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Autore: Northern Isa    14/01/2016    2 recensioni
«Non ho idea di dove trovare Novokov» rispose, come se questo potesse chiarire che non sarebbe stata di nessuna utilità.
«Non mi aspettavo nulla del genere.» La sedia di Fury arretrò sul pavimento lucido dell’ufficio e l’uomo si alzò. «Ma c’è qualcuno che potrebbe saperlo.»
Natasha si alzò a sua volta, aggrottando le sopracciglia con aria interrogativa.
«Il Soldato d’Inverno.»

[Winterwidow post Captain America: The Winter Soldier]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Maria Hill, Natasha Romanoff, Nick Fury, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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«Croisé en avant» declamò una voce, secca come il rumore dei suoi passi prodotto sul parquet.
Tante gambette sottili si tesero come mosse da un’unica molla, andando a incrociare l’altra di sostegno. Nell’ampia sala si produsse una serie di sussurri di raso e tulle. Poi, uno schiocco secco.
«Solleva quel braccio!» La verga di legno si abbatté di nuovo sulla mano della giovane ballerina, mentre questa tratteneva a stento un lamento. «Sei sciatta in maniera insopportabile. Fammi vedere un arabesque, allora.»
La voce dell’istruttrice era aspra, ruvida come carta vetrata. Le sue dita si strinsero con forza intorno ai polsi dell’allieva, correggendo anche quella posizione.
«Non ci siamo.» La verga calò di nuovo con uno schiocco. «Ripeti.»
Il volto della ragazza era imperlato di sudore, ma dalle sue labbra non uscì un gemito.
I muscoli dorsali si disegnarono sotto la pelle mentre eseguiva di nuovo l’esercizio.
«Ripeti.»
Le braccia si fletterono mentre un busto più tornito si sollevava dal pavimento, come per eseguire una flessione. Le nocche erano spellate, dalla bocca della ragazza gocciolò del sangue.
«Di nuovo.» Questa volta la voce era quella di un uomo.
La giovane si sollevò con uno scatto repentino; le sue labbra si schiusero per lasciare sfuggire un mezzo ruggito dettato dall’impeto, la sua gamba eseguì una spazzata, intercettando lo stinco dell’istruttore. Qualcosa calò dall’alto: un gomito aguzzo e freddo come l’acciaio colpì in mezzo alle sue scapole, le sue arcate dentali andarono a sbattere l’una contro l’altra.
«Non fermarti.» Il tono dell’istruttore era instancabile.
La sua allieva, invece, era provata; nella bocca avvertiva l’acidulo sapore del sangue e le contusioni che si era procurata nei giorni precedenti avevano ripreso a tormentarla con l’indolenzimento e il dolore. Ma gli ordini erano stati chiari, così, nonostante sentisse i polmoni in fiamme, si gettò in un secondo attacco senza fare una piega. Non c’era spazio per le esitazioni, né per i ripensamenti.
Il braccio nudo della ragazza impattò violentemente con quello bionico dell’istruttore.
 
Una mano callosa, con il dorso percorso da spaccature rossastre causate dal freddo, grattò distrattamente un mento ricoperto da una barba ispida. Leo stese il giornale di fronte a sé, le pagine si spiegarono con un crepitio soffocato. I suoi occhi iniziarono a scorrere rapidamente i titoli in cirillico degli articoli; la sua mente formulava sempre lo stesso pensiero: era tutto così diverso rispetto a come lo ricordava.
La data stampata sulla prima pagina gli ricordava che erano trascorsi già dieci anni da quando si era risvegliato, eppure aveva preso a misurare il tempo solo di recente. Subito dopo essere fuggito dalla camera di stasi in cui era stato conservato, i giorni, le settimane, i mesi, erano sembrati tutti uguali gli uni agli altri. Identici nel vortice di follia e incoerenza in cui lo avevano trascinato.
Quando il vetro che proteggeva la sua forma dormiente si era crepato, andando in frantumi, aveva svelato agli occhi di Novokov un mondo che non era quello che aveva lasciato l’ultima volta che aveva chiuso le palpebre. Era completamente diverso da ciò che aveva conosciuto, i suoni, gli odori, i sapori erano nuovi, persino respirando l’aria ne riceveva l’impressione che avesse ormai una consistenza diversa. Spaesato e con indosso i vestiti di un altro – la guardia del sito, che aveva ucciso con le sue mani – era riuscito a tornare in città, ma era stato peggio. Non era stato in grado di trovare il quartiere in cui era cresciuto, di riconoscere le strade e i negozi. Ovunque era pieno di schermi che trasmettevano immagini colorate di donne dai capelli fluenti e abiti succinti e uomini dalle camicie aperte sui petti glabri che, sulla base di qualche musica martellante e ossessiva, mostravano dei prodotti pronti all’acquisto e assolutamente superflui. I giovani che camminavano sui marciapiedi portavano tute da ginnastica e catene d’oro appese al collo, come le persone sugli schermi. Le radio delle loro auto avevano il volume al massimo mentre loro abbassavano i finestrini in prossimità dei semafori per scambiarsi sguardi e risate.
Sembravano tutti così americani. Leo non poteva crederci: allora era accaduto ciò che più dovevano temere, quello contro cui avevano combattuto. Il diavolo americano aveva vinto, con il suo consumismo, i suoi sorrisi troppo bianchi per essere veri e i suoi orribili vestiti alla moda?
Quando era successo? Come?
Era stato a quel punto che Leo si era chiesto per quanto tempo era rimasto addormentato, ma subito dopo si era reso conto che cercare una risposta a quella domanda non aveva alcun senso. Che importanza poteva avere? Aveva fallito, avevano perso, e non aveva la più pallida idea di che genere di mondo fosse quello in cui si era ritrovato.
Le persone che conosceva erano morte o si erano convertite al demone americano, la sua casa non c’era più. Leo non aveva né un lavoro, né una famiglia.
Era finito allora nell’unico posto che era stato disponibile a prenderlo: i bassifondi della città. Uno scatolone di cartone sudicio era diventato il suo letto, aveva dovuto lottare e uccidere per assicurarsi il posto più riparato, più vicino ai copertoni dati alle fiamme, che diffondevano nell’aria un insopportabile odore di plastica bruciata, ma almeno riuscivano a riscaldare le terribili notti russe.
L’alcol era diventato il suo compagno fisso e, da quando Leo aveva scoperto la vodka a buon mercato, il suo alito era perennemente rancido. Ma nemmeno quelle cose avevano importanza, non più.
Aveva preso a vagare nei bassifondi della sua esistenza senza sapere bene cosa fare, ora che non aveva più uno scopo e non riconosceva più nulla intorno a sé. Poi un giorno era passato per caso di fronte a un negozio di elettrodomestici. L’insegna al neon che incombeva sulla porta era malmessa: un paio di lettere erano fulminate. Un uomo all’ingresso fumava e la brace della sua sigaretta risplendeva come lava mentre piccole nubi di fumo si sollevavano dalla sua bocca. Dietro una vetrina sudicia erano esposti alcuni televisori. Leo non aveva mai avuto interesse in simili oggetti, erano il demonio: veicolavano nelle case della gente immagini legate alla cultura americana, mostravano un’esistenza patinata dall’altro capo del mondo, artefatta, fittizia, dal sapore di plastica e tessuti pregiati. Eppure la gente credeva nelle favole che vedeva dentro lo schermo, si convinceva che quella era la vita a cui doveva aspirare, che doveva emulare. Leo era convinto che i giovani perdigiorno vestiti all’americana, che spendevano i pochi soldi delle loro famiglie per avere oggetti griffati all’ultima moda, sottraendo il pane ai propri genitori e ai propri fratelli, fossero il frutto di ciò che guardavano in televisione. Senza quell’elettrodomestico, in buona sostanza, la Russia sarebbe stata molto meglio.
Quel giorno, quindi, Leo camminava con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni consunti – si era categoricamente rifiutato di portare dei jeans – e la testa incassata tra le spalle, tirando dritto senza guardare gli schermi luminosi nella vetrina del negozio. Tuttavia a un certo punto, con la coda dell’occhio, aveva notato qualcosa. Qualcosa di stranamente familiare.
Era prima volta che capitava una cosa del genere da quando si era risvegliato, così si era fermato e si era voltato verso il negozio: non aveva potuto farne a meno. Le televisioni erano sintonizzate tutte sullo stesso canale e trasmettevano le medesime immagini. Doveva trattarsi di un servizio di un telegiornale o di qualcosa di simile; la videocamera del reporter era riuscita a rubare delle immagini di uno scenario post apocalittico o quasi. Leo si avvicinò ulteriormente, appoggiando un palmo al vetro. Vide un ponte sospeso sul mare e tante automobili moderne, compresse come sardine in una scatoletta. C’era stato un incidente che aveva coinvolto tanti veicoli, dalle cui carrozzerie si sollevavano sbuffi di fumo. L’asfalto era crepato in più punti, la gente che era riuscita a sfuggire dagli abitacoli accartocciati sembrava in preda al panico; c’era chi si teneva la fronte sanguinante, chi stringeva un braccio al petto, chi si comprimeva il ventre e serrava gli occhi per la paura e il dolore. Alle spalle di quella gente, alcuni individui si stavano scontrando. Il giornalista strinse sulle loro figure e a Leo parve di scorgere la chioma rossa di una donna e uno scudo circolare dipinto con i colori della bandiera americana. Poi, a pochi passi da loro, un uomo vestito di nero, con il volto parzialmente nascosto e il braccio meccanico sollevato, pronto a riprendere l’attacco contro gli altri due.
«Il Soldato d’Inverno» aveva allora mormorato Leonid. Poi il tizio che fumava sulla soglia gli aveva ingiunto di andarsene se non voleva comprare niente.
Quella visione era stata per Novokov ispirante al pari di una rivelazione. Allora non tutto era perduto, anche se gli Americani avevano vinto. Qualcuno di loro era rimasto in vita, e non si trattava di un qualcuno qualsiasi, ma del migliore di tutti. Era stato lui a rendere Leonid l’assassino infallibile che aveva operato al servizio del KGB, praticamente gli doveva tutto.
In quel momento, il Russo aveva deciso che se valeva ancora la pena di combattere per qualcosa, lui lo avrebbe fatto.
Da quando aveva visto quel servizio in televisione, Leo aveva passato tutto il tempo a prepararsi. Doveva essere pronto, anche se naturalmente non poteva fare tutto da solo.
Ma era stato in grado di fare molto: aveva individuato i vecchi siti utilizzati durante la Guerra Fredda, erano tutti abbandonati, ma in alcuni erano ancora conservate delle armi e ciò che lui bramava di più: le informazioni. Leo aveva utilizzato i vecchi codici di cui era stato in possesso quando era un agente del KGB e aveva preso tutto ciò che gli serviva. Ora doveva solo trovare il Soldato d’Inverno, per unire la propria missione alla sua.
Ecco perché Leo aveva preso l’abitudine di sfogliare quotidianamente i giornali. Aveva ancora qualche problema con la televisione, ma doveva tenersi aggiornato su ciò che accadeva. Aveva ripreso la coscienza di sé e dell’epoca in cui si trovava: sarebbe stato il suo nuovo campo di battaglia. Si aspettava, un giorno di quelli, di individuare in mezzo alle pagine di un quotidiano la fotografia del Soldato d’Inverno. Ma ancora non era accaduto.
 
«Leonid Novokov» ripeté Barnes.
Non manifestò sorpresa all’idea che fosse ancora vivo, ma Natasha non se ne stupì. Del resto in teoria non doveva esserlo nemmeno il Soldato d’Inverno. In teoria.
James non aveva dato segno di riconoscerla, se non per la donna che lo aveva affrontato di recente insieme a Capitan America, ma la Vedova Nera sapeva che c’era dell’altro a legarli. Era questa, immaginò, la ragione che la spingeva ad alzare gli occhi su di lui ogni volta che l’uomo guardava altrove, ad osservarlo avidamente alla ricerca sul suo viso di qualsiasi segnale potesse suggerirle che il passato stava riaffiorando nella sua mente.
Entrambi, nella Camera Rossa, avevano subito diversi lavaggi del cervello. La loro memoria era stata resettata più e più volte, nelle loro teste erano state infilate tutte quelle idee in cui il KGB voleva che credessero. Ma da quando Natasha era riuscita a sfuggire ai Russi, si era lasciata pian piano tutto alle spalle e la vera lei era tornata ad affiorare. Per quanto riguardava Bucky, probabilmente lo stesso processo era in corso da quando aveva incontrato Steve.
Quando il Soldato d’Inverno l’aveva addestrata, laggiù in Russia, Natasha non aveva avuto idea che si trattasse dello stesso amico d’infanzia di Capitan America. A dire il vero, all’epoca la ragazza non aveva saputo niente nemmeno sul conto di quest’ultimo. Ma quando, qualche mese prima, lei e Rogers si erano trovati ad affrontare la nuova minaccia, aveva scoperto la collisione tra due mondi, tra due epoche, due storie.
Per lungo tempo, Natasha si era sforzata di dimenticare il suo passato nei servizi segreti russi e tutto ciò che esso comportava. Ma adesso la necessità di collaborare con James le aveva fatto realizzare quanto inutilmente si fosse impegnata: il passato trovava sempre un modo per riaffiorare, prima o poi.
«Cosa vi fa credere che io sappia dove trovarlo?»
La voce del Soldato d’Inverno la strappò da quella serie di riflessioni.
Da quando si era introdotta in casa del signor Walker, James non si era mai rivolto a lei personalmente, ma parlava sempre al plurale, come se oltre a Natasha in quella stanza si trovasse almeno metà degli agenti che lavoravano per lo S.H.I.E.L.D.
«Sei la cosa più vicina a Novokov che abbiamo» rispose semplicemente, infilando una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio.
Le rispose il sogghigno sprezzante dell’uomo.
«Non è che siate messi molto bene. Non vedo Novokov da dieci anni almeno.»
Non era certo un buon punto di partenza, ma in qualche modo dovevano riuscire a rintracciarlo. Sarebbe stato molto più difficile ora che non avevano libero accesso ai sistemi dello S.H.I.E.L.D., visto che la missione andava svolta nel più assoluto riserbo, ma Fury confidava in lei e Natasha non lo avrebbe deluso.
«C’è un computer in questa casa?»
Data l’età del proprietario, non era così scontato. Ma James si scostò dal tavolo sul quale si era appoggiato a braccia conserte e la guidò nella stanza a fianco. A giudicare dalla sicurezza con cui si muoveva, doveva essere lì da un po’.
Il salotto aveva proprio l’aspetto che Natasha aveva immaginato pensando a un vecchio militare. C’era un divano spazioso con la seduta affossata, un tappeto che dava un aspetto stantio a tutta la stanza e un tavolino. Niente centrini o altri elementi che facessero pensare a una donna, Walker era vedovo. Sul mobile sotto la finestra però c’erano tante fotografie che ritraevano degli uomini in divisa e una teca di vetro che proteggeva delle medaglie e una bandiera americana ripiegata.
Di fronte al tavolino c’era una televisione e, sulla destra, un mobile con un computer. Walker doveva avere dei nipoti che venivano a trovarlo.
Natasha prese posto di fronte allo schermo e lo accese, avvertendo la presenza di James che incombeva alle sue spalle, silenzioso e scuro come un corvo. Infilò la penna USB e iniziò ad aprire alcuni files.
«Questo è ciò che abbiamo» spiegò.
Mostrò a James le fotografie del bunker e i fotogrammi della videocamera che aveva ripreso Novokov, nonché il fascicolo di quest’ultimo.
«Cosa c’era in quel magazzino?»
«Sei stata un agente del KGB, dovresti saperlo.»
Natasha ruotò appena il collo e sollevò lo sguardo. Il volto di James era duro come al solito, ma un angolo delle labbra era sollevato in una smorfia irriverente. Teneva ancora le braccia incrociate sul petto, come a voler mantenere una barriera tra di loro, e la stella rossa sulla spalla opacizzava l’acciaio lucente dell’arto sinistro.
«Non ne sono certa, ma lo immagino. Armi? Quante e soprattutto quali?»
James si sporse leggermente verso il computer per osservare meglio le fotografie.
«Oh, le solite cose. Bombe a grappolo, qualche granata, munizioni varie. In quali altri vecchi magazzini del KGB è stato Novokov?»
Natasha aggrottò appena la fronte. Evidentemente James dava per scontato che quella non fosse l’unica visita dell’ex agente.
«Devo fare qualche ricerca» rispose iniziando a battere sui tasti. Non era un computer dello S.H.I.E.L.D., ma da lì poteva accedere alle sue banche dati, facendo attenzione a non lasciare tracce informatiche. «Credi che stia cercando qualcosa?»
«Sì.»
Una risposta secca, che non lasciava molto spazio alla fantasia. Natasha doveva capire cosa, ma soprattutto perché. Cosa poteva volere un uomo che aveva trascorso anni in una camera di stasi, senza alcun contatto col mondo, e che si era risvegliato dieci anni prima? Perché, poi, non agire subito ma aspettare tutto quel tempo, qualunque cosa avesse in mente? La Vedova Nera era certa che, se avesse potuto dare una risposta a quelle domande, avrebbe saputo anche dove trovare il suo obiettivo.
«Gli agenti del KGB hanno sempre una missione da svolgere» aggiunse ancora il Soldato d’Inverno.



NdA: rieccomi con un nuovo capitolo. Devo ammettere di essere molto affascinata dalla Stanza Rossa e dal trattamento inumano che personaggi come Nat e Bucky hanno dovuto subire, quindi non ho potuto non inserire il ricordo iniziale della Vedova Nera e, con buona probabilità, ci saranno altri flashback anche nei capitoli successivi.
Compare per la prima volta anche Novokov, spero di avervi messo addosso un po' di curiosità circa le sue intenzioni. Al prossimo capitolo!

 
   
 
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