Antigone
Molte sono le cose tremende,
ma nulla è più tremendo dell’uomo.
Beati
coloro che vivono
senza provare sventura.
Ma
quando un dio sconvolge la casa,
ogni
genere di sciagura
si
abbatte su tutta la sua discendenza:
così, sospinta dalle raffiche maligne dei venti traci,
l’onda corre sull’abisso buio del mare
e rovescia dal fondo la sabbia scura;
rimbombano,
gemono, le coste
battute dalle onde, dai venti ostili.
[Sofocle, ANTIGONE]
I.
Era stata la notte più nera, ad Atene, che si sarebbe mai ricordata,
nonostante lo sfolgorio di mille e mille stelle, sulla volta celeste: il buio
le rendeva piccole e lontane. Era un buio di sventura, quel cielo viola che le
inghiottiva, testimoni piccoli e sconsolati di una notte dove la luce fu data
piuttosto dalle torce agitate dai soldati, nello scompiglio. Urla e fuoco, e
comandi imperiosi.
La luce e il destino erano in mano ai mortali.
Le costellazioni si eclissarono, allora, non interpellate.
Chiudendosi in uno sdegnoso silenzio.
“Dicono che un editto abbia imposto ai
cittadini
che nessuno lo seppellisse o lo onorasse di
pianto,
ma fosse lasciato senza compianto, senza
tomba,
tesoro gradito per gli uccelli che lo
spiano ansiosi del pasto.”
Furono giorni tristi.
Si mormorava sul cadavere di un eroe traditore.
Si diceva – pare almeno – che fosse morto all’Acropoli, sporcando di rosso le
sacre colonne del Partenone. Il corpo non fu mai ritrovato, perso nell’oblio, e
non mancò chi disse che era solo un bene: ché il limpido sguardo di Athena dall’alto
del Santuario non avesse di che crucciarsi.
Per il resto, erano state date precise disposizioni, che nessuno lo cercasse: che
gli spettasse la sorte che era sempre spettata agli infami, dai tempi dei tempi,
la stessa che Achille aveva deciso per Ettore, mentre si straziava d’amor
perduto, su Patroclo, l’amico Patroclo,
freddo e senza vita, e infieriva sul cadavere dell’odiato uccisore, legato per
i piedi al carro di guerra.
Che nessuno lo seppellisse o lo onorasse
di pianto, si era detto, lasciato
senza compianto, senza tomba!
Quante volte l’Atride avrà trascinato l’odiato
assassino negli sterpi e nella polvere attorno all’ormai vinta Troia, in segno
di disprezzo, tante volte il Pontefice pareva determinato a gettare disonore su
chi aveva tradito. Si mormorava.
Ma la sua maschera lucida era più muta ed inflessibile che mai – più di quanto
lo fosse stato negli ultimi anni. Un rigurgito di ferocia come fiamma nuova. La
maschera era muta, ma i suoi occhi brillavano.
Era stato emanato un editto.
Suscitò sgomento, perché tutti ricordarono con un sussulto i biondi riccioli di
Aioros nel vento, la carezza paterna che aveva avuto per ognuno di loro. La
risata, l’allegria. Il bel volto di Aioros, innocente.
Ma era il destino di un traditore, dai tempi più antichi.
Pagare disonore con disonore.
E la parola del Pontefice fu Legge.
“Un bando intima a questa città di non
degnarlo del sepolcro né del lamento funebre
ma di lasciarlo senza tomba, carogna
mutilata, sotto gli occhi di tutti, banchetto di uccelli e cani.”
Saga digrignava i denti, sotto quella maschera.
Senza scoprirsi. Ancora con il fiato corto, come una bestia braccata nella
tana.
Ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta. E la sua parola ora era legge. Era vergata
nero su bianco, era stata scritta, era stata annunciata. E ad ogni fiato
possente del banditore che annunciava il suo decreto, il suo decreto, i denti si stringevano in una morsa compiaciuta, il
battito accelerava nei polsi, sanguigno e forte, in quell’esplosione della sua
schiacciante vittoria: un godimento animale, un brivido erotico, che era
incapace di trattenere in pieno trionfo. La legge, la propria legge, l’umiliazione, la sua.
Decretata ed applaudita.
Aioros, l’odiato rivale, giaceva insepolto. Morto e insepolto.
Avrebbe dormito, in quel letto sontuoso, i migliori sonni della sua vita.
Si sarebbe coricato tra le lenzuola di seta, senza smettere di assaporare il potere che sentiva metallico sulla punta della lingua, negli avambracci forti, nelle dita affusolate che ora avevano potere di vita o di morte grazie al cenno più insignificante. Avrebbe dormito il miglior sonno della sua vita, quella prima notte dopo l’editto dall’ingiustizia più magnifica, più eccelsa; ma non si accorse, nella sua gloria, della figura ammantata di nero che lasciava, silenziosa, il palazzo, senza farsi vedere né udire da nessuno.
- Hai qualche altra disposizione da darci?
- Di non schierarvi con i ribelli.
- Chi è così folle da desiderare la morte?
- Sarebbe proprio questa la ricompensa.
La figura procedeva con passo svelto ma cauto, guidata da
niente se non dall’istinto.
Sotto il mantello recava con sé unguenti e libagioni, in piccole anfore, bende
di lino, e un cuore carico di cordoglio. Se non l’avesse fatto lui, chi mai
avrebbe potuto? Soltanto lui sapeva la verità.
E avrebbe dovuto abbandonare Aioros agli artigli dei rapaci, ai denti dei cani
crudeli? Lasciare che la sua carne rosea fosse deturpata, che il suo cuore
forte e giusto divenisse immondo pasto per le fiere?
Aioros, anima bella, come farai senza l’obolo di Caronte sotto la lingua a
pagare pedaggio ed oltrepassare la palude dei morti insepolti e senza onore?
Era questo che spingeva i suoi passi furtivi, ma pervasi da una strana calma.
La serenità del martire che va incontro alla propria sorte, certo la morte non
la teme, e allora tanto vale affrettarsi, sì, ma per l’ansia di rivedere quel
corpo amato e sperare di ritrovarlo il più possibile salvo, salvo, che gli dèi possano averlo preservato sino
al suo arrivo!
Si era mosso in fretta, più in fretta che aveva potuto.
In un momento in cui il Pontefice non vegliasse. Di nascosto.
Quella che sarebbe poi stata nota come la Notte degli Inganni l’aveva tenuto
fermo, trattenendo il respiro, in attesa del compiersi del destino, che quella
notte pareva in mano ai mortali, più che alle stelle. Tra le scie delle torce
furiose, aveva gioito e tremato, e poi c’era stato il sangue. Il giorno dopo,
l’editto; e i pianti che si sarebbero levati al cielo avevano taciuto, perché
al morto erano stati vietati persino i lamenti funebri. Appena era calato il
sole, dunque, senza esitazione, lui aveva cominciato a muoversi nell’ombra,
quieto. E nella notte più fonda, aveva lasciato il palazzo, recando con sé
unguenti e libagioni, bende di lino, e l’obolo per il traghettatore dei morti,
che il pensiero di Aioros, anima bella e splendente destinata a vagare in
eterno, gli stringeva il cuore, già inaridito e prosciugato dalla sua morte
ingiusta.
Il nuovo Pontefice, l’usurpatore e il traditore, se ne accorse troppo tardi, di quel che stava succedendo.
Si risvegliò di soprassalto, in una notte nerissima, quella che avrebbe dovuto cullare il sonno più lieto.
“Che cosa?”
E non era fra le lenzuola di seta che dovevano avvolgere il suo corpo
trionfante.
Inizialmente non capì, poi l’oscuro presagio gli raggiunse le narici sotto
forma di olio profumato, e di essenze dolci. E gli dettero la nausea. Nausea
che un corpo più solido del suo represse, intento com’era a rendere delicati i
suoi movimenti: mani pietose stavano lavando ed asciugando un corpo che la
legge gettava al disonore. Mani tremanti, in certi momenti, salde, in altri,
che detergevano la pelle bruna di quello che un tempo era stato il cavaliere
più ammirato del Santuario. Lavavano via il sangue, lavavano l’infamia.
Mi dispiace, Aioros,
scorrevano giù le lacrime. Mi dispiace
che non vi siano donne a compiangere il tuo corpo amato, a lavarlo e
cospargerlo di essenze, ad avvolgerlo nel lino candido.
“Smettila!” tuonò il santo che aveva tradito, gli occhi iniettati di
sangue, non appena tutto l’orrore dell’infrazione al suo decreto gli fece
venire la pelle d’oca. “Che cosa stai facendo?”
Mi dispiace che la mia veglia possa
durare una notte sola.
“Come osi?!”
Che la tua tomba debba essere scavata in
fretta, che non vi siano corone di fiori ad ornarti il capo. Non sbocciano
fiori notturni, tra queste sterpaglie, ed io ho solo questa notte per renderti
onore.
Per un attimo l’uomo più potente del Santuario dovette tacere, tremando di
rabbia e di sgomento.
Non riusciva a crederci.
Che non possano essere indetti giochi,
come per l’innocente e coraggioso Patroclo, in
funerali solenni e pubblici. Mi dispiace, Aioros. Mi dispiace.
“Folle!” la bocca del Pontefice si distorce in un ringhio ferino, che fa
sobbalzare la figura ammantata. “Folle e scriteriato! Credevo di averti messo a
tacere per sempre, ma cesserai presto di perseguitarmi: non ti accorgi di
quello che stai facendo?”
Onorava e preparava la sepoltura al cadavere di un traditore.
La pena era la morte. La pena… ma dovette interrompersi.
Il mantello nero si dovette sciogliere dalla fibbia che lo teneva allacciato,
nei movimenti difficoltosi delle braccia che soccorrevano pietosamente il loro
fardello, perché una cascata di capelli color del mare erano emersi,
sparpagliandosi sulla schiena e sul petto. Luccicavano sotto le stelle. Questa
volta, nessuna torcia.
- Sarò io a dargli sepoltura.
E sarà bello, per me, morire in questo slancio.
Il Pontefice tacque. Saga alzava gli occhi al cielo
stellato, che si riflesse nei suoi occhi blu silenziosi. Assorto, senza cedere
alle lacrime che in un attimo di debolezza avevano risvegliato colui che doveva
dormire, chinò il capo per riprendere il lavoro. E carezzò con dolcezza il viso
per miracolo incorrotto dell’uomo per cui un tempo avrebbe dato la vita, prima
di avvolgere il suo corpo offeso nei teli funebri, ignorando quelle grottesche
minacce di morte che lui gli
ingiungeva.
- Amata giacerò col mio amato, compiuto un
crimine sacro: è più lungo
il tempo in cui dovrò piacere ai morti,
che non ai vivi. Perché là giacerò per sempre.
II.
La terra era dura.
Saga scavava.
Aveva acquietato la voce feroce che gli rimbombava in testa,
e aveva smesso di piangere.
Per fare ciò, aveva dovuto smettere di guardare in viso Aioros, l’amato Aioros.
Le lacrime non l’avrebbero riportato in vita; cercò di isolare qualsiasi
pensiero al di fuori di sé, limitandosi ai gesti meccanici con cui trarlo in
salvo dall’onta, con cui dargli una sepoltura onorevole, laggiù, così lontano
dal Santuario, di nascosto da tutti, dopo averne decretato la morte e il
disonore. Infrangeva il suo stesso decreto. L’aveva già infranto.
- E hai osato calpestare queste leggi?
- Non era certo stato Zeus a proclamarle,
né Dike che abita con gli dèi di sottoterra.
Scavava.
A capo chino, senza tempo per la vergogna, per il senso di colpa. Accumulava la
terra lontano dall’involto bianco latte, che voleva preservare – spostò con
tenerezza un lembo della stoffa bianca troppo vicino alla fossa – da ogni
ulteriore male.
- Non furono loro a stabilire queste leggi per gli
umani.
E non pensavo che i tuoi bandi avessero tanta forza da consentire a chi è
mortale
di trascurare le leggi non scritte, ma salde, degli dèi, che non sono nate
oggi, non ieri,
ma vivono dall’eternità e nessuno sa
quando si rivelarono.
Senza tempo per il dolore.
Quello l’avrebbe assalito dopo.
Per Saga era abbastanza essere sgattaiolato via da palazzo, in una notte nera,
mentre Saga il Pontefice e l’usurpatore e l’assassino dormiva, ed accorrere
guidato da niente se non dall’istinto, sotto il mantello unguenti per lavare il
corpo e libagioni da tributare agli dèi degli Inferi, in piccole anfore, come
voleva la tradizione. Se non l’avesse fatto lui, chi mai avrebbe potuto?
Soltanto lui sapeva la verità.
“Sciagurato” ringhiava qualche oscuro
anfratto dentro di lui, nel nero. “Mentecatto!
Perché lo fai? Perché mi sfidi? Perché?”
Saga non rispose, sbattendo le palpebre per richiudere la voce al di fuori.
O al di dentro, ma più in fondo. Per qualche ora ancora. Per quella che forse
sarebbe stata la sua ultima notte.
Perché per non pensare alle lacrime che l’avrebbero risvegliato, furente, la
sue mente vagava tra le parole solenni di una tragedia antica…
- Perché mi accorgo che offendi la
giustizia.
- La offendo, se onoro le mie prerogative?
- Non le onori, se calpesti quelle degli
dèi.
La morale di Saga, Antigone la martire.
Il potere del Pontefice, Creonte il tiranno.
Come in sogno, Saga prese tra le mani quell’involto pesante, che era piuma fra
le sue braccia di santo d’oro che frantumava le rocce. Tremò, ma fu con mano
ferma che gli diede sepoltura, nella fossa che lo aveva fatto sudare di fatica
e timore, che gli aveva rotto le unghie, che gli aveva spezzato il cuore.
Antigone, la martire, Creonte, il tiranno. Come echi
nella sua testa, da un anfiteatro dove le maschere si scagliavano improperi
davanti ai suoi occhi di fanciullo. Eccoli, si susseguivano nella sua mente
senza rispettare l’ordine delle battute, come ogni eco di fantasma fa. Ed ecco
le maschere, bianche, dietro le palpebre affaticate – la notte, il lino bianco
che avvolgeva Aioros, tutto era confuso – ecco Antigone, ecco Creonte!
- Il nemico non è mai amico, nemmeno dopo
morto!
Trattenne il fiato.
Aioros non era nemico. Era l’amico più amato. Era…
Ed era rivale, avrebbe replicato il Pontefice, l’assassino. Rivale dannato, che possa marcire nella
palude stigia!, rimbombava latrando nei suoi timpani, come se l’avesse
detto. Marcisca!
Era l’amico più amato. Era l’amore. Era l’amore che aveva lasciato marcire
dentro inconfessato. Ma era l’amore, e l’amore era Athena, che li faceva
nascere per proteggere Giustizia, per proteggere ancora Amore.
Trattenne il fiato di nuovo, barcollando. Eccola, Antigone, bianca, che si
ergeva:
- Non sono nata per condividere l’odio, ma
per amare con chi ama.
Lo trattenne ancora. Sapeva cosa sarebbe seguito.
- E allora, se devi amare, vattene laggiù,
ad amarli!
Seppellì il volto tra le mani.
La serenità del martire che va incontro alla propria sorte, certo la morte non
la teme, e allora tanto vale affrettarsi, sì, ma per l’ansia: Aioros, anima
bella, come pagherai pedaggio a Caronte senza l’obolo dorato?
Lentamente, Saga scostò i lembi del lenzuolo che giaceva infagottato nella
fossa che aveva scavato tutta notte, mentre il Pontefice dormiva. Aioros
dormiva, come l’aveva visto dormire tante volte al suo fianco, nei pomeriggi
piovosi, dopo l’addestramento spalla a spalla. Si era ripromesso di non
guardarlo in viso, ma non poté farne a meno. Doveva pagare pegno. Si era
ripromesso anche questo.
“Quale giustizia ho violato, dèi divini?
ma perché, nella mia sventura,
dovrei rivolgere ancora lo sguardo agli dèi?
Chi chiamerò a combattere al mio fianco,
se sono stata dichiarata, per troppa pietà, empia?”
Saga annaspava, correndo, ormai, i capelli abbandonati nel
vento.
Ogni immagine negli occhi, ogni profumo, ogni sensazione che non fosse il
vento, cercava correndo di imprimerla a fuoco dentro di sé, in un luogo molto,
molto nascosto. Per ogni tocco delle sue dita impregnate d’olio, per ogni
sguardo ferito che aveva posato su quel corpo che nessuno doveva più vedere.
Era sotterrato, era al sicuro. Era stato onorato. Era stato interrato assieme
alle libagioni offerte agli dèi dell’Ade, le mani tremanti di Saga, sì, sì, gli
avevano schiuso le labbra – labbra amate, dèi del cielo, che gli dèi del cielo
lo perdonassero, se il pianto l’aveva scosso – e gli avevano porto in bocca
l’obolo rituale, prima di sotterrarlo in un mare di lacrime. Adesso correva via
da quella tomba segreta, nascondendo ogni dettaglio ed ogni ricordo, all’impazzata,
nelle pieghe più recondite di sé stesso, in un punto in cui nessuno avrebbe
potuto trovarle. Poiché la sua condanna era stata segnata, correva perché non
fosse sorpreso, perché la tomba fosse lontana e lui potesse nascondere tutto,
prima, prima, prima.
Nella sua testa vorticavano impazziti fantasmi di maschere bianche, Antigone e Creonte.
Una tragedia antica. Un Coro che ne decretava il destino.
“Sacra pietà, rendere onore ai morti.
Ma chi ama il potere
non consente mai che qualcuno lo calpesti.
Ti ha uccisa il tuo slancio di orgoglio ostinato.”
III.
Il Pontefice si svegliò di tarda mattina, baciato dal sole.
Non c’era spossatezza nelle sue membra che potesse sopraffare la scarica di
adrenalina che lo attraversò selvaggia: vincitore! Vincitore, sì, su tutto e
tutti!
Ignaro di quanto fosse accaduto durante la notte, ignaro della tomba lontana,
coronata di mirto e alloro, Saga il Pontefice, l’usurpatore e l’assassino si
risvegliava con la sensazione di trionfo su tutto. Aveva sentito, nelle prime ore
del mattino, gli ultimi echi stanchi di quella voce bella che aveva sollevato
gli ultimi lamenti per contrastarlo. Aveva fatto appello alla pietà e all’amore
– all’amore per quel babbeo, per giunta
– e l’aveva sentita fremere come se volesse correre lui di persona, lui, a seppellire con le sue mani
corrotte dal peccato il corpo di Aioros di Sagitter,
contro ogni decreto. Ma adesso era mattino inoltrato, e di quella voce non era
rimasta traccia. Il nuovo Pontefice, creatura dagli occhi di brace, l’aveva inghiottita.
Era sparita per sempre.
Era una nuova era.
Era una nuova era su cui poter estendere il proprio dominio.
Era una nuova era, e nessun atto di pietà l’inaugurava: si augurò in un ultimo
fremito d’odio di poter ritrovare un giorno il cadavere di Aioros, colui che
l’aveva intralciato, dilaniato e fatto a pezzi dalle aquile.
Ma per il momento assaporava il senso di vittoria incontrastata, sul palato: il
suo decreto era Legge, come tutti quelli che l’avrebbero seguito. Aveva il
potere assoluto nelle sue mani. Aveva ogni cosa.
“E tu sappi che non si compiranno ancora
molti giri del sole senza che tu abbia fornito, cadavere in cambio di cadaveri,
un frutto delle tue viscere, a baratto dei vivi che hai cacciato laggiù!”
Certo, se non avesse ancora in testa echi strani, versi
alti, in lingua antica.
Una di quelle tragedie a cui da fanciullo aveva senz’altro assistito, gli occhi
grandi sulle maschere degli attori. Sono versi che rimangono impressi.
“E di una vita mutata in un sepolcro,
nell’infamia, e del morto che tieni qui, dopo averlo sottratto agli dèi di
sottoterra,
senza onori funebri, senza sepoltura, carogna sconsacrata!”
Ghignò, quasi compiaciuto.
Un indovino di sciagura.
Era quel tipo di personaggio che
in una tragedia scatenava le calamità sulla testa del tiranno.
E provasse un indovino, ora, un profeta cieco ed invasato, a fermarlo!
“E non è compito tuo, né degli dèi Olimpi,
che subiscono da te questa prepotenza.
Già ti preparano agguati le Erinni di Ades e degli
dèi,
le distruttrici, che prima o poi colpiscono,
per intrappolarti in questa stessa rovina!”
Si alzò, lasciando che le lenzuola scivolassero da quel corpo scultoreo e nel pieno delle forze. Lasciò che quegli echi minacciosi gli attraversassero soffusi le tempie. Le unghie e i palmi delle mani erano rovinati, rifletté stendendo e ripiegando le dita. Possibile che fosse dovuto alla troppa tensione con cui aveva stretto i pugni quei giorni. Ma ora aveva vinto.
“E presto urla di uomini e di donne
risuoneranno nel tuo palazzo
e tutte le città sono squassate dall’odio, perché le membra dei loro guerrieri
sono state sì onorate di sepoltura,
ma dai cani o dalle fiere o da qualche uccello alato,
che trasporta un tanfo impuro ai focolari della città!”
Ignorò ogni ricordo di voce tremula e minacciosa. Ogni
profezia di sventura.
Il Pontefice regnava. Saga di Gemini taceva. L’aveva condannato a morte.
“Sono questi i dardi che ti scaglio nel
cuore,
con mano salda, come un arciere, nella furia!
E ti bruceranno dentro, senza scampo.”
Note e commenti:
Wow.
E così ha termine un Parto Angst, scritto in una sola giornata in cui mi sono isolata
dal mondo.
Il parto è stato sommariamente breve, ma il travaglio immenso, dato che me lo
trascino dietro da mesi (una gravidanza pesante, a tutti gli effetti).
Ringrazio spietatamente LeFLeurDuMal
che mi incitava e ricattava e che alla fine ha tentato di ammazzarmi, Kijomi per i
gnaulii e il supporto dolcissimo e costante, e Labelledame per l’estremo betaggio (che fa molto estrema unzione, ma nelle dolci
manine di un abitante del Jamir è tutt’altro <3)
Credo che non ci sia molto da aggiungere; spero solo che la fanfic
sia stata di vostro gradimento, e di non avervi stufato, e che tutto risulti
chiaro, perché qua e là la mia vena sadico/masochista ha deciso di far fare
capriole al testo, sperando di cogliervi in contropiede. Prego Athena affinché
la sua efficacia non ne abbia risentito. *C*;
I. La bella edizione di
Antigone cui mi sono servita per produrre questo scempio shonen
ai angst è quella dei Grandi classici tascabili Marsilio (Sofocle, “Le Tragedie”), traduzione
e cura di Angelo Tonelli.
Non capendo una cispa di greco, una valutazione della sua traduzione la lascio
a chi di dovere: io personalmente l’ho trovata perfettamente scorrevole e molto
bella da leggere.
II. A Sofocle comunque spettano tutti i credits per ogni parola in corsivo su cui posate l’occhio. Tranne
quando Arles il Pazzoide urla improperi contro Sagitter,
ovviamente. *O* Un’ovazione per Sofocle!
Approfitto anche di questo spazietto per ringraziare rapidamente tutti i commentatori che mi hanno lasciato messaggini sparsi nelle altre fic! <3
“Il rosso e il bianco”:
Kijomi e Fleur sanno
della mia passione per le fake-crack e se l’aspettavano
benissimo: ciononostante le loro reazioni mi fanno sempre imbizzarrireh.
Shinji
poteva aspettarselo perché ormai mi conosce, ma è bello scioccarlo. Ah-ah. <3
La Pucchy
è stata battuta sul tempoh, ma sarà questione di
giorni ne sfornerà altre millesei, di fic, quindi io
combatto come posso! çOç Dannata! E comunque l’avevo
promessa.
Anche a Kagura,
ma lei non ci ha creduto e ne ha pagato le conseguenzeh!
Mwahahahahah! *abbraccia* XD
Ichigo, ayay e Gem vanno sguanciottate perché non mi hanno insultate nonostante shippino – o mi pare di capir così – il pairing,
e infatti si beccano un sacco di bacini per indennizzo. *O*
ArabianPhoenix
e avalanche
mi sembrano lanciate come me, quindi mi unisco al coretto. Come vicini di casa
Leo e Virgo sono i meglio, comunque! XDDD
li_l mi
aveva sgamata. LOL. Ma dai, ero sgamabile, non sono capace di farle come si deve… mmmh, Shaka dedito al
giardinaggio, perché no: non lo vedi che è Aioria a fare tutto il lavoro gramo?
L’etereo biondo se ne sta sotto l’ombra del colonnato a dare ordini su come
organizzare l’estetica attorno a casa sua, come no. E anche Aphrodite. XD
E per finire un bacione e l’ennesimo ‘grazie’ a beat che mi segue sempre passo passo,
facendomi sentire una starh! *O*
E poi…
Grazie
di nuovo ad avalanche
che mi ha commentato le drabble, i tuoi complimenti
sullo stile mi hanno fatto piacerissimo! çOç Ed un grazie enorme anche a ayay che ha avuto il fegato - graziegraziegrazie
– di leggersi la mia AU “fiabesca” su Saint Seiya ormai di un anno fa… ARRRGHH! Devo finirle! Ci rimetterò mano prestissimo,
questo è un giuramento… *C*;; *SI SENTE IN COLPA*