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Autore: HuGmyShadoW    04/01/2016    1 recensioni
“Try to try again
To hear yourself (again) from time to time”
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The sense of ‘me’
 
Non era spaventato. Aveva tutto sotto controllo, come sempre.

Il grande orologio a pendolo ticchettava severo, ma lui sapeva di avere ancora una mezzora abbondante prima che suo padre fosse stato di ritorno. Trenta lunghi minuti da solo con i suoi pensieri.

Si passò le mani tra i corti capelli biondi, trattenendo un gemito rabbioso.

Quelle stupide pillole.

Odiava doverne buttare giù una manciata ogni dannato giorno, ma doveva ammettere almeno a se stesso che facevano il loro lavoro. Lo intontivano, certo, ma neutralizzavano i suoi scatti d’ira e risparmiavano ai malcapitati, che fossero domestici o compagni di scuola, molti occhi neri.

Intendiamoci, la violenza gli piaceva. Adorava il senso di potere che ne scaturiva, ma se non era quasi mai cosciente in quei momenti, a che serviva?

Avrebbe pensato a una soluzione. Quella mattina era riuscito a fingere di aver preso le medicine, graziato da una cameriera frettolosa, ma sperare di farla franca ogni giorno in quel modo era da stupidi, e lui non era certo uno stupido. No, lui era lucido, consapevole e traboccante di adrenalina. Lo stato d’animo ideale per quello che aveva in mente.

Fece qualche passo in cerchio per calmare il ribollire del suo sangue e il battito accelerato e per poco non inciampò nell’elegante tappeto persiano.

Tutta la sua casa, o meglio, la sua villa trasudava eleganza e raffinatezza dai mobili in mogano lucidati a specchio, ai quadri austeri di artisti costosi, ai soprammobili in marmo lavorato.

Lo studio di suo padre ne era l’emblema, tanto che fin da piccolo gli era vietato entrarci per qualunque motivo.

Ecco perché si trovava lì quel giorno.

Con un ghigno sprezzante, fece correre un dito sull’imponente scrivania, immacolata e senza un grammo di polvere. Sopra vi erano solo alcune scartoffie incomprensibili e certamente noiose che non gli andava di rimettere a posto.

Lo sguardo gli vagò distrattamente lungo l’imponente libreria, giù sulla poltrona di tessuto verde, oltre la vetrinetta degli alcolici pregiati fino a posarsi su un basso schedario metallico in un angolo.

Controllò l’orologio: altri quindici minuti.

Si passò la lingua sulle labbra, indeciso.

I cassetti erano chiusi, ma sapeva dove suo padre tenesse la chiava. Non capitava spesso che si trovasse veramente solo a casa senza i domestici a controllarlo. Quel giorno era particolarmente fortunato in quanto il vecchio maggiordomo si era diretto in città per una commissione e sentiva le cameriere chiacchierare in cucina mentre preparavano la cena.

Quando gli sarebbe ricapitata un’occasione simile?

Mormorò fra sé qualcosa a metà fra un’imprecazione e un incoraggiamento e si avvicinò a passo deciso allo schedario. Dal secondo cassetto della scrivania pescò quasi casualmente una piccola chiave argentata e la infilò nella prima serratura coordinata.
La delusione e l’irritazione presero il posto dell’eccitazione sul suo volto quando, rovistando nel cassetto più alto, non trovò che vecchie cartelline tutte uguali e documenti inutili.

Lo richiuse con un colpo secco e passò febbrilmente al secondo.

Sigari e cancelleria, nient’altro. Lo richiuse.

Tirò il terzo e… non si mosse.

Confuso, tentò un’altra volta ma senza risultato. Era chiuso. Lo ispezionò da ogni angolo e finalmente scorse una piccola serratura dorata. Serviva un’altra chiave.
Digrignò i denti; quel vecchio bastardo di suo padre… cosa nascondeva con tanta ostinazione? Doveva scoprirlo.

Si alzò in piedi tirando un pugno allo schedario, che rimbombò cupo, e fece saettare lo sguardo per tutta la stanza.

La scrivania l’aveva già controllata; la libreria era troppo piena per nascondere qualsiasi cosa e non avrebbe comunque trovato nulla in tempo; i tappeti e la poltrona venivano continuamente sbattuti dai domestici. L’unico posto per tutti intoccabile era…

Corse alla vetrinetta, ne spalancò le ante con un tintinnio minaccioso e prese a cercare fra le bottiglie.
Finalmente, tra un merlot del ’59 e uno chardonnet del ’48, le sue dita incontrarono il profilo seghettato di una chiave.

Trionfante, la tirò fuori stringendola con fermezza tra due dita e senza chiudere la vetrinetta, corse subito allo schedario, rischiando di scontrarsi con il pendolo.

Meno cinque minuti.

Ghignando fra sé, infilò la piccola chiave dorata nella serratura del terzo cassetto, che scattò docilmente e finalmente si aprì.

Le mani gli tremavano dalla rinnovata eccitazione e stavolta fu con movimenti lenti e controllati che tirò piano la maniglia.
Un piccolo sospiro strozzato gli sfuggì dalle labbra, seguito da una risata venata di folle isteria.

Una pistola.
Suo padre nascondeva una fottuta pistola nel suo studio!
Che diavolo se ne faceva?

Infilò una mano e la estrasse con cautela.

Meno un minuto.

Era fredda, e più pesante di quanto si sarebbe aspettato.
Guardando meglio, c’erano anche una scatola di proiettili e il kit di manutenzione. Raccolse solo la scatola e la fece scivolare nella tasca anteriore dei jeans, poi tornò alla pistola.

L’adrenalina, così potente da mozzargli il fiato, gli scorreva nelle vene come droga, facendogli pulsare le dita mentre soppesava l’arma.

Meno trenta secondi.

Quanto avrebbe voluto prenderla… avrebbe potuto farsi rispettare da tutti. Avrebbe potuto mettere a tacere tutte quelle voci che gli dicevano sempre cosa fare e non fare. Le odiava, odiava sentirsi comandare. Lui era un capo.
Era un Prescott.

«Nathan!»

La voce arrabbiata di suo padre risuonò dal piano di sotto, puntuale come al solito, e lui era ancora accovacciato nel suo studio con la pistola stretta spasmodicamente in mano.

Si morse nervoso le labbra quando un rimorso di coscienza si fece largo nella sua mente. Non poteva rubare a suo padre, l’avrebbe scoperto e si sarebbe arrabbiato a morte con lui! Forse l’avrebbe mandato da altri dottori…

«Nathan! Dove sei?», tuonò ancora il signor Prescott.
Brontolando fra sé, l’uomo si accingeva a salire il primo scalino della maestosa scalinata in marmo, quando una voce gli fece alzare la testa.

«Eccomi, papà», esclamò Nathan in torno irritato scendendogli incontro.

«Quando ti chiamo voglio che mi rispondi subito, capito?», ribatté il signor Prescott, severo.

«Chissenecazzofrega. Stavo studiando», rispose Nathan in un digrignar di denti.

«Hai preso le tue medicine, oggi?».

«E se anche non l’avessi fatto, a te che te ne fregherebbe? Mi faresti rinchiudere?», sbottò.

L’uomo strinse minacciosamente gli occhi. «Nathan, non tollero questo tono con me. Sono tuo padre e…»

«Bella cazzo di fortuna!», esplose il ragazzo girando di scatto i tacchi e tornando di corsa su per le scale.

«Nathan! Nathan, torna subito qui! Non ho finito con te! Io…».

Il resto venne soffocato dallo schianto della porta della sua camera, calciata a chiudersi con violenza.
Ma invece di essere infuriato e iniziare a lanciare oggetti contro il muro, Nathan rimase immobile, in piedi in mezzo alla stanza.

Lentamente, una mano gli scivolò sotto la felpa ed estrasse la pistola di suo padre.
Aveva fatto le cose per bene, ne era sicuro: la piccola chiave dorata era tornata fra le bottiglie impolverate, quella argento nel cassetto, lo schedario era stato accostato con delicatezza e la scrivania ordinata alla perfezione.
Non c’era modo che venisse scoperto, non subito.

Con gli occhi vuoti e il viso inespressivo, Nathan alzò con cautela la mano e si puntò la cenna gelida alla tempia.
Il cuore gli rombava nelle orecchie, assordandolo, il suo respiro correva in controtempo con i battiti.

Infine, il dito si posizionò sul grilletto. Lo saggiò dolcemente, quasi accarezzandolo, e poi lo premette.

«Bang», sussurrò fra sé.

Un piccolo sorriso triste si fece largo sulle sue labbra mentre abbassava la pistola scarica e la riponeva nella tasca posteriore dei jeans, sotto la felpa.

«Non così, Nathan», si disse con dolcezza. «Non ancora».
 
 
 
“Try to try again
To hear yourself (again) from time to time”
   
 
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