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Autore: lilly81    28/10/2015    12 recensioni
[...] Vegeta la seguì senza obiettare e, mano nella mano, raggiunsero la sponda del letto e lì andarono a naufragare l’uno sull’altra.
La battle suit, ancora più oltraggiata, rimase alla deriva appena qualche metro prima, tra le onde vellutate della moquette color rosa antico.[...]
Genere: Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Goku, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Calma piatta e mari in tempesta”

di Lilly81

 

 

Far tremare la terra, dissolvere le nuvole, ribollire il mare, contrastare e dominare le forze della natura, contravvenire alle leggi gravitazionali, far deflagrare pianeti, deciderne le sorti, conversare con gli dei, sconfiggere demoni, morire e poi risorgere: i saiyan erano già divinità e neppure lo sapevano.

Non bastava questo, tuttavia, a compiacere l’eterna competizione di quell’alieno, né a lenire la frustrazione che risaliva a galla, come un cadavere tra le onde, alla fine di ogni scontro.

Non proprio quel giorno e non su quell’oceano.

Sotto un cielo stellato, di una bellezza da mozzare il fiato, i pensieri di un uomo qualunque si sarebbero dipanati su sentieri più tranquilli. Qualcuno avrebbe scritto poesie, qualcun altro avrebbe cercato una stella, altri si sarebbero beati di quell’immenso, altri ancora avrebbero chiuso gli occhi ed assaporato il sapore del mare.

Lui, che poteva mettersi in tasca la profondità degli abissi e nelle scarpe  la vastità del cielo, standosene ritto come una statua votiva su quel terrazzino sospeso nel vuoto, era tradito, niente meno, dall’esangue riflesso della luna tra lo sguardo inquieto e la mascella indurita.

Irruente per natura e bastonato nell’orgoglio da certi fatti della vita, Vegeta non possedeva l’imperturbabilità degli dei e non l’avrebbe mai posseduta, per cui, accanto alla ringhiera in ferro, ristabilite le dimensioni del mare e della terra - giacché di tasche e di scarpe non ne aveva in quel momento - pure lui pareva da vicino un uomo qualunque, ma col cipiglio di quei sognatori tormentati e poeti maledetti.

Il dorso nudo, già di suo sfregiato, fu tagliato in due dalla luce comparsa d’improvviso alle sue spalle.

Bulma avanzò a piedi scalzi ed aprì la porta finestra.

“Vegeta”, mormorò assonnata. “Ma da quanto tempo sei qui fuori?”.

Un venticello, insidioso e del tutto inaspettato, approfittando della mancanza del consueto foulard, l’aggredì diritto alla gola, e a poco servì stringere un lembo della scollatura.

Così, tornò indietro e la prima cosa che trovò a tiro per mettersi sulle spalle, a di sciarpa, bella calda, fu la battle suit, sprovvista di corazza, lasciata da Vegeta su un pouf accanto al letto.

Il suo tessuto elastico, appositamente brevettato da lei per essere confortevole in qualsiasi stagione dell’anno, non solo era più costoso di qualsiasi altro griffato sul mercato, ma all’immediato contatto con la pelle tirava la media tra la temperatura corporea e quella esterna e si adattava di riflesso, in barba alla lana nei capotti o ai filtri anti uv delle creme solari.

In una presunta etichetta, di quelle che spuntano nella fodera interna all’altezza dei fianchi, si sarebbe letto che di quella stoffa solo il 40% era di manifattura terrestre: 20% cotone e 20%  poliestere, lavabile in lavatrice a 60°, centrifuga e asciugatura normale, non candeggiare, non stirare.

Per il restante 60%, poteva essere smacchiato anche nella lava di un vulcano ed uscirne indenne.

Il costo di produzione equivaleva ogni volta a quello di un air-car, per cui bastavano un paio di cassetti per fare del guardaroba di Vegeta un salone d’esposizione.

La cabina armadio di Bulma, tra cappotti, scarpe e borsette firmate, era in confronto un ripostiglio di vecchie cianfrusaglie in fondo al corridoio.

In ogni caso, era la prima volta che la scienziata ne faceva un uso personale, riducendola ad un cencio da mercatino dell’usato.

“Come fai a startene qui fuori così? Sei matto?”.

No, non era matto -  la fissò con ovvietà, voltandosi - ma era un saiyan ed un saiyan poteva permettersi di starsene lì fuori con addosso un paio di slip neri, senza rabbrividire per la brezza - pure questa era un’altra delle loro prerogative ultraterrene - e farlo in assoluta privacy, considerato che, lì dove si trovavano, all’ultimo piano, avrebbe potuto sorprenderlo soltanto qualcuno piombato dal cielo.

“Che ore sono?”, le chiese.

“Le quattro”.

Per la precisione le quattro e cinque minuti, ma a quell’ora della notte non faceva differenza.

“Tutto… tutto ok?”, chiese lei con l’esitazione di chi lo conosceva troppo bene.

Poteva immaginare il suo travaglio interiore, doloroso, urlante, senza respiro, in piena solitudine, mentre generava, a battaglia ultimata, la constatazione di essere inciampato puntualmente, nella scala immaginaria delle sue ambizioni, sul solito gradino più basso.

E quel crac alla caviglia faceva male più delle ferite aperte a sangue.

Bulma sapeva anche questo, ma dov’era il ghiaccio per sfiammare la botta?

Non certo a portata di mano, e neppure nel suo cuore, dove prima bastava sfiorarlo per raggelarsi le dita.

Non aveva tutti i torti, Vegeta, a ben pensarci: Goku si prendeva sempre il meglio di ogni scontro, come se un intelletto superiore avesse deciso che egli era il predestinato, o come se uno sceneggiatore avesse fatto di lui il protagonista indiscusso di quella favola.

Non importava che in questo racconto ci fossero altri personaggi, pure più carismatici, perché Goku arrivava puntualmente dopo tutti gli altri, quando questi erano già sfiancati, e sbaragliava il nemico di turno con i suoi urka, la faccia spensierata da bravo ragazzo, ed il dono, assai raro quanto pregiato, della pace con se stessi.

Ora, non fu per la battle suit mortificata sulle esili spalle della donna che il saiyan abbozzò un’espressione contrariata:

“Faresti meglio a guardarti allo specchio”.

Istintivamente, lei fece un passo all’indietro.

“Cosa… cosa ho che non va?”.

E’ normale che quando una donna si alza dal letto abbia il viso struccato e la frangetta senza garbo, ma Vegeta non era il tipo da squadrare certi dettagli e sdegnarsi. Da questo punto di vista - e non è poco per una donna - l’ex mercante sanguinario sapeva essere tra il più amabile dei mariti.

Oltretutto, Vegeta conosceva talmente bene sua moglie da saperne anticipare le mosse; perciò, pazientemente, chiuse le palpebre, mentre ella rientrava dentro ed andava a sincerarsi davanti allo specchio delle proprie condizioni, ed attese di sentirla urlare, come appunto avvenne.

Il manrovescio di Lord Bills, dato con tanto di dorso, aveva impresso sulla sua guancia destra un’ecchimosi violacea, a ricordo del suo compleanno appena trascorso.

Il sangue non era confluito da subito, forse tutto pompato verso l’apprensione con cui aveva assisto alla battaglia disputata tra cielo e mare; ma con l’avanzare delle ore, dopo il commiato pacifico da parte del dio e del suo accompagnatore e la fine dei festeggiamenti, la pulsazione si era fatta più insistente.

Solo adesso capiva la ragione della fitta avvertita nel soffiare la candelina -  giusto una indicativa per camuffare bene il numero dei suoi anni, su una grande torta condita di panna e fragoline di bosco -  o perché non fosse riuscita neppure a sistemarsi sul lato destro del cuscino, quello che più le conciliava il sonno.

La peluria da gatto antropomorfo con le orecchie di sciacallo, un po’ Sekhmet, un po’ Anubi di una civiltà oramai estinta, non era servita ad attutire la schiocca sonora contro il bel viso di Bulma, e Vegeta non avrebbe mai dimenticato quel sock per il resto dei suoi giorni.

La distruzione della Terra, la morte di tutti ed anche la sua, non sarebbero state niente in confronto, per lui.

L’impotenza, all'opposto, di vedere con i suoi stessi occhi, a pochi passi da lui, quella mano divina che si sollevava e puntava direttamente contro di lei, figurarla già morta ancora prima di tutti gli altri e di se medesimo, anche solo per uno scarto di minuti, lo avevano annichilito nel profondo del suo animo, laddove non c’era orgoglio, né tormento, né competizione, ma soltanto l’innocenza dei suoi sentimenti più umani.

E Vegeta aveva per davvero il cuore puro, non fosse altro che l’amore di un saiyan vale più di quello di un uomo.

Da pesare in carati, per quanti sono i suoi capelli forgiati nell’oro, perché un saiyan non è tenuto ad amare, non per la sua natura.

Calpestata quest’innocenza, ignorata la supplica disperata, l’unica che fosse mai sfuggita al suo orgoglio, di lui non era rimasto niente se non la furia più cieca.

Forse, neppure per suo figlio avrebbe implorato a quel modo perché Trunks, seppure bambino, era venuto alla luce per essere un guerriero.

Lei, invece, era nata per destreggiarsi tra calcoli quantistici, cavicchie e propulsori, era nata apposta per indossare una gonna e farsi spogliare da lui.

Le sue guance potevano essere accarezzate con rudezza, sì, ma mai umiliate in quel modo.

Bulma ritornò fuori col passo malandato di pugile che ha appena incassato il colpo.

L’altra Bulma, la Princess, invece, rimessasi in viaggio già dal tardo pomeriggio, le aveva strappato la scena da prima donna, fendendo le acque con la baldanza da bella signora, con le anche tutte scintillanti, il passo spedito e intraprendente.

Né la notte, né le profondità oscure le facevano paura, e le sue fiancate erano fatte apposta per opporsi agli schiaffi spumeggianti del mare e all’azione corrosiva della salsedine.

Quando Bulma aveva avuto la faraonica idea di festeggiare il suo compleanno su di una nave da crociera, nella tabella di marcia, redatta qualche settimana prima con la scrupolosità di un tour operator, aveva incluso il pernottamento a bordo di tutti i suoi invitati, in considerazione del rientro in porto previsto a metà della mattinata successiva.

Lo scontro con Lord Bills, invero, aveva fatto saltare la capatina pomeridiana presso un’isoletta tropicale dalle spiagge bianche, ma la torta, lo champagne, i fuochi d’artificio, i vassoi di daifuku e molte altre prelibatezze erano stati programmati per fare il loro ingresso in scena soltanto a sera.

Dopo l’attimo di sconforto in cui Bulma aveva pensato di aver festeggiato il peggiore compleanno della sua vita, si era scoperto che il personale di bordo, che stoicamente non aveva smesso di cuocere pietanze anche nel mezzo del conflitto - manco fossero stati, per davvero, sotto il giogo di un faraone con il nemes a strisce - era riuscito nell’ardua impresa di salvaguardare la torta augurale con la panna e le fragole di bosco.

Così, il genetliaco di Bulma, talmente importante da far scendere pure gli dei sulla Terra - guarda caso con paramenti egizi - era terminato dignitosamente su di un tappeto da picnic tra gli applausi di tutti.

Gli dei siano lodati! Alleluia!

Avesse organizzato un picnic fin dall’inizio sarebbe stato meglio per tutti, e pure lo sportello del bancomat, al saldo contabile, si sarebbe messo ad intonare tanti auguri.

Del resto, “Princess Bulma”, che non voleva affatto essere un richiamo alla regalità del suo consorte, quanto un incensamento più glorificante di se stessa, avrebbe dovuto lasciar presagire già tutto.

Passassero pure il bingo, il castello come secondo premio e persino Schenron, ma a Vegeta era bastato leggere il nome di sua moglie sulla fiancata della nave, quando l’aveva localizzata nel mezzo dell’oceano, per capire che quell’apparato scenico tutto sarebbe stato tranne quello di una normale festa di compleanno con le trombette ed i palloncini.

Non era dato sapere, ahinoi, se qualcosa fosse andato già storto al momento del varo e la bottiglia contro lo scafo fosse ritornata indietro con tutto lo champagne, perché la nave era stata presa in affitto ed il nome appioppato all’ultimo momento.

In ogni caso, un compleanno così sarebbe rimasto nella memoria degli invitati anche se fosse filato tutto liscio.

Vegeta, il cui orgoglio da principe dei saiyan, senza scettro né trono, impallidiva dinanzi alla facilità con cui Bulma gestiva i proventi del suo impero aziendale, si era trattenuto a bordo, dopo il tramonto, soltanto perché pure Goku era rimasto a galleggiare per inerzia su quelle stesse acque, come un passeggero qualunque, come se quel giorno, superata l’esosfera, non avesse mai contemplato la piccolezza del globo terrestre sotto i suoi piedi.

Il saiyan, infatti, con la bocca ancora sporca di panna e di fragoline di bosco, con un’aria tutt’altro che divina, stava per rincasarsene sui monti Paoz con tutta la famigliola, quando la menzione, da parte del piccolo Goten, di un’abbondante colazione al mattino aveva battuto sul tempo la velocità delle sue dita.

“Te la sei cercata. Ti avevo già avvertito, e neppure tempo fa, di non attaccar briga con chi è più forte di te”, fece duro.

“Quel gattaccio ha rovinato la mia festa di compleanno. Non è nel mio stile starmene zitta davanti alla prepotenza degli altri. Dovresti saperlo. Si è presentato come tuo amico ed io l’ho invitato a restare con molta gentilezza. Nel bel mezzo dei festeggiamenti si è messo a scatenare il putiferio per colpa di un budino, senza considerare che aveva già mangiato a sbafo, peggio di voi saiyan messi assieme. E tu mi dici di non attaccar briga? Sei sicuro che, tra me e te, il saiyan sia tu e non io?”.

Dopo aver unto la piastra dei takoyaki e fritto il suo orgoglio insieme alle polpette di polipo e all’erba cipollina, cospargendo il tutto di maionese, Vegeta poteva permettersi di risparmiare il wasabi piccante pure innanzi a quella provocazione:

“Avresti avuto ben poco da festeggiare se avesse voluto fare sul serio. Davanti ad un dio poco importa essere saiyan o terrestre, ma evitare di dimostrarsi stupidi”.

“Quindi, io sarei stata… stupida?”, appuntò i gomiti, ma con quella guancia malconcia, già impegnata a fare a pugni con la limpidezza degli occhi, avrebbe fatto pena al suo peggior nemico.

Perciò, Vegeta si limitò a rispondere:

“E’ dire poco”.

“Cosa c’è? Ti dispiaceva vedermi morire?”, altrettanto temeraria sapeva essere davanti a lui, semplicemente cambiando registro di voce.

Eccola Princess Bulma, in carne ed ossa, con la sua baldanza da bella signora, sfidare l’oscurità delle acque in tempesta e senza l’acciaio della carena.

Le mani ricaddero lungo i fianchi, ma non in segno di resa. Anzi, c’era qualcosa di molto sensuale lì, su quel morbido profilo increspato dal vento.

Con la camicia di raso bianco, lunga di poco sopra al ginocchio, Bulma sembrava fatta di spuma di mare e Vegeta si ritrasse appena, come a voler tenere i piedi asciutti.

Detestava le domande retoriche.

“Il cuore mi batte più forte se penso soltanto a come ti sei arrabbiato. Rifarei quello che ho fatto soltanto per sentirmi… amata in quel modo”, si avvicinò ancora.

Il sapore del mare si fece più forte e a Vegeta sembrò che l’acqua gli solleticasse le dita dei piedi ed il sale bruciasse tra ferite prima insensibili.

Ora che non c’era nessuno ad ascoltarli, sarebbe stato sciocco negare l’evidenza dei fatti.

“Non approfittartene”, disse soltanto.

“Approfittarmene?”, sorrise lei, ambigua. “E in che modo potrei mai riuscirci? Mi piacerebbe potermi… approfittare di te, ma credo di non averne la forza. Questa battle suit sulle spalle non mi rende un tuo pari, purtroppo. Tu puoi scavalcare questa ringhiera in tutta tranquillità ed andartene via, mentre se lo facessi io, finirei per diventare cibo per pesci”.

No, Vegeta non aveva voglia di scavalcare la ringhiera, non dinanzi a quelle labbra senza rossetto che da sole bastavano a farlo prigioniero, e neppure davanti alla sua uniforme da battaglia, pure questa piegata sul quel corpo di donna come un cencio qualunque, che scivolata appena, aveva lasciato scoperta una spalla.

Bulma si fece ancora più vicina, lasciandosi scaldare da quel calore alieno che lui sprigionava semplicemente… esistendo.

“E così anche tu hai un cuore puro”, gli poggiò una mano proprio lì sul petto e le parve che un ritmo solenne provenisse da dentro, come dall’abside di un tempio.

“Sono orgogliosa di te”.

Un alito di vento, appena più forte nella sua inconsistenza, si fece largo tra i due, non come terzo incomodo questa volta, ma quale promotore  di ardite carezze.

Glielo poteva consentire, al vento e soltanto ad esso, di sfiorare l’intoccabile e di anticiparlo appena di qualche mossa.

Sotto la stoffa in raso della camicia, Vegeta vide i capezzoli indurirsi di riflesso, e col dorso della mano andò a ristabilire, laddove nessuno avrebbe osato ribaltarlo, il suo primato.

Ma lo fece piano e cautamente, perché nonostante fossero trascorsi anni dalla prima volta che l’aveva fatto - e all’epoca non le aveva chiesto alcun permesso - c’erano momenti in cui quei seni riuscivano ancora a mettergli soggezione.

Davanti a lei solamente, alla stregua di un dio della distruzione dai capelli cerulei, permetteva alle mani nude e senza guanti di esitare, con la prospettiva differente che questo tipo di battaglia era disputata ad armi più o meno pari: mai si era battuto in ritirata davanti a lei, né sarebbe mai potuto morire nella morsa tenace delle sue gambe dischiuse, non certamente di quella morte fisica.

“Puro dici? In questo momento ho il cuore tutt’altro che puro”.

Bulma sorrise, andando ad accorciare un’altra volta lo spazio tra loro, con quella confidenza, rodata migliaia di volte, che solo a lei spettava.

Eppure, ancora le succedeva nell’accostarsi a lui, di sentire quel vuoto allo stomaco delle prime volte, simile - per restare in argomento - a quello scavato da una nave nel mezzo di una tempesta. 

Soltanto che l’oceano pareva fatto di olio quella notte.

Mmm… questa prospettiva…”, e con la punta infreddolita del naso sfiorò quella dell’altro, “…direi quasi che mi piace di più”.

Allora, gli afferrò la mano e lo indusse a ritornare in cabina, semplicemente avanzando lei per prima.

Ormai, bastava che lei lo chiamasse per telefono e lui accorreva, che gli chiedesse di eliminare un dio della Distruzione ed egli provasse quanto meno a placarne l’ira.

Vegeta la seguì senza obiettare e, mano nella mano, raggiunsero la sponda del letto e lì andarono a naufragare l’uno sull’altra.

La battle suit, ancora più oltraggiata, rimase alla deriva appena qualche metro prima, tra le onde vellutate della moquette color rosa antico.

Con le dita di lei aggrappate alla folta criniera, Vegeta piegò il capo e la andò a baciare sulla bocca con quell’impeto di chi si è trattenuto già troppo.

“Ahi… fa male”, gemette la donna, storcendo la mascella dolorante.

Quella specie di ringhio soffocato, che l’altro diede in risposta, fu un modo come un altro, tutto suo, per chiederle scusa.

Con un dito poteva cancellare la Terra dalle mappe stellari e senza neppure essere un dio di distruzione, ma con lei, nello spazio compreso tra la testata e la pediera di un letto, aveva imparato ad essere gentile.

Adesso, non importava che i cuscini, le lenzuola asettiche e la coperta con le frange non fossero i loro, che la spalliera fosse intarsiata con legno di mogano in un contesto di altri tempi, perché anche qui Vegeta ebbe la sensazione che quello spazio fosse immenso, che poteva inabissarsi se non restava attaccato a lei, che si potevano fare mille sogni e mille incubi, vivere tutte le esperienze dei sensi, godere e far godere, combattere le più strenue battaglie mentali, chiudere gli occhi e sentire il rumore del silenzio, stare su di un fianco o sull’altro: era un’altra vita ogni volta che ci finiva sopra.

E allora, tutto si amplificava tra quelle quattro sponde, sicché i gemiti diventavano parole non dette, e le carezze ed i baci dichiarazioni d’amore.

Persino quel ringhio, con cui abbandonò la sua smorfia di sofferenza per declinare con calma verso la piega del collo, a Bulma parve un gesto di estrema delicatezza.

Non era un caso che l’unico essere in tutto l’universo che di Vegeta poteva avere quella prospettiva, così a stretto contatto, fluttuante tra le gambe non ancora completamente dischiuse, e senza armatura, si fosse resa conto da un po’ di tempo che, soprattutto nell’intimità, lui non era più quello di una volta, non quello egoista dei primi incontri, ma neppure quello cauto e prudente del periodo successivo all’avvento dei cyborg.

Si sentiva… amata  -  andava detto tutto  -  come se quel sentimento, che prima era più grezzo, fosse stato incastonato nella sua natura aliena con il bulino di un orafo.

Così doveva essere, perché, altrimenti, non si sarebbe spiegata perché lui fremesse di un desiderio non solo carnale, lì nell’incavo della sua spalla, tra la bretella di raso e la giugulare pulsante, senza averle sfilato neppure la camicia da notte, attardandosi a giungere in quel punto morbido e sinuoso dove più di ogni cosa desiderava arrivare.

Nessun terrestre avrebbe potuto amarla a quella maniera, e senza averglielo mai detto.

“Vegeta…”, mormorò ad occhi chiusi.

Ma lui non rispose, smarrito nell’imprevedibilità di quelle acque, divenute d’improvviso torbide e trascinanti.

“E’ così strano, è come se stessi vivendo… una nuova… vita”, si inarcò contro di lui, con l’andamento arrendevole di una prua.

“Possibile tu debba aprire bocca nei momenti meno opportuni?”, sibilò col fiato già corto, nel bel mezzo del suo mare in tempesta.

“Cosa ci sarebbe di inopportuno? Si possono dire molte cose in questi momenti”, singhiozzò al contatto delle sue dita.

“Ma io non voglio sentirle”, e per renderglielo più chiaro, andò di nuovo a baciarla sulla bocca con irruenza voluta.

“Ahi… ho detto che mi fa male se fai così”.

E allora lui le mise una mano sulla bocca, come a farla tacere, per la seconda volta in quell’interminabile giorno, benché lui non fosse un dio della Distruzione e questa volta fosse per proteggerla da se medesimo.

Faccia a faccia e senza guanti, il contatto fu questa volta più intimo, sensuale, caldo, di quel caldo-umido che si trova altrove, scendendo con la mano più in basso.

“Prima o poi troverò il modo di farti tirare la lingua”.

In tutta risposta - ma di quelle che lasciano l’interlocutore di stucco - sentì il palmo di quella mano inumidirsi, e proprio la lingua di Bulma, tanto inopportuna e petulante, blasfema verso gli dei ed incurante dei nemici più pericolosi, lambirgli le dita una ad una, come fossero state fatte di panna montata e giammai fossero state intinte del sangue nemico.

Nessuna replica avrebbe saputo metterlo a tacere quanto quella, e a Vegeta ci volle qualche istante in più del dovuto per trovare la risposta giusta, ma non ne trovò nessuna, e in quel dialogo ora a senso unico, calmo, silenzioso ed erotico, avrebbe avuto voglia di annegarci per ore, fino in fondo all’oceano, trascinando con sé l’intero bastimento.

Peccato che il suo corpo scalpitava a risalire in superficie e a farla finita subito.

Non fece in tempo a raggiungere l’elastico grigio dei suoi slip - e per sua fortuna - perché una voce ben nota irruppe nella stanza e loro due rimasero raggelati nel sudore di quella passione bruciata a fuoco lento e appena divampata.

“Ehi, Vegeta, sei qui?”.

Quella voce, da subito ben nota seppure sommessa, non provenne dall’uscio d’entrata e neppure dal balconcino dove la porta a vetri era stata solo accostata, ma giunse dal bagno annesso.

Quando Son Goku venne fuori, aprendo con circospezione la porta a scomparsa, vide che Vegeta se ne stava seduto sul ciglio del letto con un cuscino sulle gambe e che Bulma, da tutt’altro lato, poggiata alla spalliera, leggiucchiava una rivista con una spallina abbassata e la frangetta scompigliata.

Peccato che fossero soltanto le 4.20 del mattino e che quel quadretto non sarebbe stato molto convincente, tranne che per Goku, neppure per un bambino.

“Ah, che sollievo sapervi svegli! Scusate l’ora”, si grattò il cespuglio da extraterrestre che aveva sulla testa, ed ogni volta sembrava che tirasse fuori, al posto di un concetto, qualche frutto di bosco.

“Si può sapere cosa diavolo vuoi?”, l’apostrofò Vegeta, e  la salvezza di Goku fu che l’altro non potesse disfarsi ancora di quel cuscino.

“Ehm… non sapevo quale fosse la vostra cabina, ce ne sono così tante. In più il tuo ki non era assopito, ma completamente azzerato e non sono riuscito a localizzarti subito. Non pensavo che di notte annullassi così tanto la tua aura, sai? O è una cosa che viene naturale? Non ci ho mai fatto caso…”.

A Vegeta gli sarebbe piaciuto tanto rispondere, mentre lo prendeva a schiaffi, che per la precisione lui non stava dormendo e che la sua aura era azzerata perché ci teneva alla pelle di sua moglie, ma restò soltanto con l’espressione sconvolta di chi si figurò, per un istante, cosa sarebbe accaduto se l’altro si fosse teletrasportato qualche minuto dopo, proprio mentre lui e Bulma si rotolavano su quel letto senza vestiti e senza ripari.

“Non ti azzardare mai più ad usare quella tecnica nel mezzo della notte, anzi…”, ci rifletté meglio. “Non la devi usare nemmeno se stesse collassando il pianeta! Né per cercare me, né per cercare mia moglie! Ficcatelo nella testa, perché la prossima volta che succede ti faccio secco!”.

“Dai, non prendertela!”, ridacchiò. “E’ stato un caso che mi sia ritrovato proprio nel bagno. Fortuna che a quest’ora non c’era nessuno, né sulla tazza, né nella doccia. Giuro che non succederà più. E poi, mica mi scandalizzo se dormi senza pigiama. Quanto a Bulma, sono sicuro che si addormenta con le mutande al loro posto, o no?”, strizzò l’occhio all’indirizzo della donna, facendola sussultare.

Ora, non era il caso di rinvangare aneddoti di un passato lontanissimo. Ne valeva della sua incolumità; quella di Goku, sia chiaro, non quella di chi si sarebbe avvalsa dell’incapacità di intendere e di volere da bella addormentata nel bosco.

Perciò, la suddetta ebbe fretta di cambiare discorso, mentre Vegeta, ancora scioccato da tanta sfacciataggine, non riusciva ad articolare parola.

“Ehm… si può sapere cosa è successo da portarti qui?”.

“Urca! Le dita di Lord Bills si vedono tutte adesso!”, si sporse un po’ in avanti, ma non tanto da scorgere le mutandine incriminate gettate a terra al letto.

“Smettila di guardarmi a quel modo!”, gli gettò contro la rivista.

Se non l’avesse scansata, avrebbe visto da vicino che si trattava soltanto del piano di evacuazione in dotazione ad ogni cabina.

“Complimenti sul serio, ho sempre saputo che avevi la testa dura. Con quel colpo avrebbe potuto staccartela dal collo”.

“La pianti sì o no? Che diavolo vuoi?”, fece Vegeta.

Son Goku ritornò serio:

“Ho bisogno di parlare con te”.

E fu per quella serietà, più che per il bisogno sancito, che Vegeta si scordò di tutto, della panna montata sulle sue dita, delle mutandine ricamate ai piedi del letto, dei capezzoli induriti sotto la stoffa di raso della camicia da notte, che neppure era riuscito a sfilare.

“Dammi due minuti”.

“Cosa potrà mai volere?”, domandò Bulma quando l’altro scomparve alla sua maniera.

 Vegeta andò a recuperare la battle suit rimasta alla deriva:

“Che vuoi che ne sappia!”.

Il legno di mogano parve diventare marmo gelido dietro la sua schiena, ma Bulma restò lì con la bretella scesa, la frangetta senza garbo; e il livido sulla mascella, anziché sbiadire, si mise a pulsare più di prima.

L’osservò mentre, alla svelta, infilava prima una gamba e poi l’altra, ed il tessuto blu, riacquistato pregio, aderiva come una seconda pelle fino al collo e fasciava di quel corpo persino l’anima, dando la sensazione che egli fosse nato così, di quel colore, di quella consistenza, di quella trama.

Non era un caso che solo Bulma ne sapesse distinguere la duttilità, ogni pregio e difetto di fabbricazione, persino i punti di attaccatura, sicché - si sarebbe potuto dire - ella era in simbiosi con lui anche quando questi credeva di aver fatto il vuoto attorno a sé.

Solo e soltanto Bulma, in tutti gli universi noti e meno noti, sapeva dove finiva l’uomo e dove iniziava il guerriero; e mentre pensava che il blu elettrico incominciava a seccarla e che la prossima divisa l’avrebbe confezionata di un altro colore, si sistemò meglio il cuscino e una volta tanto preferì tacere.

 

***

 

Non fu precisato il posto in cui incontrarsi. Per i saiyan, come per gli dei, non occorreva farlo.

A Vegeta bastò portarsi a prua per essere individuato da Goku in un batter d’occhio.

Del banchetto consumato il giorno prima erano rimasti dei tavoli senza tovaglie, e l’acciaio nudo dei carrelli vuoti riluceva sotto le luci bianche del pavese issato.

Se il grosso squarcio generato dalla caduta di Majinbu sembrava il morso di uno squalo spuntato dalla pancia della nave, più difficile era associare la decapitazione delle palme ad un altro animale guizzato dal mare.

I motori di propulsione montavano schiuma bianca, ronfando a tutta velocità sulle acque lisce, e solo dall’aroma pungente e salmastro, nel punto in cui il buio era più compatto, era chiaro fosse il mare ad essere tagliato e non il nulla cosmico.

“Avanti, spara!”, fece Vegeta senza preamboli, braccia incrociate e stivaletti divaricati.

Goku, continuando a mantenere la sua espressione più seria, l’accontentò subito:

“Mi piacerebbe che ci allenassimo insieme. Dovevo dirtelo non appena mi è sfiorata l’idea. Proprio non ce la facevo ad aspettare che si facesse mattino”.

Vegeta non batté ciglio.

Per un momento, e soltanto per un momento, la camera gravitazionale gli apparve troppo stretta, ma quel nodo nello stomaco, che da sempre si materializzava al cospetto dell’altro, non fece in tempo a sbrogliarsi. La sua avversione per quel saiyan non avrebbe mai trovato rimedio, per quante battaglie avrebbero combattuto l’uno al fianco dell’altro, per quanti barbecue le loro rispettive famiglie avrebbero organizzato insieme allegramente.

“Hai ben due figli con cui poterti allenare”.

“Non è la stessa cosa e tu lo sai. Gohan non ha più voglia di combattere e Goten è soltanto un bambino”.

“Trovati un altro sparring, allora. Magari Mister Satan, con le dovute precauzioni, potrebbe andare bene”.

“Ma perché la prendi come un’offesa? Non ti ho chiesto di farmi da cavia ma di allenarci insieme. Guarda che anche io posso imparare da te”.

“Non provare a farmi l’elemosina!”, l’apostrofò ed il mare sottostante schiumò d’improvviso, come obbedendo ad un ordine.

Goku sospirò e l’aria salmastra, così tonificante, diede alla sua amarezza un retrogusto meno insipido.

“I nemici non sono più quelli di una volta”, disse questi, mettendosi a guardare l’orizzonte adesso meno compatto.

Né poeta, né filosofo; né sognatore, né maledetto. Con quel cipiglio serio, Goku non smetteva di incarnare il concetto metafisico della pace con se stessi, anche quando metteva a punto pensieri tipo:

“Ma ti rendi conto quanta forza abbia Lord Bills ancora nascosta? Impazzisco al solo pensarci. Non hai pure tu l’impressione che qualcosa attorno a noi stia cambiando, che l’universo sia ancora più infinito di quanto potessimo soltanto immaginare?”.

“Cosa c’è?”, sogghignò Vegeta. “Da quando sei diventato un dio, ti sei fatto più intelligente? E’ ovvio che me ne sono reso conto. Quando si incontra una divinità, c’è un nuovo mondo che si spalanca davanti agli occhi”.

“Spero di tornare ad incontrare Lord Bills. Devo incontrarlo. Ne ho davvero bisogno”.

“Ed io più di te”.

Vegeta, il quale a differenza dell’altro non aveva mai incontrato il favore degli dei, sentiva che la sua vita non sarebbe più stata la stessa senza ritrovarsi di nuovo al cospetto del dio della Distruzione, fosse anche solo per sentirsi ribadire con disprezzo, sotto i suoi piedi, un’altra volta ancora, che ad un saiyan, per evolversi dallo stadio di primate, non basta assurgere alla gloria di un dio.

“Se solo riuscissi a localizzare il suo pianeta, forse...”, esclamò Goku, per poi aggiungere, come colto da folgorazione, “pensi che quel Whis possa aiutarci? Sembra che sia lui a scandire il sonno-veglia di Bills e che abbia una grande influenza nei suoi riguardi. Non trovi?”.

Non era ancora chiaro ad entrambi che natura avesse il fedele servitore del dio in questione, né da quale forza gravitazionale fosse attratto l’anello planetario intorno al collo. Con lo scettro sempre in pugno, poi, sembrava reggere l’origine di tutto l’universo.

Vegeta non fiatò, sospeso in bilico sulla corda di una nuova prospettiva, mentre l’altro ragionava, accarezzandosi il mento: “Sembra un tipo accomodante e gentile… sono certo che non sarebbe un problema per lui portarci sul pianeta di Lord Bills”.

“E come pensi di convincerlo?”, lo riportò con i piedi per terra.

Ancora una volta sembrò che Goku stesse tirando fuori dalla chioma un frutto di bosco piuttosto che un concetto. Non che i frutti di bosco andassero gettati alle ortiche, visto che della torta di compleanno di Bulma non era rimasta neppure una fragolina. “Ecco… l’ho guardato per benino quando si è congedato da noi ieri e non credo che un tipo come lui… ehm…  come dire… si lascerebbe comprare da una foto di tua moglie o da un appuntamento a cena con lei”.

“KAKAROTH! Io…!”.

“E dai! Stavo scherzando!”, mise le mani avanti.

Orami era evidente a tutti che Bulma era il suo punto debole, e Goku si divertiva a sguazzarci dentro con l’esultanza di un bambino sul bagnasciuga.

“Stai tirando troppo la corda!”, tornò ad incrociare le braccia, e tutto ad un tratto, più forte dell’odore del mare, gli giunse sotto al naso il profumo di Bulma di cui era impregnata la sua divisa; come se, chiamata in causa, ella si fosse presentata a loro sotto forma di spirito.

Quell’aroma di legno fruttato lo conosceva bene e per un istante temette che potesse andare a stuzzicare anche l’olfatto dell’altro.

“A proposito di cena”, fece torvamente Vegeta. “Ha un appetito più grande di quello di noi due messi assieme”, e arretrò di un passo, per sicurezza.

“Sì, anche io ho pensato che si potrebbe attirarlo qui da noi usando come esca del buon cibo. Però c’è un problema. Quando si tratta di allenarmi o di combattere contro qualcuno, Chichi mi fa sempre ostruzionismo. Accidenti! Credi che Bulma ci possa essere d’aiuto in cucina? Lei non ha mai fatto di queste questioni!”.

E così era.

Bulma costruiva camere gravitazionali e battle suit con la facilità con cui Chichi rammendava i calzini di Goku.

Bulma, dici?”, sogghignò l’altro. “Se si tratta di scaldare cibi precotti lo fa bene, ma davanti ai fornelli sa bruciare solo i fondi delle pentole. Ha i soldi, però, e può permettersi i migliori esperti del settore”.

Goku ci mise qualche istante in più del dovuto ad incassare tutta quella franchezza, più di sentire il principe dei saiyan parlare di cibi precotti e di fornelli, ma alla fine gongolò:

“Perfetto!”.

Restò ben poco di quell’entusiasmo, quando Vegeta gli fece perdere tutto ad un tratto una spanna di altezza:

“Forse, non hai considerato un fattore. Come pensi di metterti in contatto con lui? Semplicemente alzando gli occhi al cielo e chiamandolo per nome?”.

“Ehm… non ci avevo pensato. Suppongo che la procedura sia più complessa…”, eccolo un’altra volta il frutto di bosco.

“Non sei, forse, diventato un dio? Allora, spremi le tue sacre meningi!”, lo irrise.

Ma in tutta risposta, Goku sentì lo stomaco brontolare.

“Io non riesco a riflettere quando ho fame. A che ora è servita la colazione? Sento già un profumo come di dolci…”, e la fonte occasionale di quell’odore bestemmiò tra sé e sé il nome di sua moglie.

Un barlume di luce compariva proprio adesso all’orizzonte, sovrapponendo al drappo stellato un altro striato di azzurro, di pari bellezza.

Ne aveva da scegliere la natura, su quel tavolo da artigiano, tra tessuti pregiati di svariati colori. Dama di altri tempi, di bottega in bottega, perdeva le sue giornate a scegliere vesti e profumi, gratuitamente elargiti.

“Dalle sette in poi”, rispose l’altro, sdegnato.

Ad ovest, intanto, si poteva già scorgere, nella foschia, un lembo indefinito di terra.

“Ancora tutto questo tempo? Allora credo che ne approfitterò per recuperare un paio di ore di sonno. Incomincio ad essere stanco”.

Solo ora sembrava che l’adrenalina dello scontro incominciasse ad evaporare dalle sue membra, sospinta verso i pori dal pensiero che il loro cammino si sarebbe incrociato con quello degli dei, in un modo o nell’altro, anche senza fare un bel niente.

Erano saiyan.

Era un altro mondo.

E in quel mondo si poteva parlare con dio e prenderlo a pugni.

Vegeta, pur avendo combattuto poco e niente il giorno prima, incominciava a sentire di condividere con lui quella stessa sensazione di spossatezza.

Così, le assi di legno non produssero scricchiolii quando uno si dissolse nella consueta maniera e l’altro si sollevò con la leggerezza di una piuma, sicché, nella desolazione di quel ponte, il loro colloquio parve quello di due fantasmi su una nave derelitta.

Quel passo felpato tornò a posarsi sul terrazzino della suite all’ultimo piano, dove la luce era stata spenta, ma la porta-finestra lasciata accostata.

Bulma dormiva supina, con un braccio incatenato al cuscino ed una gamba divaricata, tra le lenzuola sgualcite.

Lì nel mezzo si andò a sistemare Vegeta, senza spogliarsi, poggiando il capo sul seno foderato dal raso.

Il suo respiro, lento e regolare, dopo un sommesso mugugno, lo cullò più di quanto potesse fare la Princess Bulma sulle acque piatte.

Pensò a Whis e all’anello planetario intorno al collo, alle orecchie di sciacallo di  Lord Bills e a quel sock sulla guancia di sua moglie.

Poi, ad un tratto, rivide suo padre, sottomesso brutalmente ai piedi del dio della Distruzione, per colpa di un cuscino, il più morbido di tutto l’universo, che non gli aveva procurato.

Nell’intrigo del sonno che sopraggiungeva, pensò che il cuscino più morbido lo tenesse proprio lui, in quel momento, sotto il capo: rivestito di raso bianco, caldo, rassicurante, vellutato, come niente al confronto.

Allora, spalancò gli occhi ed inquieto osservò il soffitto.

 

FINE

 

Dunque, questo racconto, scritto in anticipo rispetto agli eventi mostrati nella serie Super - tanta era la voglia di misurarmi con questi nuovi spunti - è stato tenuto in caldo per un bel pezzo di tempo, almeno per un mese - di più e non di meno - nell’attesa che i miei pronostici combaciassero con i recenti sviluppi.

Ero certa che, a battaglia ultimata, Goku facesse ritorno sulla nave, quindi il primo paragrafo era assicurato.

Sul secondo, invece, nutrivo dei dubbi, ma intanto scrivevo senza riuscirmi a fermare.

Avendo come punto di riferimento “Battaglia degli dei”, il dialogo tra Goku e Vegeta, nell’ultimo paragrafo, doveva riguardare già la possibilità di farsi allenare da Whis. Immaginate la mia sorpresa quando nella serie Super, a fine battaglia, la rivelazione sulla sua identità viene taciuta.

Per un istante, ho immaginato che questa storia non avrebbe visto la luce e che avevo sprecato gran parte del mio tempo a scrivere un racconto non attinente ai fatti.

Poi, fortunatamente, dopo la visione dell’episodio 16, sono riuscita a correggere il tiro, modificando giusto una parte del dialogo.

Giuro che il riferimento all’incompetenza di Bulma in cucina esisteva fin dall’inizio, avendo ipotizzato - ma non ci voleva un genio - che una donna in carriera come lei non amasse attardarsi in cucina.

Soltanto che, per riscaldare i precotti, nella prima bozza avevo pensato ad un microonde e non ad un bollitore.

Idem per il teletrasporto nel bagno della cabina, che in riferimento alle anticipazioni dell’episodio 17, mi sono divertita a calcare di più.

Precisato ciò, ringrazio chi è arrivato a leggere fino a questo punto, sorbendosi pure l’inutilità di questa nda.

   
 
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