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Autore: Losiliel    23/12/2015    3 recensioni
"Il suo corpo si riprese dai tormenti e riacquistò salute, ma l'ombra delle sofferenze subite era nel suo cuore" (Il Silmarillion, cap. XIII - Il ritorno dei Noldor).
Nelyafinwë, salvato da Findekáno, deve affrontare i propri demoni prima di riprendere il suo ruolo tra i Noldor quale erede di Fëanáro.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fingon, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Capitolo Nono - I figli di Fëanáro


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Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

La mattina seguente, per la prima volta dal giorno del suo risveglio, Nelyafinwë chiese al cugino un aiuto per vestirsi.

Nella speranza che servisse a recitare meglio il ruolo che doveva interpretare, aveva scelto di indossare un abito elaborato, portatogli da Makalaurë diversi giorni prima, quando era convinto che sarebbe rientrato al loro accampamento al più presto. Aveva lacci da stringere, bottoni da allacciare e degli stivali al ginocchio che da solo non sarebbe mai riuscito a infilarsi. Findekáno tentò anche di intrecciargli i capelli, ma erano ancora troppo corti e alla fine si accontentò di legarglieli in una semplice coda dietro la nuca.

Quando uscirono all'aperto, il sole cominciava a spuntare da dietro le vette e lambiva la radura con tiepidi raggi obliqui. L'azzurro intenso del cielo non contemplava nemmeno l'idea di una nuvola, l'aria era fresca e pungente, l'erba ancora bagnata dal temporale del giorno precedente.

Si misero al lavoro per allestire il campo per l'incontro con i fratelli, compito che ricadde per lo più sulle spalle del cugino, il quale vi si dedicò insolitamente silenzioso.

Quando ebbero finito, Findekáno recuperò ciò che mancava per completare l'abbigliamento di Nelyafinwë e gli si avvicinò.

Anche lui indossava abiti più ricercati di quelli che era solito portare nel loro piccolo accampamento: una camicia celeste scuro, che ben si intonava con il colore dei suoi occhi, e pantaloni blu notte, aderenti, che terminavano infilati in stivali di pelle. Persino i suoi capelli erano diversi dal solito; li portava sciolti, come un mantello d'ombra sulle spalle. 

Findekáno lo aiutò a infilare i parabracci in cuoio, decorati dallo stemma di Fëanáro in rilievo, gli fece indossare la casacca di un pregiato tessuto rosso scuro adorno di ricami dorati, gli strinse poi in vita la cintura alla quale era agganciata la sua spada lunga, e gli fissò sulle spalle il mantello bruno. Infine, con sua grande sorpresa, estrasse da un sacchetto di stoffa la fascetta di rame con cui Nelyafinwë era solito cingersi la fronte nelle occasioni ufficiali, a corte, quale principe ereditario della Casa di Finwë.

Quando gliela sistemò sul capo, i loro sguardi si incontrarono.

– Sei pronto – gli disse il cugino, con un sorriso incoraggiante. E proprio in quel momento, in lontananza, si udì debole ma distinto lo scalpitio di molti cavalli in avvicinamento.

All'udire quel suono Nelyafinwë venne assalito da un'ondata di panico improvviso. Tutto a un tratto, a dispetto della giornata luminosa, dei suoi vestiti ricercati, della presenza rassicurante del cugino accanto a sé, si ritrovò ad essere ancora appeso nelle tenebre, nudo, disperato, ferito, solo. 

Nel suo futuro vide solo morte, ed ebbe la chiara percezione che tutto sarebbe stato inutile.

Doveva trovare subito qualcosa a cui aggrapparsi, per non affondare nella disperazione.

Ebbene... c'era Findekáno, a non più di una spanna da lui, con quello sguardo che tracimava ammirazione, quell'espressione fiduciosa, quel sorriso disarmante… Gli sembrò di non avere alternative. Afferrò il mento del cugino, si chinò su di lui e lo baciò sulle labbra.

Findekáno reagì come se non stesse aspettando che quello, da giorni. Gli si aggrappò al bavero della casacca e lo tirò a sé con forza, facendo aderire i loro corpi. Sopraffatto dall'entusiasmo della risposta, Nelyafinwë esitò, incerto su come procedere, ma il cugino dimostrò di sapere benissimo dove voleva arrivare, perché inclinò leggermente il capo per agevolare il contatto e schiuse le labbra contro le sue, in un chiaro invito.

Tipico di Findekáno, trasformare sempre tutto in una sfida! Nelyafinwë si riscosse e la accettò. Col braccio destro gli circondò la vita, bloccandolo contro il proprio corpo. Gli fece scivolare la mano lungo il collo fino a raggiungergli la nuca. Affondò le dita nei suoi capelli sciolti e lo trasse a sé, forzando le loro labbra a un contatto più pressante. Ormai senza freni, assecondò la provocazione del cugino e quando arrivò a sentire il suo sapore sulla lingua non seppe dire se il gemito che udì fosse scaturito dalla sua gola o da quella di Findekáno.

Nel mondo reale, intanto, il rumore degli zoccoli sullo sterrato si faceva sempre più vicino. 

Basta così, pensò confusamente Nelyafinwë.

Invece chiuse gli occhi, nel tentativo di escludere dalla sua percezione tutto ciò che non fosse lui e il cugino. Il bacio si fece più profondo e il controllo della mente meno saldo. Ora lo investivano emozioni a ondate, come sospinte dall'eccitazione crescente. Ammirazione, amore, desiderio, speranza, fiducia. Non era difficile capire a chi appartenessero. O a chi fossero dirette. 

Il terreno vibrava sotto i loro piedi adesso; Nelyafinwë realizzò vagamente che entro pochi secondi i cavalli avrebbero fatto irruzione nella radura.

Basta così, pensò ancora, debolmente. E per darsi la forza di interrompere, evocò la terribile visione dei suoi fratelli che lo trovavano impegnato in un bacio appassionato col figlio di Nolofinwë.

Non abbastanza terribile, evidentemente, perché non riuscì comunque a staccarsi dal cugino.

Fu Findekáno a tirarsi indietro.

– Vuoi farci ammazzare? – ansimò. – Di tutti i dannati momenti…

Con un'unica mossa si sciolse dalla sua presa e gli scivolò alle spalle, proprio nell'attimo in cui Makalaurë, primo tra i fratelli, faceva il suo ingresso nella radura. 

Nelyafinwë si passò una mano sul viso per riprendere il contatto con la realtà, e si trovò inaspettatamente lucido a fronteggiare la situazione. Il suo istinto gli aveva detto il vero: tramite quel contatto, tutta la determinazione e tutta la sicurezza di Findekáno sembravano essersi trasferite a lui; di quel breve momento di oscura disperazione non era rimasto neppure il ricordo. Nel vedere i fratelli, orgogliosi e impazienti, che irrompevano nella radura e scendevano dai loro imponenti destrieri, capì che sarebbe stato in grado di dargli l'immagine di sé che lui aveva deciso.

Li affrontò fiero, come si affronta un nemico in battaglia, alzando il viso contro la luce che evidenziava le cicatrici che lo percorrevano. Celò il braccio destro sotto le pieghe del mantello e offrì loro la figura perfetta da cui aveva preso il nome. Confinò i propri timori dietro un'espressione risoluta e mostrò loro occhi che rifulgevano di ardore e del fuoco che aveva abitato lo spirito del padre.

Ed eccoli che avanzavano, i formidabili figli di Fëanáro, alti, nobili, lucenti nelle loro cotte di maglia, con grigi sguardi affilati, allenati a registrare i minimi dettagli, armati di spade forgiate nelle Terre Immortali e di scudi decorati con lo stemma della loro casata.

Eppure lui non si sentiva per nulla intimidito, perché nonostante tutto quello a cui era stato sottoposto, o forse proprio a causa di quello, era ancora il primo tra loro. I suoi fratelli erano determinati, certo, ma non come lui, che era sopravvissuto alla tortura. Erano letali, ma non come lui, che era alimentato dall'odio inestinguibile. Erano un branco di belve feroci pronte a scattare. Inarrestabili sotto una guida capace, ora ancor più pericolose perché lasciate a sé stesse.

Sarebbe stato lui la nuova guida? L'avrebbe scoperto entro breve.

I primi che gli si avvicinarono furono gli Ambarussa. Scostando con forza i maggiori che intralciavano loro la via, i gemelli gli si gettarono addosso con le lacrime agli occhi. Se lo aspettava dai più giovani, ma ne fu ugualmente commosso. Mantenne il controllo e distribuì parole di conforto e baci su quelle chiome così simili alla sua. Poi li allontanò con dolcezza.

Dopo arrivò Tyelkormo. Splendido, incontenibile, selvaggio, travolgente. Non si leggeva né rimorso né senso di colpa nei suoi occhi chiari. Lui era certamente tra quelli che avevano spinto per l'azione immediata contro il Nemico. Incapace di accettare l'onta della sconfitta, ancor più che la prigionia del fratello, la rinuncia alla battaglia, più che il fallimento dell'impresa. Lo strinse in un abbraccio breve, ma dalla presa forte.

– Bentornato Russa. Le cose si facevano complicate senza di te. – Lo disse con un ghigno feroce, ma evitò di proposito di guardare verso Makalaurë.

Poi lasciò il posto a Carnistir, che si stava avvicinando cauto, come se dovesse affrontare un giudizio di cui conosceva già la sentenza. Ciocche di capelli neri gli ricadevano sul viso arrossato. Borbottò parole che potevano essere di scusa e chinò il capo di fronte a lui, se per nascondere il proprio disagio o in segno di rispetto verso il Re, Nelyafinwë non poteva saperlo.

Ed ecco infine la prova più difficile da affrontare: Curufinwë, che portava il nome di suo padre, che gli somigliava nell'aspetto, nel portamento, nel modo di esprimersi. Era Fëanáro in tutto e per tutto. Tranne che per lo sguardo: nel fuoco dell'orgoglio non si annidava il seme della follia. Ancora.

Quante cose in sospeso tra loro! Il figlio destinato a succedere al padre e quello che ne incarnava tutte le aspettative. Il primogenito e il preferito.

Il fratello gli si avvicinò lentamente, con lo sguardo fisso nei suoi occhi, per nulla distratto dai segni incisi sul suo viso. Come Fëanáro anche lui era capace di leggere nel profondo dell'animo. Sembrò trovarci qualcosa che lo convinse, perché dopo un lungo istante il piccolo padre abbassò la testa davanti all'erede. 

Makalaurë venne per ultimo. Lo abbracciò forte, poi lo prese per le spalle e lo squadrò da capo a piedi. Il suo volto esprimeva piena approvazione.

Davanti al suo fratello più caro Nelyafinwë si concesse un momento di debolezza. – Starai al mio fianco? – gli domandò, sottovoce.

– Russandol – gli rispose il fratello, stringendo la presa, – se c'è una cosa che ho imparato da tutto questo, è che non smetterò mai più di stare al tuo fianco.

Nelyafinwë annuì. Era ora di andare in scena.
 

-
 

Li condusse presso la sorgente, dove lui e il cugino avevano allestito un grande piano d'appoggio ricavato dal tronco di un albero caduto, e rivestito poi da un lenzuolo che faceva le veci di una tovaglia, sul quale erano già disposti una brocca d'acqua e diversi bicchieri. Le pietre bianche e alcune sedie da campo lo circondavano.  

– Vuoi davvero far sedere qui i rampolli della dinastia di Finwë? – gli aveva chiesto Findekáno guardando ciò che, solo con molta fantasia, si sarebbe potuto paragonare a un tavolo contornato da seggi. – Non saranno certo a loro agio.

– È proprio quello che non voglio – gli aveva risposto, – che si sentano a loro agio.

Mentre li guardava accomodarsi su quelle dure pietre, Nelyafinwë fu certo di aver raggiunto lo scopo. Lui rimase in piedi e fece la sua prima mossa.

– Findekáno! – chiamò.

Il cugino uscì dalla tenda dove si era rifugiato, secondo i piani, e lo raggiunse con passo sicuro. Il suo atteggiamento non tradiva la minima incertezza. Bisognava dargliene atto, pochi sarebbero stati coloro che avrebbero reagito con altrettanta disinvoltura ai sette sguardi che lo scrutavano, non tutti benevoli.

Nelyafinwë gli fece posto al suo fianco e dichiarò: – Findekáno mi ha liberato dalla prigionia, riuscendo da solo in ciò che nessuno aveva avuto neppure il coraggio di immaginare.

Il suo sguardo si posò su ciascuno di essi, grave, finché tutti dovettero abbassare gli occhi di fronte alla propria mancanza.

Lo addolorava suscitare in loro il senso di colpa, ma lo riteneva indispensabile per attenuare il loro orgoglio, e quella sensazione di invulnerabilità tipica dei figli di Fëanáro, che nemmeno la morte del padre era riuscita a cancellare completamente.

Bisognava che percepissero la necessità di alleati per accettare ciò che stava per dire.

Nelyafinwë fece sedere il cugino accanto a sé e, restando lui in piedi, comunicò loro la decisione di cedere il titolo di Re al fratellastro del padre. Lo fece con le stesse parole usate con Makalaurë il giorno precedente e, come si aspettava, ottenne la stessa reazione di sgomento e rabbia. 

Voci incredule, sconvolte, cominciarono a sovrapporsi le une sulle altre.

– Di cosa stai parlando?

– Non dici sul serio!

– Sei fuori di senno?

Finché quella di Curufinwë, bassa e gelida, emerse sulle altre mettendo in parole ciò che molti pensavano: – Dovevi condurci alla vendetta – disse, – ma lasciando a quello il titolo di nostro padre, ci condurrai solo all'umiliazione. – Anche lui, come Fëanáro, non pronunciava volentieri il nome di Nolofinwë.

– Alcune rinunce sono necessarie, o credevi forse non ci fosse un prezzo da pagare per la nostra ribellione? – intervenne inaspettatamente Makalaurë, memore forse dell'addio che aveva dovuto dare a sua moglie, lasciata in Aman senza nemmeno il figlio che tanto avevano desiderato. 

– E tu a cosa hai rinunciato Russandol? – esclamò Carnistir alzandosi, rosso in viso, e i suoi occhi dardeggiarono tra lui e Findekáno, che sedeva impassibile al suo fianco.

Allora Nelyafinwë si piegò in avanti con un gesto che era solito fare il padre al tavolo dei concili. Si protendeva in avanti verso gli astanti e poggiava entrambe le mani aperte sul piano per catturare l'attenzione di tutti prima di cominciare a parlare. Lo fece anche lui, e così facendo rivelò il braccio destro e il moncherino che lo terminava.

– A molto – rispose.

Alla vista della sua mutilazione, i fratelli reagirono nei modi più diversi. Gli Ambarussa spalancarono gli occhi, colmi di sgomento, il più piccolo chinandosi appena verso il gemello, mentre l'altro gli offriva inconsciamente un braccio per sorreggerlo. Tyelkormo ebbe un sussulto e si afferrò il polso destro con l'altra mano, quasi volesse verificare di essere ancora integro. Carnistir voltò la testa, come non sopportando la vista del moncherino, e tornò a sedersi. Curufinwë inarcò un angolo della bocca, con l'atteggiamento di chi trova finalmente una conferma alle proprie supposizioni.

In ogni caso, tutte le proteste cessarono, lasciando a Nelyafinwë la possibilità di continuare.

E lui continuò. Parlò come era solito fare in Valinor, con autorevolezza, con l'accurata scelta dei vocaboli, col tono sicuro di chi possiede la verità. Spiegò nei dettagli ciò che aveva intenzione di fare e i motivi che l'avevano condotto a tali decisioni.

Nel profondo del cuore di ognuno dei suoi fratelli, la fiducia che riponevano in lui si era radicata in anni e anni di vita in comune, anni che Nelyafinwë aveva passato ad ascoltare, a comprendere, ad aiutare. Era una fiducia ormai quasi inconscia, pari a quella che avevano avuto nel padre, se non per certi aspetti superiore, perché Nelyafinwë era sempre stato lì per loro quando avevano avuto bisogno di lui. Non li aveva mai abbandonati.

I suoi fratelli erano abituati a fidarsi di lui. E questo lui lo sapeva. E intendeva avvantaggiarsene.

Senza dubbio Carnistir non condivideva la scelta che vedeva disonorata la casa di Fëanáro, e Curufinwë la considerava un vero e proprio tradimento, ma né l'uno né l'altro osarono mostrarsi in disaccordo. Tyelkormo, con la sua indole selvaggia, aveva bisogno solo di un nuovo capobranco, e sembrava avesse accettato Nelyafinwë come tale. Gli Ambarussa avevano sempre guardato a lui come a un sostituto del padre, e spesso anche della madre, e per loro seguirlo era una cosa del tutto naturale. Makalaurë, che per diverso tempo aveva faticosamente assunto le funzioni di Re, gli aveva già garantito il suo supporto.

La decisione di Nelyafinwë finì per essere accettata, seppur malvolentieri, prima ancora che il mattino volgesse al termine. E dopo una breve interruzione per un pranzo veloce, poterono dedicarsi ai risvolti operativi. Nelyafinwë aveva fatto portare da Makalaurë quelle poche mappe di cui disponevano, per fare ipotesi sul loro prossimo trasferimento, e pergamene su cui mettere per iscritto i suoi ordini. Inoltre assegnò compiti a ciascuno dei fratelli, perché desiderava accompagnare con doni la sua abdicazione, a riparare almeno per le cose materiali le perdite subite dal popolo di Nolofinwë a causa loro.

Nel complesso fu una lunga giornata, a tratti tesa, ma bastava uno sguardo o un movimento appena accennato del braccio destro, per ricordare a tutti ciò che lui era. Il maggiore, l'erede. Ma non solo. Era colui che aveva affrontato l'orrore e ne era uscito vivo, che era tornato dalle tenebre per condurli al compimento del Giuramento.

Quando calò la sera, tutto era stato pianificato. I suoi fratelli ripresero le cavalcature e partirono per tornare al loro campo. Nelyafinwë si augurò di averli riempiti di incarichi a sufficienza da togliere loro il tempo di ripensare a ciò che effettivamente stavano facendo.

Makalaurë fu l'ultimo a congedarsi da lui.

– Ti ho portato quello che mi hai chiesto – disse a voce bassa, in modo che Findekáno, poco distante, non potesse sentire.

Estrasse da una tasca della sopravveste un pacchetto di velluto nero chiuso da un nastro del medesimo colore e guardò il fratello, in attesa.

Nelyafinwë restò in silenzio.

– Se è come penso… – cominciò allora il fratello. 

– È come pensi – confermò lui, categorico.

Makalaurë sospirò, e gli consegnò l'oggetto che Nelyafinwë fece subito sparire all'interno della casacca.

– Allora torno a prenderti domani mattina – disse, salendo a cavallo. Poi aggiunse, con un mezzo sorriso: – Non troppo presto.

 

 

__________

 

Note Finali:

01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Fëanáro (Curufinwë sr): Fëanor
Nolofinwë: Fingolfin
Tyelkormo: Celegorm
Curufinwë (jr): Curufin
Carnistir: Caranthir
Ambarussa: Amrod e Amras

02. 
Amrod e Amras
Riguardo ai gemelli mi attengo alla versione del Silmarillion, che li vuole ancora entrambi vivi (a questo punto della storia).

 

  
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