nel passato. Dovremmo vivere tutti innanzitutto per noi stessi, non sei d'accordo?”

Non riusciva a ricordare, con precisione, quale fosse stata la sua risposta, eppure era certo fosse diversa da quella che le avrebbe dato adesso: all'epoca, il suo mondo era stato molto, molto più ristretto, proprio come quello di Rize—No. Non era stato il suo mondo ad essere piccolo, piuttosto, era stato lui ad essere cieco. Aveva sempre scelto di non vedere nulla all'infuori di se stesso, ed ora—ora che i suoi occhi erano finalmente spalancati, tutto ciò che riusciva a vedere era che, ad un certo punto, il mondo si era trasformato in uno scherzo di pessimo gusto. Era completamente sbagliato. Ma non era comunque l'unico padrone della sua vita, non più ormai, e così ripeté a se stesso: indossa la sua faccia—questo è tutto, e devo tenerlo bene in mente.

Mister Sasaki, io non so nulla di te.”

Shuu sferrò un calcio con tutta la sua forza. Sperò di avergli fatto male.

Addio, Euridice.
   
 
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