Halleluyah
Era una pomeriggio gelido
di fine dicembre ad Heartland City.
Aveva nevicato per tutta la mattinata e il
cielo plumbeo non dava l’ impressione di voler
smettere.
La città,
improvvisamente coperta da quel delicato manto candido, si era come
fermata;
ogni suono era stato attutito, ogni colore era scomparso, inghiottito
da tutto
quella bianca pace.
Tuttavia, ad Arclight
Manor l’ aria era carica di una strana tensione fremente.
Three esitò un istante prima di bussare alla porta della stanza di Five; sapeva che per il fratello erano giorni molto difficili, poi si fece coraggio e bussò.
“Avanti.”
Five era seduto sul bordo del letto e teneva
tra le mani un trattato di astronomia, tuttavia non lo stava leggendo; il suo sguardo era rivolto
verso il telefono
fisso, poggiato su un tavolino là accanto.
“Non hanno ancora telefonato ?” domandò
Three
“No. Avevano detto che avrebbero telefonato se la situazione
fosse
cambiata, in bene o…- esitò, quasi avesse paura
delle parole che andava a
pronunciare -… in male.”
“Come si dice, nessuna
buona nessuna nuo-“
Three non ebbe neppure il
tempo di finire la frase che il telefono squillò.
Five prese la cornetta in
mano, sperando con tutto sé stesso in una buona
notizia.
“Pronto ?”
Three vide il fratello farsi scuro in volto
mentre mormorava: “Si… Ho capito, arrivo. La
ringrazio.”
Il ventenne si precipitò
fuori dalla stanza e scese di corsa la rampa di scale rischiando di
travolgere
Four, che andava nel verso opposto.
In altre occasioni il
Puppet Master avrebbe protestato vivacemente, tuttavia stavolta,
vedendo lo
sguardo stravolto del fratello, si fece da parte senza dire
nulla.
Five prese
il trench e la sciarpa dall’attaccapanni e una volta pronto
uscì di casa: lo
salutò una folata di vento ghiacciato accompagnato da un
pugno di nevischio,
tagliente come la lama di un coltello.
Il ventenne entrò in macchina ed accese
il riscaldamento al massimo per evitare di gelarsi,
dopodiché accese il motore
e partì. Mentre guidava continuava a ripetersi, come un
mantra: “Fai che non sia troppo
tardi, fai che non
sia troppo tardi.”
Una volta arrivato in
ospedale parcheggiò e si fiondò verso la
reception, dove venne indirizzato
verso il terzo piano, stanza numero 70.
Salì i gradini due a due e attraversò
il corridoio a passo sostenuto prima di fermarsi davanti ad una porta
con una
targhetta con su scritto “Tenjo”.
Entrò.
Kite giaceva sul letto, con gli occhi
chiusi.
Accanto a lui vari
macchinari registravano i battiti cardiaci.
Il ventenne prese una sedia e si
sedette accanto a lui.
Lo guardò e gli venne da
sorridere.
Quando dormiva era
l’unico momento in cui, seppur inconsciamente, abbandonava
quell’ espressione
accigliata che lo caratterizzava e si rilassava.
Era strano ma in alcuni
momenti Kite gli ricordava, anche solo vagamente, Four.
Lo stesso carattere
ambizioso, la stessa fierezza e la medesima tendenza a nascondere nel
profondo
di sé ciò che provavano.
Con una dolcezza che non gli apparteneva Five
allungò
una mano, sfiorando la guancia del diciottenne con una carezza
lieve.
Rimase a
lungo così, carezzandolo affettuosamente, mentre la sua
mente ritornava a
cinque anni prima, quand’ erano ancora maestro e
allievo.
All’ improvviso quei
giorni gli parvero lontanissimi: troppe cose erano cambiate, troppe
porte erano
state chiuse per poterle riaprire.
Il tempo poi aveva preso un’ altra
direzione, facendo deragliare le loro vite, che fino ad allora erano
corse su
due binari paralleli.
Il tradimento di Faker,
il ritorno di Tron, la carriera di Cacciatore di Numeri di
Kite…
E tutto era
cambiato in un battito di ciglia.
Gli rimase accanto per tutta la notte,
pregando e sperando che potesse farcela.
Alla fine, quando era ormai prossima
l’ alba, stremato e oppresso dai troppi ricordi, Five
appoggiò il viso sul
materasso e si addormentò accanto al suo ex
allievo.
Si svegliò dopo un po’,
senza saper dire quanto avesse dormito; potevano essere passate ore
oppure
pochi minuti.
Sentì su di sé il peso di uno sguardo e
sollevò appena la testa,
quel tanto che bastava per ritrovarsi con gli occchi grigi di Kite a
due
millimetri dai suoi che lo guardavano con un’ espressione a
metà tra l’
imbarazzato e il divertito.
“So di essere confortevole ma la prossima volta
vedi di non usarmi come cuscino, ok ?
Five sbattè più volte le
palpebre, confuso, poi si accorse di essersi addormentato sulla spalla
del suo
ex allievo.
“Oddio, scusami” disse sedendosi sul bordo del
letto
“Non importa.
Piuttosto, come mai sei qui ?” domandò il
diciottenne
“Volevo solo sapere come
stavi.”
“Five, non mi mentire.” disse guardandolo in
tralice
“D’accordo, lo
ammetto. Sono qui perché mi mancavi.” rispose il
ventenne in tono annoiato.
Kite sgranò gli occhi. Non si sarebbe
mai aspettato che Five gli dicesse così
apertamente che sentiva la sua mancanza. “Anche tu mi sei
mancato, Chris.”
disse abbracciando il suo mentore. Five per un istante rimase
congelato, poi
dolcemente ricambiò l’ abbraccio. Rimasero a lungo
stretti l’ uno nelle braccia
dell’ altro finchè Five non si accorse che la
stretta di Kite si stava
indebolendo.
“No, non può succedere ! Ti
prego Kite, non puoi lasciarmi.” pensò
Five stringendo più forte il suo ex
allievo, quasi a volergli trasmettere tutto l’affetto che
provava nei suoi
confronti.
Più sentiva i suoi battiti rallentare
più gli sembrava che gli
stessero strappando via l’ anima dal petto.
Cercò di comprimere il dolore in un
angolo, perché non voleva che l’ ultima cosa che
il suo amico vedesse fosse la
sua sofferenza.
Ad un certo punto Kite gli sussurrò
all’ orecchio poche parole,
come a volergli dire addio, poco più di un sussurro, per poi
esalare l’ ultimo
respiro.
Five pianse, stringendo il corpo dell’ amico, con la dolorosa
consapevolezza di non poter più far nulla per
aiutarlo.
Lo depose delicatamente
sul letto per poi passargli due dita sugli occhi.
L’ unica cosa che, seppur
minimamente, riusciva a consolarlo era il fatto che Kite se ne fosse
andato con
il sorriso sulle labbra, come se la morte fosse una vecchia amica che
non
vedeva da tanto tempo.
Si alzò e si diresse verso la porta ma prima di aprirla
si voltò e mormorò
“Addio.”
Nel frattempo, fuori dalla porta si era creata una
piccola folla.
Non appena videro Five uscire la prima cosa che domandarono fu
“Come sta ?” ognuno sperando, in cuor proprio, che
la risposta fosse positiva.
Il ventenne sussurrò “Ha smesso di
soffrire.” per poi allontanarsi. Tutti gli
fecero spazio, consci che lui era la persona che più di
tutti teneva a Kite.
Uscì dall’ ospedale per
poi dirigersi verso la macchina e salirvi.
In quel momento fu felice che la sua
famiglia non gli fosse accanto.
Per quanto potessero dargli il proprio supporto
e affetto Five non avrebbe mai potuto accettare di farsi vedere
così
vulnerabile.
Era pur sempre il primogenito, la colonna portante della sua
famiglia.
La sua famiglia, per quanto fosse disastrata, era sempre stata il suo
unico sostegno.
E non poteva
assolutamente farsi vedere debole da chi contava su di lui.
Per Three e Four
era sempre stato lui il punto di riferimento, la persona che aveva
sempre dato
loro certezze.
Persino più di loro padre.
Già, persino più di loro
padre.
Non che Five si lamentasse di ciò, era soltanto che non
voleva essere visto
come un surrogato di loro padre.
Anche lui, a dispetto di quello che pensavano
i suoi fratelli, aveva avuto bisogno di una figura di
riferimento.
E quando
loro padre era scomparso era riuscito a ritrovare parte delle sue
certezze in
Kite.
Lo stesso era valso per il diciottenne, che in Five aveva trovato
qualcosa di più di un mentore: aveva trovato un
amico.
E ora che Kite se n’era
andato per sempre se n’erano andate anche le sue certezze,
volate via come
colombe ad un soffio di vento.
La speranza aveva lasciato posto alla
rassegnazione, davanti all’ irreversibilità della
morte.
Accese il motore e partì.
Non tornò verso casa, si diresse verso la campagna che
circondava Heartland
City.
Bastava allontanarsi
anche di pochi kilometri dalla città che lo scenario
mutava.
Al posto di
palazzi tecnologici, misere casette di calce bianca.
Al posto dei robot
pulisci-strada, scope di saggina.
Al posto di fast food campi di pomodori.
Sembrava di tornare cinquant’anni indietro nel
tempo.
Tuttavia, gli abitanti di
quella zona non si lamentavano.
Era una vita più difficile, ma senza dubbio più
soddisfacente e più salubre: si mangiava il frutto delle
proprie fatiche, si
godeva la gioia delle cose semplici.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando Five
fermò la macchina vicino al ciglio della strada e si
incamminò verso un ponte che
si affacciava su di un torrente.
Si appoggiò al parapetto, guardando l’ acqua
cristallina che scorreva sotto di sé.
Il fiume scorreva placidamente lungo gli argini, il sole morente arrossava il cielo coi suoi ultimi raggi, rifrangendosi sulla superficie dell’ acqua in scaglie dorate mentre una leggera brezza faceva frusciare dolcemente le foglie e la neve continuava a cadere, imbiancando il paesaggio circostante.
“E’ proprio un bel posto per morire.”
Non era stato facile prendere una decisione
così
estrema, ma ormai non gli importava più.
Ogni riferimento, ogni speranza, ogni
sogno era scomparso, inghiottito da quel bianco che lo circondava.
Nulla, neppure le
tecnologie più avanzate, né filtri e pozioni
avrebbero potuto riportare in vita
Kite.
E niente avrebbe potuto porre rimedio a quel grande buco nero che gli
si
era formato nel petto, ingoiando ogni illusione e ogni speranza,
lasciando
posto solo ad una lacerante disperazione.
In quell’ istante nulla gli parve più
dolce del sonno eterno, un sonno che gli avrebbe fatto dimenticare ogni
cosa,
ogni dolore e ogni pena, per far spazio solo al nulla eterno.
Non avrebbe
dovuto far altro che lasciarsi scivolare giù nell’
acqua gelida.
Arrendersi.
In
fondo, era convinto che neppure quell’ acqua potesse essere
più gelida del
freddo che gli albergava nel petto.
Era quasi sul punto di tuffarsi
quando un pensiero lo sfiorò.
La sua famiglia.
Come l’avrebbero presa i suoi
fratelli se si fosse suicidato ?
La risposta era una sola: gli avrebbe spezzato
il cuore.
Aveva il diritto di procurargli tanto dolore ?
“No, non
posso fargli questo. Loro hanno sempre
contato su di me e non posso tradire in questo modo la loro
fiducia.”
Gli ritornò in
mente
quando era andato a prendere Three e Four all’ orfanotrofio e
Four gli aveva
urlato in faccia che lui aveva un dovere nei loro confronti.
Ed era vero.
Quando aveva firmato per prenderli sotto la propria custodia si era
assunto delle
responsabilità.
Non poteva e non doveva abbandonarli.
No, non poteva finire la
sua vita in questo modo.
Kite non l’avrebbe potuto sopportare.
Ritornò verso la
macchina con una strana confusione nella testa.
Accese lo stereo per cercare di
arginare i sentimenti che gli sfuggivano in tutte le direzioni e
partì un
vecchissimo cd di Beethoven.
Accompagnato dal suono del pianoforte accese il
motore e fece ritorno verso casa.
Angolo Autrice:
Per la serie "A volte ritornano" ecco a voi Halleluyah 2.0 ! Riscritta
daccapo con l' aiuto della mia insostituibile beta, ho corretto tutti
gli errori presenti.
Recensite, ho bisogno di feedback oppure non scrivo più.