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Autore: Amaya Lee    09/11/2015    1 recensioni
[ KuroKen | Futuristic AU ]
I cuori umani sono ormai riciclabili. Collocati in corpi meccanici, danno vita agli androidi; i nuovi lavoratori, medici, architetti del ventiduesimo secolo.
Nessuno si è mai aspettato che un cuore significasse sentimenti. Nessuno ci crederà mai. (O quasi.)
Genere: Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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T h e T r u e e a r t_

[siamo tutti destinati ad un peso nel petto, per sempre,
finché qualcuno non ci insegna a portarlo.]
 




 

L'androide lo scruta dall'alto, facendo scorrere gli occhi percettivi da un punto all'altro del suo viso.

"Mi rincresce non essermi presentato prima. Il mio nome è Kenma." Usa proprio la parola nome, che presumibilmente è quella giusta, e attende un cenno d'assenso. I tratti dell'androide non si tendono, ma Kuroo non riesce del tutto a rilassarsi. "Hai delle lesioni di primo grado sulla tempia destra," constata, quella voce facilmente passabile per umana, ma priva di inflessione.

"Ah, lo so," replica Kuroo, agitando una mano, "ma non danno troppo fastidio."

L'androide sbatte le palpepre e torna a concentrarsi sulla sua gamba, distesa sul lettino. "Ora le esporrò il rapporto: I problemi concernenti la sua protesi sono di esigua rilevanza. In base ai test nessuno dei suoi riflessi naturali è stato compromesso. I nervi sono connesi." Si infila la cartellina medica sotto il braccio, raddrizza la schiena – e Kuroo non sente alcun rumore di meccanismi in mozione, e deglutisce. "Si tratta di una questione di abitudine."

"L'operazione è stata due settimane fa," gli fa notare Kuroo, fissando il soffitto acceso dalle tenui lampadine al neon. La clinica sembra averne solo di quel tipo.

L'androide lo guarda in viso e nessuno dei due si muove di un centimetro. Non c'è agio, non quella musica che fanno due sconosciuti incontrandosi e vedendosi per la prima, la centesima, l'infinitesima volta. Per un po', gli occhi screziati dell'androide si restringono e dilatano come l'obbiettivo di una fotocamera retrò. "Casi come il suo accadono con la frequenza del 0,02%. La clinica si scusa per l'inconveniente."

"Ehi, non è che non mi posso muovere. Nessun problema." Kuroo si alza a sedere sul lettino, poi da qualche colpetto alla propria rotula svestita dalle recentemente ricresciute cellule cutanee, e ricorda la vecchia carne arrostita sfracellarsi in pezzi, e le fiale e le punture. Gli piacerebbe dire che, dopo una vita a metabilizzare quel genere di vista negli spot pubblicitari e, per quel che riguarda la società, nel puro quotidiano di un ragazzo di città, non gli fa alcun effetto. Il metallo è tiepido, comodo persino; ed è sempre meglio di un moncherino di quelli che la vita artificiale rimpiazzò nell'ottica futuristica. Le reliquie di quei tempi giacciono solo sui siti più vintage.

Eppure, se guarda troppo a lungo la carne lì dove si interrompe, e comincia l'automa, non si sente al 100% dell'ideale forma psicofisica. Perciò guarda altrove.

L'androide segna una spunta sui suoi documenti, un gesto freddo come il ferro dei corrimano d'inverno. Poi dice, "Abbiamo quasi terminato la visita, Kuroo-san." Tu. Lei. Kuroo-san. Gli errori di programmazione succedono, perché nulla plasmato dagli uomini può uscire perfetto, ed è proprio vero che siamo un riflesso degli dei.

Impiega un'ora buona per rimettere a posto ogni tessuto e controllare due volte i parametri, seguendo la procedura come un A, B, C per bambini. A un certo punto del silenzio, disturbato dagli strumenti vibranti con cui l'androide opera sulla sua gamba, Kuroo decide di non voler più averne le orecchie piene.

"Hm. Allora, Kenma."

L'infermiere non muta espressione. "Non dovresti sentire dolore."

"Non lo faccio," replica Kuroo.

"Le serve un bicchier d'acqua?"

"No– no. Come sta procedendo?" Giurerebbe che le sopracciglia rifinite dell'androide si siano momentaneamente aggrottate.

"Regolarmente."

"Quindi, insomma, bene?"

"È corretto."

Le dita di Kuroo tamburellano per qualche istante sul materassino, una alla volta. "Da quanto fai questo lavoro?"

"... Lavoro qui solo in prova. Sono molto giovane, anche secondo parametri umani."

"Davvero?"

"La mia fabbricazione risale a due anni fa."

"Wow." Kuroo prova l'impulso improvviso di sottrarre la gamba quando l'androide comincia a maneggiare cavi sottilissimi, con guanti di lattice antisettico, e si ode un debole sibilo come  una scintilla erutta dalla massa simil-muscolare che dovrebbe essere il polpaccio. Però, resta fermo. "Wow, okay. Io ne ho compiuti venticinque lo scorso mese. Sei- Sì, certo che sai quello che fai."

Un guizzo di luce muore negli occhi-obbiettivo di Kenma, come questi sposta il capo per guardare Kuroo, cercarlo solo per un secondo rubato. E Kuroo ha l'occasione di vederlo chiaramente, senza le lunghe ciocche che timidamente gli incorniciano le guancie. Ha una bocca piccola, con cura definita dai laser che lo fabbricarono, e umida, costantemente sigillata se non per quando parla.

"La sua gamba è a posto," dice l'androide quando ha concluso il suo lavoro, porgendo a Kuroo un fascicolo su cui figura l'inchiostro puntellato, leggero e formattato di Kenma. "Torni entro un massimo di tre mesi per un controllo di procedura generale."

E questa, vedete, avrebbe dovuto essere la storia.


---


Spesso è sorprendente quanto basti poco per trovare qualcosa di valore. La notte, con il suo rosso [le insegne dei locali con le mantidi nella bocca] e il blu [le luci della città in una veglia che un giorno si esaurirà] e il nero [tutto il mondo, tutto], e il laico distacco tra rumore e movimento, è un buon momento per le occasioni. Kuroo corre nella notte.

Col respiro accelerato, impostando canzoni dal ritmo sempre più pacato nel lettore musicale ultra-leggero, si sente la goccia più pesante nell'oceano. Non fa altro da quand'era bambino.

Si appoggia a un lampione, al centro della polla di luce, e quando si asciuga lo strato di sudore sulla fronte l'aria ottobrina gliela rinfresca. Si accorge di essersi fermato di fronte alla clinica che ha riparato la sua gamba. Che stia ancora in piedi e in grado di correre non è un miracolo. I miracoli non esistono più.

Quasi a muovere tentativamente una sfida al filo di pensieri di Kuroo, le porte buie della clinica si aprono per lasciarsi attraversare da una figura esile, sembrerebbe, sotto tutti gli strati di vestiario che non fanno altro che renderla paffuta. Armeggia per qualche istante con la maniglia, e una lampada automatica si accende sulla soglia.

Quando Kuroo riesce finalmente a vederlo in viso, non può che esserne piacevolmente sorpreso. Attraversa la strada velocemente e alza un braccio, finché l'androide si accorge di lui e i loro sguardi sono come chiave e lucchetto, ora. A volte c'è armonia.

Kenma sposta gli occhi sui gradini di marmo che li separano, poi torna ad osservarlo, con cortesia. China persino leggermente il capo. "Salve."

"Ehi," Kuroo sposta il peso da un piede all'altro, non sorride, "fine del turno?"

L'androide annuisce lentamente. Sembra indeciso su cosa dire. "Vedo che la protesi non crea più alcun fastidio."

"No, avevi ragione tu."

"Lo so," si fa sfuggire Kenma – o forse è nella sua programmazione, ma Kuroo non può saperlo. L'androide guarda alle proprie spalle, e la luce dell'ingresso si è ormai spenta. "Questo era il mio ultimo turno."

Kuroo si disconnette dagli auricolari con niente meno di un pensiero. Aggrotta la fronte e tenta di sollevare l'angolo destro della bocca. È facile quando non vede, di Kenma, attraverso la pelle. "Come sarebbe?"

"Mi hanno elevato ad aiuto-lab."

"Nel Dipartimento Protesi?"

"È corretto."

Kenma torna a casa tutte le notti in bicicletta, perché non gli è ancora stata accordata una patente valida. Gli servono altri tre anni di esperienza. È una di quelle biciclette vecchio stile, fornite dalla Corporazione, e Kenma la monta traballando un po', ogni volta un po' come la prima; i piedi aggrediscono i pedali e le labbra di Kenma si separano abbastanza da far passare un alito di vapore. Si concentra sul marciapiede che si snoda sotto le ruote. Kuroo lo guarda e pensa ad un bambino.

Sono tutti un po' come bambini, quelli che ha conosciuto.

"Dì un po', Kenma." Sta correndo moderatamente apposta perché Kenma gli stia dietro con la bici. Suono di ruote, suono di suole.

"Hm?"

"Tu puoi sentirla la soddisfazione, vero?" Kuroo si accorge dopo aver posto la domanda che, in realtà, ne ha avuto paura. Non è sicuro di cosa potrebbe passare per la mente di Kenma.

Ma l'androide non fa nulla, eccetto pedalare con le ginocchia alte, e guardare fisso in avanti. "È corretto."

Kuroo smette di fissarlo, e la musica riprende nelle sue orecchie da dove si era interrotta, così le gambe di Kenma si muovono improvvisamente su un motivo cadenzato dai tasti di un pianoforte. "... Interessante."

E la bocca dell'androide disegna poche parole ammutolite, dopo, ma Kuroo non ha il cuore di chiedergli di ripetersi.


---


I loro quartieri distano un cambio di metropolitana, trentadue passi, cinque giorni e  mille riflessioni. Kuroo mette piede sull'ascensore del complesso abitativo con una valanga nella mente e un John Boyne che grava nella mano destra. Se lo passa di mano in mano, quindi, ma non lo sfoglia.

Kenma non è un topo da laboratorio. Kuroo lo sa. E Kuroo, a suo modo, può anche cercare di capire. Fino a un certo punto, fino a quando le cose non si fanno complicate.

Ma sono diversi, e questo non l'ha deciso nessuno dei due.

Non sa perché proprio il Boyne, forse gli piaceva l'idea dei due ragazzini, della rete di ferro, mentre nella realtà di una rete non c'è neppure l'ombra. O forse è stata un'idea stupida, regalare qualcosa del genere a chi non può conoscere abbastenza bene gli uomini da comprendere la guerra. È un libro molto datato, dopotutto.

L'ascensore si apre. Kuroo esce, trova subito la porta di Kenma, e ringrazia di essersi fatto dire il numero dell'appartamento prima che si separassero.

È indeciso se bussare o suonare il citofono, comodamente posizionato all'altezza della mano. Sceglie di bussare. Lo fa sentire più a suo agio.

Come dei passi si avvicinano all'ingresso il libro pesa infinitamente di più tra le sue dita, e riesce per un soffio a nasconderlo casualmente dietro la schiena perché Kenma lo osserva dal basso con occhi stanchi, grandi, mentre pochi centimetri sembrano un abisso. Nota il braccio di Kuroo, capisce che c'è qualcosa che non vuole che veda, e torna a guardarlo in volto. Non dice niente.

"Disturbo?"

"Sto studiando." Kenma fa spallucce. "Posso offrirti un caffè."

"Accetto con piacere." Rivolgendogli un sorrisetto, di quelli che Kuroo ha messo a punto negli anni, varca la soglia, si guarda intorno e non vede nulla che possa ricondurre a Kenma, se non la sistematica noncuranza. Nel soggiorno è proiettato un ologramma di due metri per due; la foresta pluviale. Kenma ci gira intorno per un momento, lo mette in stand-by. "Geografia?"

"Comportamento animale."

Non c'è un tavolino, solo una penisola di granito che sporge nel soggiorno, che viene presto sgombrata, e uno sgabello. Kenma decide di stare in piedi. Preme una combinazione sulla tastiera nella superficie, e nella cucina accanto il caffè comincia a prepararsi da solo.

Kuroo si è liberato del Boyne mentre Kenma non guardava, e vuole intavolare una conversazione al più presto. L'illuminazione naturale dalla grande parete-finestra, a cui lo sgabello da di spalle, inonda direttamente il viso di Kenma. Kuroo presume che non gli piaccia fronteggiare la vista dal ventiduesimo piano. "Studi per il Dipartimento?"

"Studio per me," replica l'androide. "È materiale della Corporazione e del Net."

"La Corp. ti tiene occupato." E Kuroo gli aveva portato un libro.

"Ci sono cose che devo imparare." Kenma sposta gli occhi sulle proprie mani, intrecciate e immobili sul granito. E d'un tratto, mentre guarda se stesso, non sembra umano.

Per la prima volta, Kuroo si chiede se Kenma provi qualcosa di più della soddisfazione. In tutta risposta, il suo respiro sussulta. "Non- Non si smette mai di farlo, no?"

"... Già, Kuroo."


---


In un primo momento, le mani di Kenma possono sembrare piccole. Kuroo le sfiora senza alcuna difficoltà e, insospettabilmente, traccia il dorso con gli occhi, dove le vene scorrono sottopelle come rivoli bluastri. Quella pelle che non può scurirsi, ma può sentire freddo. (Poi, quelle mani si allargano e cercano di afferrare quanto più possono. Non sono abbastanza grandi per il mondo intero, purtroppo.)

Quelle mani tengono un libro, lo porgono, e malgrado ciò ne hanno cura. "L'hai lasciato da me."

Kuroo cerca di non scomporsi. "Scusa. Um, è che lo sto leggendo."

"Lo immaginavo." Kenma ovvia lo sguardo di lato. "L'ho letto anch'io nel frattempo, spero non ti dispiaccia."

"Ti è piaciuto?" Kuroo non può fare a meno di chiedere, mentre fa entrare Kenma in casa e prende il Boyne dalle sue mani.

L'androide fa pochi passi nel corridoio, sfilandosi il cappotto. Si guarda intorno; "È grande," constata.

"Niente di più vero." Kuroo coglie l'occhiata inespressiva che Kenma gli scocca. "Oh- oh, la casa. Sì, era dei miei genitori."

Kenma indugia su di lui ancora per un momento. Quando sono seduti al tavolo della cucina, il computer e gli ologrammi aperti di Kuroo spostati frettolosamente da parte, l'aria ha il vago sapore delle foglie di tè e Kuroo spiega di non aver dormito molto, quella notte, per finire una bozza a breve scadenza. Gli editori ai giorni d'oggi sono esigenti. Sì, vero. Kenma chiede; Di cosa scrivi?

Di cose vecchie, Kuroo scrive.

"Esistevano... delle cose, questi fogli di carta, una volta, no?"

Kenma allaccia le dita sopra il tavolo e inclina il capo, segnale che sta ascoltando ed è interessato.

"Su cui le persone scrivevano a mano. Poi passavano da una persona all'altra, e venivano lette, e poi riposte. Solitamente erano destinate a qualcuno di importante, da cui arrivava una risposta. Si chiamavano 'lettere'." Kuroo osserva l'assoluta immobilità di Kenma, e si dice che è perfettamente ordinario, al giorno d'oggi, avere un androide sulla sedia della propria cucina. Hanno un vero cuore, dopotutto, perciò cosa dovrebbero importare delle bombole al posto dei polmoni?

"Come i messaggi dei PDA?" domanda Kenma, sporgendosi leggermente in avanti.

"Beh, le lettere erano più lunghe." Il cuore di Kuroo pare stretto tra le costole, ed è contento che Kenma sondi le acque in questo modo. "Ed erano scritte con cura."

"Come tu scrivi i tuoi libri?"

"Più o meno."

Kenma sposta lo sguardo sulle proprie mani e a Kuroo sembra di vedere i pensieri attraversare la meraviglia bionica del suo cervello, da una parte all'altra. Dopo qualche istante, l'androide riprende a parlare; "Grazie per aver condiviso quest'informazione."

"Non è necessario–"

"La persona che aveva il mio cuore si chiamava Kenma." Le iridi di tutti gli androidi che Kuroo ha conosciuto sono tristemente perfette. Suppone che anche quelle degli esseri umani lo siano, se si fa attenzione, eppure le creature si definiscono nel loro complesso. Gli occhi degli androidi sono come tutto il resto; quelli di Kenma non hanno un codice di decifrazione, e Kuroo trattiene il respiro. "Il mio nome operativo viene dal donatore."

"– Oh."

"Il passato ha uno strano valore, non credi?"

Kuroo non finge neppure di pensarci. "Vero. Ma non c'era bisogno di condividere qualcosa di così ...personale."

"Non l'ho fatto in nome di uno scambio equo;" Kenma non ama parlare di sè, questo è indiscutibile. Come ogni androide.

Eppure Kuroo non può che immaginare se – forse – il cuore pulsante in quei petti raffinatamente fabbricati per contenerli porti con sè di più. Più di quanto la Corporazione possa prevedere. Sensazioni? Volontà?  Solo per i ricordi non c'è possibilità, sarebbe come tentare di richiamare immagini di una vita passata. No. "Perché allora?"

Kenma prosegue come se nulla fosse, "Di lui so poco o niente. Aveva sedici anni quando è morto." La luce che filtra dalla finestra sbiadisce, si adatta ai contorni morbidi dell'androide, mentre Kuroo non può far altro che restarne rapito; esattamente come un marinaio legato all'oceano. "...Sono riconoscente di essere vivo," dice Kenma, a voce lievemente più bassa, che potrebbe persino passare per intimorita; "eppure, a volte, mi sembra che tu dimentichi cosa avvolge il suo cuore."

Colpisce Kuroo con l'irrevocabilità di un'onda del mare. Sembra così facile, per Kenma, leggergli dentro come fosse un libro spalancato. Deglutisce e prova rabbia. "Non è così."

"No?" Kenma non contorce il viso in nulla di minimamente più drammatico della sua solita indifferente espressione. "Non è complicato, Kuroo. Potrò anche funzionare grazie a un cuore umano, ma sono una macchina. Una macchina."

"Non sei solo una macchina," ribatte, paziente. Davvero non riesce a vederlo? "... Quel ragazzo era molto giovane. Non sei per lui una seconda opportunità?"

Kenma pare preso alla sprovvista dalla sincerità di Kuroo, ma lo scrittore non avrebbe potuto tenere la bocca chiusa neppure provandoci. Kenma gli è caro, e su questo non c'è nulla da negare. "Kuro..."

"No, aspetta." Si sporge in avanti e prende le mani dell'androide nelle sue. Riesce a percepire la confortante delineatura delle ossa, sotto i polpastrelli, anche se sa perfettamente che si tratta di una scelta artificiale. Non gli interessa. "Okay, forse non sei chi ti ha permesso di vivere. E forse non sei come chi ti ha assemblato. O come me. O come qualsiasi altra persona. Forse non sei come Kenma, ma una cosa in comune ce l'avete di certo." Kuroo preme delicatamente le proprie dita sul petto di Kenma. Cerca il battito. Lo trova. "Quindi, prendi questo semplicemente come un favore personale... Sei qualcuno, nè più nè meno di un essere umano. E se vuoi mostrarmelo- ne sarei affascinato." 

Kenma sbatte lentamente le palpebre, come per dipanare l'umidità sulle lenti. Gli androidi semplicemente non possono piangere, ma Kenma stringe le mani di Tetsurou, quasi timidamente, e questo basta. "Sei proprio uno scrittore, Kuro," borbotta, ma senza una nota di noia.

Tetsurou gli da un grande sorriso, al quale l'androide non si ritrae. Non più. "È un piacere conoscerti, Kenma."

La verità è che quando il suo cuore corre, un po' spera che anche quello di Kenma lo faccia.









Adessoparloio
giusto perché non pubblicavo niente da un sacco ho deciso di condividere questa robina che se ne stava seduta quasi-dimenticata in un file. Non mi aspetto che sia chissà cosa, anche perché con il science fiction non ci so fare granché, ma anche a livello di stile. pigrizia portami via. Non so nemmeno se questa "cosa" sia definibile science fiction, probabilmente è solo bionica futuristica.
sì, quest'alternative universe dovrebbe avere sviluppi romantici, ma ritenevo che lasciare qui la narrazione, "in sospeso", fosse preferibile.
se lasciaste un commentino ino ino mi fareste contentafeliceallegra.
Grazie per aver letto! e adios

 

  
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