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Autore: bisy    14/12/2015    2 recensioni
Rispolverando racconti vecchi di qualche anno, ecco cosa è uscito dal dimenticatoio. Spero vi piaccia e che non esitiate a lasciarmi il vostro parere ed i vostri consigli.
Parigi. Un giovane infermiere alle prese con un turno di notte decisamente fuori dal comune, al fianco del lettino su cui giace un paziente ormai inerme. Immerso in riflessioni sull'ineffabilità della vita, si rende conto che, forse, persino la sua, sebbene sia agli inizi, non è tracciata su sentieri ampi e luminosi...
Genere: Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Ho sempre adorato la mia Parigi, la città dai mille volti.
Le strade non sono mai deserte e, nel caos della routine, la gente trova sempre il tempo per svagarsi un po', leggendo libri nei parchi, fermandosi ai bistrot o semplicemente passeggiando per i boulevard.
Oggi c'è un cielo terso infiammato da un tramonto rosso, che apre il sipario ad una nottata che si prospetta lunga ed insidiosa.
Mi sono appena svegliato, faccio una cena piuttosto abbondante e mi preparo ad andare al lavoro: osservandomi allo specchio del bagno noto un lieve accenno di barba, nonostante me sia rasata appena ieri.
Uscendo di casa, l'aria fredda ed umida impregnata dell'odore di traffico m'investe. L'ospedale dove lavoro come infermiere si trova in fondo al Grand Boulevard. Arrivato all'Operà, vengo fermato da un gruppetto di ragazzini vestiti di stracci che, dopo avermi accerchiato, mi chiedono l'elemosina. Al mio rifiuto, si allontanano con uno sguardo sconfitto ed io proseguo per la mia strada. Quando finalmente entro, mi metto il camice bianco e lavo le mani.
L'atmosfera è quella tipica dei piccoli ospedali sovraffollati: barelle parcheggiate davanti alle porte, medici ciarlanti alla macchina del caffè intenti ad affrontare l'ennesima pausa, odore di disinfettante e di malattia.
Come tutti quelli del turno di notte, devo dare il cambio all'infermiere precedente. Adrien si è addormentato sulla sedia sgangherata che aveva posto accanto al paziente, un ottantenne moribondo attaccato perennemente al respiratore, affetto da una patologia tanto insolita quanto incurabile che lo paralizza ad intervalli piuttosto frequenti durante il giorno.
Mi avvicino circospetto al tavolino bianco di fronte al letto ed apro la cartella clinica strapiena di fogli. Nel frattempo Adrien si sveglia e, indossata la giacca, esce, augurandomi buon lavoro.
Passate circa due ore, preparo gli arnesi per fare all'anziano la puntura d'insulina delle dieci, ed appoggio la siringa sul vassoio posto sul tavolino.
La frequenza cardiaca dell'anziano è irregolare ed il respiratore emette rauci sussulti, che interpreto come presagi di un imminente decesso.
La sua famiglia lo ha abbandonato qui già da molto tempo e da allora non si sono più fatti rivedere. Osservando gli ultimi stadi di vita di quella povera anima abbandonata, mi colpisce una profonda tristezza e provo compassione, mista a rabbia e sconforto. A volte la vita è davvero crudele. Dato che è ancora presto per l'iniezione decido di schiacciare un sonnellino, così mi accoccolo sulla sedia cigolante. Amo prendermela comoda, nel mio lavoro è essenziale affrontare gli imprevisti con calma e lucidità, ed avevo appreso per osmosi dai veterani del mestiere la flemma e la pazienza da ostentare in ogni circostanza.
Mentre sonnecchio in equilibrio su quella sedia con la grazia di un fenicottero, i parametri vitali del paziente calano drasticamente e nello spazio di appena due minuti l'anima scivola via da quel corpo consunto e malato. L'elettrocardiogramma lampeggia e suona e la linea verde della frequenza cardiaca scorre fissa. Quando mi sveglio da quel dormiveglia stacco il respiratore, tolgo la flebo ed i fili ed estraggo il tubo dalla laringe. Rassegnato ma non convinto, controllo il battito premendo carotide e polso. Nulla. Mentre copro quel volto inespressivo piango lacrime disperate. In tre anni non mi era mai capitato che un paziente morisse davanti ai miei occhi.
Chiamo gli altri per avvertirli del decesso ma sembrano tutti impegnati e mi rispondono con sbrigativi cenni d'assenso o m'invitano ad attendere un minuto, che per quelli che frequentano quotidianamente quei generi d'ospedale è traducibile in un'ora.
Torno nella camera e chiudo la porta. Rimango in rispettoso silenzio.
Dopo un po' mi pare di scorgere qualcosa muoversi sotto le coperte, mi strofino gli occhi ammutolito e vedo qualcosa che mai mi sarei aspettato: sorridente, l'anziano scosta le coperte e si alza, agile come fosse tornato bambino. Sono paralizzato dal terrore e non riesco a muovermi mentre mi lega con una cintura alla sedia, neanche quando prende la siringa dal tavolino e mi inietta nel braccio la dose letale con uno sguardo vitreo ed impassibile negli occhi color bruma.
Si abbottona il camice ed esce. Parigi lo accoglie senza rancore nel mondo dei vivi. La Tour Eiffel contempla dall'alto quella distesa di nebbia e miseria e la corrente della Senna trascina con sé anche l'odio sedimentato negli animi più torbidi.
   
 
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