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Autore: ellacowgirl in Madame_Butterfly    14/01/2016    0 recensioni
[MeiTsu - Storia partecipante al Love is Painful - Naruto Contest indetto da Angie96 sul forum di EFP]
Mei Terumi è una giovane volontaria, partita per aiutare la popolazione della Repubblica Centrafricana: speranzosa, volenterosa, determinata ad ottenere ciò che vuole.
Tsunade Senju è la dottoressa responsabile del campo: autoritaria, ferita, impenetrabile.
Sono due donne che hanno sofferto e, nonostante questo, non hanno smesso di credere che qualcosa di buono - di bello - possa ancora esistere: per gli altri, per se stesse.
E' una storia d'amore, sì, ma non è dolce, non è benevola, non è generosa.
E' una storia con l'animo macchiato e le mani sporche di sangue.
E' una storia di rancori, lacrime trattenute, baci strappati.
Non c'è spazio per abbracci e carezze, quando il mondo attorno a loro uccide e ferisce, grida e respinge.
Tra la polvere di una terra sconsacrata ed un sole che brucia senza pietà, i frammenti di un amore rubato si rimettono assieme fino all'ultimo battito di cuore.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Mei Terumi, Tsunade
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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____________________________________ Aishiteru ____________________________________


Il volo ti sembrava interminabile, l’anziana infermiera accanto a te non ha chiuso bocca tutto il viaggio, giusto per imbambolarti per bene.
Continuavi a sperare di poter finalmente vedere la terra su cui avresti lavorato, martoriata dalle sanguinose guerre interne, e che tu – ingenuamente – volevi aiutare, ma quand’ella si è presentata dinnanzi ai tuoi occhi smeraldi quella speranza è scemata.
Lentamente, cautamente, è andata svanendo mentre sfioravi con lo sguardo un orizzonte senza apparente futuro.
No, decisamente non sembrava esserci alcuna speranza.
La jeep su cui hai viaggiato, quella dell’organizzazione umanitaria dove ti sei arruolata come volontaria, non ha fatto altro che riempirti i vestiti – e la valigia – di una polvere rossastra e ruvida.
Sì, probabilmente sarà difficile lavarla via, o ancora più probabilmente non se ne andrà mai… e qualcosa – un sesto senso – ti dice che non sarà l’unica cosa a lasciarti il segno.
Durante il cammino incontrate molte persone, volti scuri annebbiati dalla terra e la pelle scottata da un sole senza pietà.
Alcuni non hanno la forza nemmeno di alzare il capo per guardarvi, altri vi corrono dietro, supplicando un passaggio per chissà dove.
Come se lì, nel cuore della Repubblica Centrafricana, un “dove” ci fosse, dove recarsi.
Ti stringi nella mantella scura, di nuovo torni a pregare che il viaggio duri poco, di nuovo ti dai della stupida per aver sperato. E’ più forte di te.
Arrivate dopo una mezz’ora abbondante a quello che sembra a tutti gli effetti un campo di fortuna: tende non propriamente stabili, igiene nemmeno valutabile, persone malconce che entrano ed escono alquanto rapidamente.
Scendi dalla vettura con la valigia tra le mani e resti così, immobile, le labbra dischiuse ed il disorientamento che ti attanaglia l’animo: ti aggrappi con tutta te stessa alla convinzione che ti ha spinta sin lì, alla volontà di fare del bene, di aiutare, di non rimanere indifferente a tutto quello schifo.
L’ordine sembra mantenuto soltanto dall’autorevolezza di alcuni medici, uno di questi è proprio davanti a te, a qualche metro: indossa un camice bianco piuttosto sporco – di sangue, di terra, difficile distinguere – ed i capelli biondi sono raccolti sulla nuca.
Ha improvvisato una stecca di fortuna alla gamba di una signora urlante e, poiché il marito accanto urla più forte di lei, la dottoressa gli molla un sonoro schiaffo.
Sì, proprio uno schiaffo.
Ne rimani allibita per un attimo, sbatti le palpebre e, contrariamente agli altri volontari, non ti incammini al quartier generale, ma resti immobile ad osservarla.
Come se in quegli attimi avessi individuato la tua ancora di salvezza in una tempesta imprevista.
«Sicura di voler conoscere proprio lei?» L’anziana infermiera è rimasta accanto a te, il suo tono è propenso a scoraggiarti e, ovviamente, questo ti induce a fare l’esatto opposto.
Attendi, sin quando la dottoressa non volta le spalle ai due feriti e finalmente si volge verso di voi.
Non vi guarda in volto – non guarda niente, a dire il vero – ma continua comunque ad avanzare.
Ne resti allibita, ulteriormente: il camice sporco fatica a contenerne le forme, due profonde occhiaie le solcano il volto e la fierezza del passo danno l’impressione di una dittatrice coi fiocchi. Supera sicuramente la quarantina, o forse la stanchezza e le delusioni l’hanno ulteriormente sfiorita, eppure non pensi di aver mai visto una donna così bella.
Diavolo, è letteralmente stupenda.
Resti con le labbra dischiuse, sai di non doverti aspettare gran ché da un individuo simile, eppure l’incoscienza – la speranza, ancora una volta – della giovane età ti induce a non fuggire.
«La prossima volta li lascio morire dissanguati, ‘sti testoni!» Voce imperatoria, una mano che viene alzata con un gesto scocciato, il passo che continua ad avanzare. Non ti guarda, non ancora, eppure tu non hai occhi che per lei.
«Uno gli vuol dare una mano e questi mi tirano fuori le loro stupide culture su una donna che non può essere medico e cialtronerie varie! Oh sì, la prossima volta li lascio proprio crepare!» Ti metti d’improvviso sull’attenti, lo sguardo torna vigile, drizzi le spalle e stringi ulteriormente la valigia.
La furia ti ha ormai raggiunta, non sai se sei davvero pronta ad affrontarla.
«Novellina?» Ti ritrovi specchiata in quelle profonde iridi ambrate quasi d’improvviso, fredde sembrano voler scavare sino in fondo al tuo animo, scorgendone ogni dettaglio.
Se non fosse stato per la temperatura sui trentacinque gradi, saresti rabbrividita.
L’infermiera accanto a te fa un cenno di assenso col capo, nonostante sia molto più anziana della bionda sembra portarle un rispetto assoluto.
Non perdi la concentrazione, rimani fissa sul tuo obiettivo e ti prepari ad affrontarlo – il primo di una lunga ed interminabile serie.
Allarghi lentamente le sottili labbra in un sorriso, un’espressine che ha convinto – forse sedotto – molti, mentre allunghi la mano verso di lei. No, non ha ancora distolto quello sguardo inquisitorio da te.
«Mei Terumi, molto piacere» e attendi.
Attendi un secondo, due, tre, ma ella non accenna a ricambiare, la sua indagine pare essere anni luce lontana dalla tua. Combatti contro l’imbarazzo di quel rifiuto ma non cedi, ritiri lentamente la mano così come il sorriso.
L’infermiera accanto a te vorrebbe seppellirsi, lo senti, ed in quell’attimo comprendi le sue prime parole.
«Ho forse detto qualcosa di sbagliato?» Ritenersi responsabili è sempre un’ottima tecnica, assieme alla gentilezza, per portare una situazione a proprio favore, lo hai imparato.
Ma allora perché quella donna pare impenetrabile?
Perché sembra così distante dagli standard psicologici studiati all’Università?
Sospira sconsolata, quasi prenda fiato.
«No. Erano mesi che non vedevo un sorriso.» e ti volta le spalle, così, privandoti di una lecita attenzione.
Come se in un luogo come quello fossero molti, i diritti rispettati.
«Non c’è tempo per i convenevoli, la guerra civile non aspetta che prendiamo the e pasticcini!» Sbatti le palpebre un paio di volte, poi la segui.
Ti sta prendendo in giro?
Ti sta mettendo alla prova?
Non hai tempo di chiedertelo, sei troppo concentrata a trascinare la valigia, evitare di andare a sbattere contro qualcuno o qualcosa – i corridoi sono decisamente troppo affollati – e, contemporaneamente, ascoltare le parole della dottoressa.
Hai la netta sensazione che quell’affermazione non porti nulla di buono… e che la donna non tenga a sottolinearlo.
Le tende sono spaziose eppure insufficienti, alcune brande sono all’aperto, altre malamente coperte.
Un puzzo di sangue raffermo ti costringe a coprirti il naso con una mano.
Superate le prime tende di soccorso ed entrate in una un poco più ordinata, non adibita ai feriti, eppure quell’odore – quella sensazione – non ti hanno ancor abbandonata.
Cominci a chiederti perché diavolo ti sei trascinata fin lì.
«Dunque, i volontari senza competenze mediche hanno a disposizione l’ultima tenda del corridoio, ed hanno un tutor che devono seguire scrupolosamente per tutta la loro permanenza. Medico, infermiere, tecnico, non importa, basta che tu ti renda utile.» sintetica, decisa, precisa.
Annoti mentalmente, lanci uno sguardo quasi allarmato all’infermiera, ma non ricevi nulla di più rassicurante.
Stringi i denti, sai che devi farcela – lo hai promesso a te stessa, non puoi fallire sin dall’inizio.
Ti guardi intorno mentre riprendete a camminare, rimani leggermente indietro e vorresti chiamarla per chiedere di rallentare quando, d’un tratto, realizzi un particolare non indifferente: non sai chi sia, tantomeno come si chiami.
A dire la verità, non si è nemmeno presentata, come se il nome fosse superficiale.
«Ehm, dottoressa…» l’infermiera ti precede, risparmiandoti una seconda occhiata inquisitoria.
«Che c’è, ho scordato qualcosa? Delle pastiglie per dormire la notte le dirò più tardi, non voglio spaventarla più di quanto non faccia già di mio.» taglia corto di nuovo.
Farmaci per dormire? Sono davvero a quei livelli?
Ripensi alle occhiaie, ti focalizzi sui gesti da lei compiuti poco prima.
Deglutisci: forse conoscere proprio lei non è stato il migliore degli inizio.
«No, intendevo che non si è presentata, dottoressa.» le fa notare. Si ferma, per un pelo riesci a non schiantarti contro di lei.
Di nuovo quello sguardo, di nuovo su di te.
Ti annienta e ti stimola ogni volta, come fosse ciò che di più vivo tu abbia mai incontrato.
Resta in silenzio, come prima non risponde subito, pare volerti calibrare e valutare, nonostante non abbia posto tu la domanda.
E’ così evidente che desideri quella risposta con bramosia?
Perché hai la dannata sensazione di non poterti nascondere, da una come lei? Incrocia le braccia sotto il seno prosperoso.
«Tsunade Senju, chirurgo generale, settore quattro, prima tenda a Sud, ufficio otto, attuale responsabile del campo.» Non fa pause mentre parla, proferisce con un’ironia sottile, chiaramente intenzionata a ridicolizzare quella richiesta.
Per un attimo, hai la sensazione non di aver cambiato continente, ma mondo intero.
Un mondo dove chi sei stato non conta, dove persino il tuo nome – dinnanzi alla guerra, alla sofferenza, alla disperazione – non vale poi molto.
Un mondo dove le uniche macchie non sono quelle d’inchiostro su un documento, ma di sangue sulle mani.
Aguzzino o salvatore non importa, la terra sporca l’animo di entrambi, indistintamente.
Ti riprendi, l’animo sicuro di sé che ti ha trascinata sin lì finalmente emerge: lottare o soccombere, rischiare o perdere.
E tu non hai alcuna intenzione di essere una perdente.
Apri di nuovo le labbra, il sorriso questa volta non manca di una velata ironia. «Un biglietto da visita?» domandi leggermente ironica.
Sai di aver rischiato, così come sai di non voler soccombere. Non sarai una pedina, non sarai un nulla, né una qualsiasi.
E vuoi che sia chiaro anche a lei, a quella dottoressa autoritaria e bellissima, a colei che hai già designato come tuo obiettivo – anche se non sai ancora in quale senso.
E capisci d’esser diventato il suo nel momento in cui ricambia con la medesima sfrontatezza.
«Signora Uzumaki, la assegni a me.»

(…)
Esci quasi di corsa, rischi di inciampare, sporchi il bordo della tenda di rosso nell’aprirla.
Rosso sangue.
Ne sono imbrattate le tue vesti, le tue mani.
Le iridi smeraldo sono ancora perdute nel vuoto mentre cadi a terra in ginocchio dopo una decina di metri: così, sotto un sole calante, ti getti in pasto ad una terra che non sta solo martoriando il suo popolo, ma anche i suoi salvatori.
Non hai il coraggio di guardarti le mani, le tieni appoggiate sulle ginocchia, e solo Dio sa come tu non sia ancora scoppiata in lacrime.
Non è orgoglio, lo sai, prima o poi anche quello cede alle sconfitte.
Ai fallimenti.
La tenevi tra le mani, quella piccola e delicata vita. La tenevi fino all’ultimo respiro, sino a quando il cuore non ha smesso di battere ed il defibrillatore che hai usato non è stato sufficiente.
L’hai portato tu – correndo – dalla jeep alla tenda, e pur sapendo che quel bimbo fosse già spacciato hai tentato comunque.
Hai sperato, ed hai sacrificato una parte della tua integrità.
Stringi i pugni, senti gli occhi gonfi, il respiro scosso, ma ancora nessuna lacrima riga il tuo volto.
Non sai quanto resti così, scappata da quel luogo di morte dove sei stata solo una spettatrice impotente, succube di una violenza che non puoi controllare, probabilmente nemmeno guarire.
Secondi, minuti, non lo sai, fin quando una mano tiepida non si appoggia alla tua spalla.
Non hai bisogno di voltarti per sapere di chi si tratti, che la persona lì con te comprende bene cosa provi – forse, lei lo ha provato fin troppe volte.
Non puoi che chiederti come diavolo faccia a stare in piedi dopo tutto quello che ha visto e sopportato.
«Alzati» ed è un ordine, lo sai. Non è un tono duro – non quanto il solito almeno – ma non permette obiezioni.
Cerchi di regolarizzare il respiro, fai leva sulle ginocchia e lentamente ti rialzi, senza aver ancora guardato le tue mani.
Non hai nemmeno il coraggio di posare lo sguardo su di lei anche se, data la sua decina di centimetri in meno, non faticheresti.
«Guardami» un altro ordine, ma non riesci ad obbedire, non subito.
Provi una rabbia immensa, ma sai che non è verso di lei, anche se è lei ad aver precisato che dovessi occuparti tu, di quel bambino morente e reduce da una guerra che non ha scelto.
E lei, ora ti è chiaro, sapeva esattamente come sarebbe finita, ha solo voluto svezzarti prima di quanto ti aspettassi.
«Guardami, Mei» più decisa, ma non più dura.
Stringi i pugni, quel gesto è uno dei più faticosi mai fatti: ti specchi nelle sue iridi ambrate, vedi un volto già stanco, già deluso, già abbattuto, ed in quel momento ti senti il nulla che non avresti mai voluto essere.
E vorresti anche essere forte, ma non ce la fai.
Crolli tra le sue braccia, nascondi il volto sulla sua spalla e piangi, piangi forte, con dolore, mentre sai che potrebbe benissimo mollarti uno schiaffo, rimproverarti perché quello non è sicuramente il luogo per uno sfogo simile, dove la gente attorno a voi grida d’aiuto.
Pensavi di essere forte abbastanza, ma forse lo devi ancora diventare.
Ti aspetti un rifiuto, che ti allontani, che ti rimproveri, invece senti soltanto quella mano tiepida sfiorarti la nuca.
Non ricambia l’abbraccio, non ti dice parole di conforto – anzi, non ti parla proprio – eppure senti di non aver bisogno di null’altro.
Nessun meglio di Tsunade sa quanto le parole siano inutili dinnanzi alla morte.
Ancora una volta perdi la cognizione del tempo, ti lascia sfogare, un poco calmare, poi è lei ad allontanarsi di un passo e a voltarti le spalle: non ti guarda, esattamente come al primo incontro, conscia di quale sia il vero obiettivo.
«Andiamo. I superstiti dell’ultimo scontro arriveranno a momenti».
Hai le labbra socchiuse, il sapore amaro delle lacrime in bocca, ma annuisci e silenziosamente la segui.
Il suo portamento sicuro, la sua decisione – forse la sua fede – sono tutto ciò che ti dà la forza per andare avanti, per credere che anche tu possa fare qualcosa di buono, di utile, che tu possa aiutare altre vite.
E probabilmente è lei ad aiutare la tua.

(…)
In qualche rara serata vi è concesso rilassarvi, lasciare il campo medico e potervi recare in uno dei pochi villaggi nei dintorni non ancora martoriato dalla guerra – non troppo, almeno. Non eri troppo dell’umore per uscire a bere qualcosa: dopo un’ora il tuo camice non aveva ancora perduto il puzzo di sangue, ed avevi cominciato a considerarlo una sorta di “segno” a cui dare ascolto.
Potevi però perdere l’occasione di stare in compagnia di quell’orgogliosa e frigida dottoressa che non fosse sempre dinnanzi a qualche ferito?
No, no di certo, per questo hai impiegato pochi attimi per prepararti.
Una seconda dottoressa, Shizune, guida con cautela, i fari dell’auto sono l’unica fonte di luce sulla strada sterrata.
Quasi non riuscite a vedervi in volto, tanto è buio, ma anche ora cogli l’occasione come un attimo prezioso.
La osservi discretamente, il suo sguardo è perduto chissà dove, come stesse cercando la risposta a qualcosa, forse la stessa che cerchi anche tu. Ha i capelli sciolti, per una volta, si muovono appena al vento e ne resti incantata.
Per un attimo senti il cuore accelerare i battiti ed immediatamente distogli lo sguardo: non sei timida, tantomeno pudica da vergognarti di una cosa simile, eppure non pensavi che tra le tante persone incontrate sarebbe stata proprio lei.
Che lei, anima forte quanto ferita, sarebbe stata in grado di farti sua senza nemmeno sfiorarti.
Le sei stata accanto per giorni, settimane, ma cosa hai davvero imparato, di lei?
Più che un chirurgo generale, sembra essere un chirurgo tuttofare, ma tutti possono descriverla in questo modo.
Cosa puoi dire di conoscere, di una donna che mai ha mostrato anche il più piccolo spiraglio di se stessa?
Sembra arresa, rassegnata, eppure è ancora lì, in quella terra martoriata, a tentare di salvare il salvabile.
Ti ritrovi a sorriderle dolcemente, come se ti stesse guardando, come se potessi realmente permetterti di volgerle un’espressione simile.
La jeep malandata è ormai entrata nel villaggio, accosta nei pressi di un locale modesto, ma se non altro pare esserci uno straccio di vita. Si volta, si accorge che la stai fissando – e probabilmente intuisce anche da quanto – e tu distogli lo sguardo di riflesso.
Più cauta, devi essere più cauta, e non permetterti errori.
Entrate, una folata d’odore di una birra non ben identificata invade le vostre narici, mentre una signora di colore alquanto ben messa si avvicina.
«Une table pour cinq, s'il vous plaît.»1 Un francese impeccabile, ma ormai non dovresti stupirti di quante risorse la dottoressa Senju sia in possesso. Seguite la cameriera, il tavolino è appartato, quasi gradevole. Prendi posto di fronte a lei, sai che sarà più imbarazzante, ma non vuoi avere timore, vuoi mostrare d’esser forte, di saperle tener testa.
Forse a lei tutto questo non importa, ma non hai intenzione di tralasciare nulla.
Ordinate, chiacchierate piacevolmente, come se le differenze di grado, competenze ed esperienze non contassero.
A volte ridi, a volte sei tu a far ridere, eppure non riesci a strapparle mai più di un sorriso appena accennato.
Sì, decisamente è una battaglia dura, ma qualcosa ti dice che vale la pena tentare, sforzarsi, mentre le altre tre non sembrano accorgersi degli sguardi discreti che le lanci e di come lei altrettanto discretamente li eviti.
«Ma non c’è dubbio che la vera rubacuori sia Mei!» Sentendo il tuo nome torni nel discorso, le due infermiere affianco a te hanno sguardi alquanto eccitati, pronte per ascoltare chissà quale gossip.
Come se ci fosse tempo per i gossip, in un inferno come quello.
«Allora, dicci! Quanti uomini hai avuto? Qualcuno di interessante magari qui?» Generalmente non ti dispiace l’argomento, ma ogni dettaglio potrebbe allontanarti dal tuo obiettivo.
E di certo la tua fierezza non consente sconfitte.
«Dai, Mei, non fare la preziosa, siamo tra donne!» ti incitano, mentre mantieni un’espressione serena, ma piuttosto enigmatica.
Le lanci una rapida occhiata, non vi sta nemmeno ascoltando, all’apparenza.
«Diciamo che non sono gli uomini ad essere nei miei interessi attuali», ambigua quanto schietta, quasi scandalizzi le presenti, ma non è la loro reazione che ti importa.
Tsunade si è voltata, ha su di te uno sguardo indecifrabile, come avesse avuto la conferma di un sospetto particolarmente sentito.
Ed hai voluto dargliela di proposito, questa conferma, lo realizza anche lei senza difficoltà.
No, non ti stupisci nemmeno che sia così intuitiva.
«Vado a chiedere se hanno della vodka», non è la solita voce apatica, né fredda. Non trema, naturalmente, ad occhi superficiali è la solita frigida responsabile del campo, ma ai tuoi – che l’hanno studiata così attentamente – non è sfuggito un minimo cambiamento.
Dentro di te sorridi.
Attendi giusto un paio di minuti, fingi di interessarti a quei discorsi mentre con la coda dell’occhio l’hai seguita sin quando non ha raggiunto il bancone. Trovi una scusa per alzarti, ormai sono perse in tutt’altro discorso perciò non pensano a te, alle tue vere intenzioni, a dove realmente tu sia diretta.
Ti fai strada con sicurezza, le belle labbra distese, lo sguardo alto.
Appoggi ambedue le mani al bancone, sorridi graziosamente al barista ed ordini un cocktail a caso.
Sai benissimo che ti abbia sentita arrivare, eppure non ti ha rivolto parola.
Nemmeno tu – quasi per ripicca – volgi lo sguardo a lei, come volessi trascinarla in un gioco di cui nemmeno conosci le regole, non t’importa.
E perché dovrebbe?
«Sembra che tu voglia evitarci», non cambi posizione, né il tono sereno di poco prima.
«Non amo le persone che fanno quel genere di discorsi» si giustifica, prendendo il proprio cocktail e sussurrando un merci impeccabilmente pronunciato.
«Non ami le persone che ti corteggiano», un’affermazione forse troppo azzardata, troppo palese, eppure sai di non poterti più tirare indietro.
E’ brava nelle elusioni, devi metterla con le spalle al muro.
Ed è quasi assurdo, perché se fosse lei, a farlo, non avrebbe nemmeno faticato. Non avrebbe faticato a fare assolutamente nulla, come sempre.
Sospira, non risponde subito, si porta prima il bicchiere alle labbra rosse.
«Sei avventata.» Rimani perplessa, interdetta: tra le tante reazioni che ti saresti aspettata, di rifiuto o qualsiasi altra cosa, di certo quella non rientrava nelle possibilità.
Ti ha messa lei con le spalle al muro.
Il barista interrompe quel momento di stallo e ti porge il bicchiere, ringrazi in inglese – sfigureresti, col francese – ed approfitti di quegli istanti per formulare una controbattuta.
Se c’è una cosa che hai imparato, in quel dannato paese, è che ogni attimo può essere cruciale.
Non trovi una risposta, non una che ti piaccia almeno – non all’altezza.
Bevi un sorso ed il bicchiere si riappoggia pesantemente sul bancone.
«Perché?» domandi d’istinto, senza veramente rifletterci «Perché pretendo troppo?» Scopri le carte, senza fingere, né girarci attorno.
Solo ora ti volti verso di lei, seria, quasi irritata, e di nuovo la reazione che ha non è ciò che ti aspettavi: sorride, anzi, sembra quasi ridersela tra sé e sé, come se tu avessi appena detto la cosa più buffa ed insensata del mondo.
Rimani decisamente perplessa, ora non sai proprio cosa dire.
«No, Mei. Pretendi troppo poco, per quello che potresti avere.» E’ amara, quest’affermazione, la senti rigirarsi nella tua mente quasi con dolore.
E non capisci, ancora non capisci a cosa si riferisca, e finalmente anche lei ti degna del proprio sguardo: è amaro, dannatamente amaro.
«Sono una quarantenne sciupata dalla disperazione che vede ogni giorno, di un paese che mai le sarà grato e mai le darà chissà quale futuro. Cosa credi di poter trovare di “troppo”, in me?» E’ un’autoironia pungente, quella che Tsunade sta facendo a se stessa.
L’ascolti, ma comprendi ancora meno: non l’avevi mai vista sotto questo punto di vista, anzi.
Sei incapace di rispondere, ancora una volta, ma quando la vedi scuotere sconsolatamente il capo – come avesse a che fare con una bambina troppo testarda – stringi i pugni e serri le labbra.
E la baci.
Così, di colpo, senza preavviso, senza smancerie.
Premi le tue labbra contro le sue, una mano tiene il suo volto quasi temesse un ritiro.
E te lo aspetti, anzi, l’immagine di un sonoro schiaffo sulla guancia è piuttosto reale e concreto… ma non arriva.
Non ricambia se non lievemente, ed è lei a distanziarsi per prima.
Ti fissa con quegli occhi magnetici, con quel dannato sguardo che non riesci a decifrare, poi prende delicatamente la tua mano e la allontana dal proprio volto, senza però lasciarla.
«Torniamo dalle altre», sentenzia. Non ti stupisce che anche in questa circostanza sia lei a comandare.
Probabilmente è anche questo che ti piace, di lei.
«D’improvviso ti piacciono le persone che fanno quel genere di discorsi?» la provochi, non riesci a trattenerti.
Abbozzi un sorriso che vorrebbe essere ironico, ma che risulta inevitabilmente dolce, almeno ai suoi occhi critici.
Ricambia con un notevole autocontrollo, riprendendo mano al proprio bicchiere per allontanarsi dal bancone.
«Non mi piacciono le persone che mi corteggiano.» Rotei le iridi al cielo: possibile che vinca sempre lei?

(…)
Per la prima volta nella tua vita, ti rendi conto dell’indispensabilità di una lavatrice, specie in un luogo dove lo sporco di sangue o di terra è all’ordine del giorno.
Sfreghi con una certa energia il camice che tieni tra le mani, china su una cesta di chissà quale legno quasi impermeabile con all’interno dell’acqua ormai sporca.
Sospiri, passi una mano sulla fronte per asciugarti il sudore: non importa che sia ormai sera, il sole non dà tregua a qualunque ora.
Ti rimetti al lavoro, non badi nemmeno al solito via vai di persone attorno a te, la routine.
Una mano ti si appoggia sulla spalla, e non hai alcuna difficoltà a riconoscerne il tocco.
«Usa questa.» Ti rialzi lentamente, portando lo sguardo sulla tua interlocutrice.
Non badi nemmeno a quella specie di cassa che tiene tra le mani, per quanto ingombrante sia la tua attenzione è altrove.
Probabilmente lo è sempre, altrove.
Lei comprende, ma non te lo fa notare ed appoggia l’oggetto a terra.
«Metti la cesta qui sopra, così non dovrai restare china e non ti verrà male alla schiena» ti dice, prendendo un manico della cesta.
Sorridi e prendi l’altro, insieme la caricate sulla cassa. Le lanci solo un’occhiata rapida: è perfettamente alla tua altezza. Sorridi di nuovo, tra te e te: non dovresti stupirti che abbia preso le misure perfette per te… e questo significa che ti ha osservata.
Che ti ha osservata molto bene.
«Non fare quel sorrisino», ma non ti trattieni, anzi, lo mantieni mentre lo rivolgi proprio a lei – e dentro di sé lo apprezza, ne sei quasi sicura.
«Oh, certo, “prevenire è meglio che curare”. Da quando sei il mio medico personale?» la provochi, come ogni volta.
Forse perché ti piace quel suo tentativo raramente ben riuscito di mascherare un sorriso, forse perché è l’unica occasione in cui è lei a distogliere lo sguardo o forse, semplicemente, perché sono i soli momenti che potete concedervi.
I soli in cui lei non sta pensando ad altre cento persone, ma si prende cura solo di te.
E, a modo tuo, tu di lei.
«Dottoressa Senju, sta arrivando di nuovo!» Ad interrompervi è la voce della signora Uzumaki, il momento si spezza e vedi la sua espressione mutare d’improvviso: preoccupazione.
Una seria preoccupazione, mentre il suo sguardo si sposta sulla strada sterrata, dove un paio di jeep mai viste prima si avvicinano.
Nulla di rassicurante, se Tsunade ha reagito in quel modo.
«Chi sono?» domandi, seguendo il suo sguardo su quei veicoli.
«Problemi» una risposta sintetica, come sempre.
Stai per chiedere ulteriori spiegazioni, ma l’infermiera prende Tsunade per un polso. «E’ meglio che vi facciate vedere, dottoressa. Venite…» quasi la spinge all’interno della tenda alle vostre spalle.
Resti lì, con le mani ancora bagnate, una canottiera mezza sudata e l’espressione di chi non ci sta capendo niente.
Perché far allontanare proprio Tsunade? E soprattutto, perché anche lei è così preoccupata?
Non riesci a porre altre domande, le jeep sono arrivate.
E nel momento in cui identifichi gli individui che le guidano la situazione ti è un po’ più chiara: un branco di buzzurri con barbe e capigliature discutibili, in canottiera e pantaloni strappati, ognuno dotato di un’arma – mitra, ad esser precisi.
No, decisamente nulla di buono.
Ma allora perché non si sono nascosti tutti quanti?
«Allora, la tettona dov’è, uhm?» Assottigli lo sguardo, irrigidisci i muscoli: no, non hai bisogno di chiedere spiegazioni per capire a chi si riferisca.
Ora ti è decisamente tutto più chiaro.
«La dottoressa Senju non è al campo, al momento. Dovrete ripassare», si fa avanti Shizune, a poca distanza da voi.
E’ rigida, in tensione come non mai, sembra debba scoppiare da un momento all’altro.
«Ripassare?» domanda ironico, volgendosi al resto della brigata e sfociando in una fragorosa risata – anch’essa rigorosamente ironica.
«Voglio la parte di anfetamine che mi spetta, so che è arrivata ieri, come ogni tre mesi» asserisce scherzoso, ma con un fare decisamente minaccioso.
Inspiri ed espiri profondamente, non vuoi attirare l’attenzione, eppure non riesci a distogliere gli occhi da lui mentre fissa con superbia ognuno di voi.
«E so anche che quella bionda non lascerebbe mai il suo adorato campo per insignificanti relitti umani, perciò ditemi dove - » s’interrompe.
Ti geli, ti blocchi sul colpo.
Ti ha vista e si è fermato.
Il suo sorriso è divenuto improvvisamente maligno, di un’ironia ben differente da quella che utilizzi verso Tsunade.
Non ti muovi, lui si avvicina, e vorresti soltanto sparire.
«Ma guarda che bella novellina che c’è qui…», lurido, viscido, pervertito.
Ti trattieni a stento dal palesare una smorfia schifata, perché sai che peggioreresti la situazione.
Ma ti fa schifo, veramente schifo il sol pensiero di ciò che gli sta passando per la mente.
«Sai, non ho poi così fretta di andarmene…» allunga la mano, arriverà a sfiorarti il volto – e chissà cos’altro – te lo senti, ma non puoi reagire.
Che diavolo fare?
Maledici la bellezza che da sempre hai sfoggiato con soddisfazione.
«Non osare toccarla», diversa è la voce che odi, diversa da quella che hai sempre sentito uscire dalle sue belle labbra rosse: decisa, sì, ma con quel rancore che promette vendetta.
Vedi la signora Uzumaki e Shizune preoccuparsi ulteriormente, mentre Tsunade esce dalla tenda e ti raggiunge, quasi a pararsi davanti a te.
Lo fissa, anzi, lo sfida con lo sguardo, come se lo conoscesse fin troppo bene e, proprio per questo, sapesse cosa aspettarsi.
E nemmeno questo ti piace, ne hai un terribile presentimento… specie quando quel sorrisetto beffardo si tramuta in uno dannatamente inquietante verso di lei.
«Eccola qui, la mia bionda preferita… basta sfiorarti queste personcine che ti tieni appresso ed esci allo scoperto, mh?» Il modo in cui la provoca ti irrita, ti irrita così tanto che senti le mani pruderti, perciò le stringi prima di compiere sciocchezze.
«La tua parte di anfetamine non è arrivata. Ai piani alti devono aver sospettato che ne ordinassi più del necessario e hanno diminuito i pacchi.» Non capisci se menta per proteggervi o se sia la realtà, è talmente fredda e sicura mentre parla che proprio non distingui.
Come diavolo fa a stare così calma? Come riesce a controllarsi, mentre tu sei già al limite della sopportazione?
Lo prenderesti a bastonate, uno del genere, ma a quanto pare Tsunade è stata costretta a trattarci anche in precedenza.
Cala il silenzio per i successivi attimi, probabilmente il simpaticone sta valutando se crederle o meno.
«Davvero una situazione spiacevole… scomoda per entrambi, direi» proferisce lisciandosi la barbetta.
Tsunade non si scompone, né si scosta dalla propria posizione, esattamente davanti a te.
Non capisce se stia difendendo te, o se stessa, o il campo, o tutti quanti.
«Scomoda per te, direi. Se si venisse a sapere che ci minacci regolarmente, credo che a trovarsi i militari dell’ONU in casa saresti tu, non io.» Sorridi per quella risposta così tagliente, per una volta sei contenta che Tsunade abbia sempre una risposta – disarmante – pronta.
Sa che abbia ragione, lo sa anche lui, ma non per questo lo apprezza: le porta una mano al collo, stringe appena, Tsunade stringe a sua volta il suo polso ma non si scompone.
Tu scatti, d’istinto, nel momento esatto in cui lui accenna ad aggredirla.
Ma è lei a fermarti, lei a portare l’altra mano al tuo ventre per impedirti di avanzare, mentre lui non s’è quasi accorto del tuo piccolo tentativo – per fortuna.
Sapeva che l’avresti difesa, così come sapeva che avrebbe dovuto difendere entrambe da una tua sconsideratezza.
Perché diavolo è uscita da quella tenda, se sapeva che sarebbe finita così?
Stringi i pugni, ti innervosisci, la tensione è alle stelle.
«Stai attenta, dottoressina… la prossima volta potrei non venire per le anfetamine» e lo vedi chiaramente, dove il suo occhio cada – anzi, perlustri senza tanto pudore.
Dentro ribolli di rabbia, stai cominciando a provare un istinto aggressivo che non credevi nemmeno di possedere.
La lascia e torna verso la jeep, le sei immediatamente accanto mentre riprende a respirare con regolarità, portandosi una mano al collo.
Lo sguardo che lanci a quel lurido è dei peggiori che ti siano mai venuti, ma lui si è già allontanato assieme al resto della banda.
Per una frazione di secondo stai ancora pensando di inseguirlo e colpirlo con qualsiasi cosa ti sia vicino, quel bastardo.
«Non farlo mai più», la sua voce non ti distrae, le tue iridi smeraldo seguono ancora la scia di polvere lasciata dalle jeep.
«Hai ragione. Avrei dovuto mollargli un pugno e spaccargli quella faccia da culo», non è da te essere volgare, non lo sei mai, ma in quel momento senti l’adrenalina scorrerti così rapidamente nelle vene che a stento ti controlli.
Lo dici a denti stretti, con ancora i pugni chiusi.
Ti senti tirare per un polso, Tsunade ancora ansima appena ma ha lo sguardo su di te serio come non mai.
«Non ti permetto di metterti nei guai, Mei».
«Non ho chiesto un tuo permesso».
«Sei sotto la mia responsabilità».
«E la tua stessa vita non lo è?!», ti liberi dalla presa con un gesto sgarbato, continui a fissarla con decisione, quasi con disprezzo, come se in quel momento stessi guardando lui.
Come se in quel momento si stesse verificando lo scenario che avevi temuto pochi istanti prima.
Temuto, sì, hai davvero temuto che quel criminale le mettesse le mani addosso.
E ciò che più ti ferisce è la consapevolezza che non avresti potuto difenderla, che non ne saresti stata in grado – anzi, avresti peggiorato tutto quanto.
Volti le spalle a tutti ed entri nella prima tenda disponibile, inspiri ed espiri profondamente, cerchi di calmarti, di riacquistare il controllo.
Colpisci con sgarbo un bicchiere e questo cade a terra, rompendosi in mille pezzi.

(…)
Il sapore è libidinoso.
La pelle delicata al tatto, morbida tra i denti, tanto chiara da risultare quasi diafana.
La percorri con cura, come non volessi lasciarti sfuggire nemmeno un centimetro, un dettaglio.
Ti insinui tra le sue gambe, generose tanto quanto ogni altra curva del suo corpo.
Non lo hai mai fatto prima, eppure ti sembra naturale, spontaneo, come fossi sempre stata preparata al vostro incontro.
O meglio, a quella notte.
Si controlla anche ora, senti i suoi mugolii soffocati mentre si morde le labbra carnose.
E questo ti innervosisce, perché non dà sfrutto dei tuoi sforzi, ed al contempo ti eccita.
Sai che stia per cedere, le tue dita si bagnano mentre la penetri leggermente, ma nemmeno questo ti è concesso: in un attimo ti ritrovi con la schiena sulle lenzuola, quelle iridi ambrate che si specchiano nelle tue senza rimorso.
Ansima, ha il volto arrossato, e non puoi fare a meno di accarezzarglielo.
Non ti ha lasciato prendere il controllo di sé nemmeno in questo caso, una constatazione nuovamente irritante quanto provocante.
La sfida di dominare qualcosa – qualcuno – che non può esser dominato ti esalta come non mai.
Ma non c’è spazio per quella dolcezza, in modo alquanto velato Tsunade sembra volersene distanziare, come avesse a che fare con un terribile scheletro nell’armadio.
Vorresti chiedere, reagire, azzardare, ma quando il suo corpo aderisce completamente al tuo – nudo, nude – avvampi.
E ti rendi conto della totale inesperienza quando la senti muoversi su di te, con quel garbo disarmante, che ti fa desiderare di tutto ed al contempo ti appaga.
Cerchi il suo volto, lo prendi tra le mani e lo avvicini con decisione al tuo, per poter tornare a sentire le sue labbra.
L’hai desiderata sin dal primo momento, e solo ora ti rendi conto che probabilmente anche lei ha desiderato te.
C’era una barriera tra di voi, qualcosa che lei aveva innalzato contro tutto e tutti, ma che – merito della tenacia o di chissà cos’altro – solo tu sei riuscita ad abbattere.
O almeno, questo è ciò che puoi dire, perché – di fatto – ancora non la conosci.
Lei avrà letto il tuo curriculum trenta volte ma tu, di lei, non sai nient’altro che il nome.
Non resisti, non vuoi resisterle.
Ti abbandoni fin quando le tue labbra non liberano un grido.
Un grido di piacere.
Si ferma, tu ansimi e leggi in volto la sua soddisfazione, ma anche un briciolo di dolcezza, come se tu le facessi tenerezza.
Si lascia cadere affianco, si copre col lenzuolo fino al seno – come se tu non avessi già visto ogni dettaglio, del suo corpo formoso – e socchiude gli occhi, quasi si concentrasse sul respiro.
Ti metti su un fianco, non vuoi rischiare di perdere nemmeno la più piccola occasione per guardarla, per ammirarla, per bearti della sua vista.
Ancora una volta cedi ed allunghi una mano per sfiorarle il volto arrossato, e dentro di te sorridi.
Non sai nemmeno perché, esattamente, ma sorridi.
«Credo di essere innamorata di te», lo dici senza paura, senza indecisione. Quel “credo” vuol rallentare i tempi, ma è solo una formalità – non hai mai avuto dubbi, tu, nemmeno per un istante.
Lei sorride con fare divertito, lasciandoti perplessa.
«Ti fa ridere?», la tua voce è meno dolce, meno sensuale.
Sai di gettarti in un discorso complesso, forse controproducente, ma lo hai rimandato fin troppo.
«No» risponde rilassata, volgendoti lo sguardo «E’ solo… molto da te, una cosa del genere» spiega.
Ritiri la mano.
«E’ un modo carino per dirmi che non provi la stessa cosa?» arrivi al punto, anche se sai che potrebbe fare molto, molto male. L’unica cosa che non ti destabilizza, che non ti fa crollare di colpo, è la naturalezza con cui lei affronta quel discorso.
«No. E’ un modo per dirti che il mio cuore non funziona più così bene», vuol dire tutto e niente, quella risposta, eppure ti ci aggrappi come l’unica speranza rimasta.
E’ la prima volta dopo mesi che accenna ad uno straccio di confessione, la prima volta che si spoglia davanti a te, anche se solo per un attimo, solo per una frase.
Rimani seriosa, come avessi realmente compreso la profondità di quelle parole.
Non dici nulla, non subito almeno.
Ti avvicini a lei e poggi la testa sul suo petto, allungando il braccio sul suo ventre, come ad abbracciarla.
E senti le sue dita intrecciare i tuoi capelli.
«Vorrà dire che, per una volta, sarò io a prendermi cura delle tue ferite».

(…)
Spari. Grida si innalzano sempre più forti minuto dopo minuto.
La tenda alle tue spalle, dalla quale hai portato fuori uno dei feriti lì alloggiati, si sfascia subito dopo.
Altri spari.
I suoni sono ovattati, l’adrenalina in corpo ti protegge dal dolore che dovresti sentire alle braccia e alle gambe per tutte le persone che hai portato via di peso.
Non sai se siano al sicuro, sui furgoncini dell’organizzazione, ma ci speri, non hai scelta.
Alcuni di loro perdono molto sangue, Shizune fa il possibile, ma non sai se sarà sufficiente.
Torni al campo di corsa, ci sono ancora spari, ma hanno bisogno di tutte le bende che potrai trasportare per impedire a vittime innocenti di morire.
Hai paura, una fottuta paura, ma non per questo ti arrendi o ti fermi.
Ti nascondi qualche istante dietro ad un container, maledici quegli idioti che vi stanno sparando addosso: a quanto pare, non a tutti fa piacere che vengano curate tutte le fazioni indistintamente.
Riparti di corsa, una delle tende dell’infermeria è vicina, riesci a raggiungerla ma è distrutta.
Non t’arrendi, ti inginocchi, sposti le assi di legno e cerchi di recuperare il possibile.
Qualcosa, poco più in alto di te, si spezza: un pezzo di legno, probabilmente della struttura portante.
Te ne accorgi troppo tardi, cerchi di spostarti ma vieni colpita, atterrata.
Il sapore di terra immediatamente t’invade la bocca, sputi nella speranza di liberartene, anche se fatichi a muoverti: sei ferita, lo senti, ma l’adrenalina ancora una volta maschera il dolore.
Mentre cerchi di liberarti odi una voce ovattata, lontana, disturbata, eppure la riconosci comunque.
Alzi il capo: Tsunade è ad una decina di metri da te, dà ordini ed indicazioni, cerca – come te – di salvare il salvabile da quell’attacco locale.
Strisci, non riesci a muovere una gamba, e sai che farà un male terribile quando anche il tuo corpo lo realizzerà.
Negli sguardi che lancia ai dintorni, preoccupati e vigili, uno giunge fino a te.
Sgrana gli occhi, immediatamente comincia a correre nella tua direzione – sei davvero messa così male?
«Mei!»
Uno sparo.
La parte alta del suo petto, verso la spalla, comincia a grondare sangue.
Si ferma, si inginocchia, cade a terra.
E dietro di lei quel bastardo con la pistola ancora puntata davanti a sé.
«Tsunadeeeee!» gridi, la voce ti muore in gola subito dopo, mentre ancora cerchi di raggiungerla.
Angoscia, disperazione, terrore.
La chiami ancora, lui ride, lei non si muove.
La terra sotto di lei si sporca di sangue.
Stringi i denti, te ne freghi del dolore che comincia ad arrivare, ma non sarà mai furente quanto lo sei tu.
Strisci e preghi qualsiasi dio o santo che non te l’abbiano strappata.
«Ti prego…» bisbigli.
Qualcosa ti colpisce alle spalle, perdi i sensi.
Buio.

(…)
Sbatti le palpebre un paio di volte, la vista è ancora annebbiata, metti a fuoco un stanza sudicia dopo qualche secondo.
E sbarre: davanti a te e ai lati, una sorta di prigione dove sei rinchiusa insieme ad altre volontarie del campo.
Ti metti seduta, la terra sotto i tuoi piedi è sporca, ma l’emicrania per il colpo alla testa subìto maschera qualsiasi considerazione sulla schifezza di quel luogo.
Senti ansimare appena a poca distanza da te, volgi la testa di lato e sgrani gli occhi: Tsunade, nella cella affianco, faticosamente appoggiata alla parete.
«Sei viva…» è tutto quello che riesci a bisbigliare, e se quella maledetta guerra non ti avesse strappato le lacrime, probabilmente piangeresti.
Si volta anche lei, accenna ad un lieve e faticoso sorriso.
«Anche… tu…» fatica a parlare, è sudata, probabilmente è febbricitante mentre con un braccio cerca di tamponare la ferita con pezzi dell’abito che si è strappata.
Sanguina, sanguina copiosamente chissà da quanto tempo, e l’eccessivo pallore sul suo volto non lascia presagire nulla di buono.
Noti di sfuggita l’espressione di Shizune, anche lei rinchiusa in un’altra cella: ha il capo basso, si stringe tra le braccia e sembra debba scoppiare a piangere da un momento all’altro.
Le altre non sono di un umore migliore, anzi.
Perché sei l’unica che ancora non si arrende?
Cominci a sospettare di essere anche l’unica a non comprendere davvero la situazione.
Scuoti appena il capo, senti la gamba dolorante ma non te ne importa, ti trascini più vicina alle sbarre che ti separano da lei.
«Avvicinati, cerco di fermarti l’emorragia» dici con quel tono ormai rigido, ma che non perde la speranza.
Tsunade non ti risponde, non subito almeno.
«Se mi… muovo… perderò… più sangue…» biascica a fatica. Tu non capisci – o meglio, non vuoi capire – e ti aggrappi a quelle maledette sbarre di metallo, gelide nonostante le temperature perennemente afose del luogo.
«Ma così non riuscirai a curarti e – »
«Mei, morirò.» fredda, apatica, dolorante.
Ti guarda negli occhi mentre lo dice, hai come l’impressione che anche lei non riesca a piangere.
Resti così, con le labbra dischiuse, il cuore che accelera vorticosamente i battiti ed improvvisamente ogni cellula del tuo corpo grida dolore.
Silenzio.
Nessun altro, dei presenti, fiata.
Perché non hai voluto accettarlo fin da subito?
Stringi i pugni, abbassi il capo.
«Qualcuno verrà a prenderci… insomma, facciamo parte di un’organizzazione!» ti aggrappi ad ogni cosa, pur di cercare una via d’uscita, pur di non doverti arrendere.
Ancora silenzio.
«Ho dato l’allarme poco dopo l’attacco, ma impiegheranno ore per arrivare dal Giappone…» non riesce ad aggiungere nulla, Shizune, le lacrime ne invadono gli occhi, soffocandone ogni altra parola.
Gli altri abbassano il capo e si volgono altrove.
L’unica col volto alto, lo sguardo ancora fiero dritto davanti a sé, è proprio Tsunade: possibile che riesca ad essere forte anche davanti alla morte?
Vorresti esserlo anche tu – forte.
«Non posso vederti morire…» bisbigli, fregandotene di ciò che possono pensare gli altri, fregandotene che quell’anomala relazione creatasi nei mesi passati possa venire a galla.
Alzi lo sguardo, gli occhi lucidi, ed incontri di nuovo i sui ambrati, così maledettamente belli.
«Non sono abbastanza forte per questo», è un sussurro, quella confessione, ma non puoi dire altro, né riuscivi a trattenerti.
Si fa improvvisamente seria, come se si rendesse conto della veridicità delle tue parole.
Si sente in colpa, Mei, si sente in colpa perché ti ha concesso di amarla e poi ti abbandona.
Lo sa, che andrà così, lo sapete entrambe.
Continuate a guardarvi anche se fa male, anche se questo significa ferirvi ancora ed ancora, eppure nient’altro vi è stato concesso.
Tutto ciò che vorresti è sfiorarla di nuovo, quasi ad accertarsi che sia ancora lì, sia ancora con te – anche se in quello schifo di mondo.
La porta si apre d’improvviso, due uomini armati entrano, accompagnati da lui.
Stringi i denti, gli rivolgi uno sguardo omicida, mentre senti una rabbia disumana farsi largo nelle tue vene.
«Tu… io ti – » ma non prosegui, tenti di alzarti ma la gamba ferita cede, costringendoti a restare a terra.
Lui ride, nessuno ha il coraggio di guardare – nessuno tranne Tsunade, che gli rivolge la medesima occhiataccia.
«Cosa pensi di fare, ragazzina, mh? Non dirmi che vuoi fare l’eroina» ti stuzzica, ti provoca.
Dovresti startene zitta, ma non ci riesci, ti sembra ti abbiano strappato ogni cosa – persino il cuore.
«Lurido bastardo» ringhi, alzando di nuovo lo sguardo su di lui. Si avvicina alla tua cella, sogghigna, e tu ricambi con tutto l’odio che ti è concesso.
«Sai, sei un sacco carina, e mi piacciono le tipe con carattere… ma vedi, ho un debole per le bionde, mi spiace» ironico, sadico, sposta lo sguardo su Tsunade che sembra faticare persino a rimanere cosciente.
Lui ride e lei muore.
Lui ride e lei sta crepando senza che tu possa fare nulla per aiutarla.
Non puoi salvarla, Mei.
Non puoi.
In uno scatto d’ira profondo ti rialzi, stringi i denti per il dolore ma riesci ad arrivare alle sbarre: lo cogli di sorpresa, lo afferri per gli stracci che porta addosso e lo tiri con violenza verso di te, facendolo sbattere contro questa dannata cella.
Impreca in francese, ti maledice mentre il suono di un naso rotto – il suo – fa compagnia ad un copioso rivolo di sangue.
Sorridi soddisfatta, almeno fino a quando non crolli nuovamente a terra, la gamba che ormai puoi considerare perduta.
Lui si allontana di scatto, continua ad insultarti, a maledirti, mentre i suoi uomini ti puntano il fucile contro.
Non hai paura di morire, non te ne frega niente.
Lo guardi ancora in faccia con aria di sfida, sai che vincerà comunque lui, ma ciò che ti importa è solo che abbia sofferto almeno un po’.
Ciò che ti fa più rabbia è che non comprenderà mai il tuo dolore, mai.
«Bâtarde ! Je vais te tuer, tu souffriras jusqu'à la mort ! Tu – »2
«Prends-moi »3 lo interrompe, faticando nel mostrarsi ancora sicura e ferma.
Non capisci cosa si dicano, lo puoi solo intuire – e ciò che intuisci non ti piace per nulla.
Lo sguardo del ribelle passa da te a lei nell’immediato, un sorriso sadico compare sul suo volto mentre fa cenno ai due uomini di aprire la sua cella.
Osservi inerme, fin quando non capisci.
E sbarri gli occhi.
«No!» Tenti ancora di alzarti, ma la gamba non ti sostiene, cadi, mentre lei viene fatta alzare a forza – e la sua ferita continua a sanguinare.
Gridi, cerchi di dissuaderla da qualsiasi idea lei abbia in mente, cerchi di attirare nuovamente l’attenzione di quel bastardo ma niente, non vieni più considerata.
Quando ormai stanno per uscire dalla stanza, si volta un’ultima volta verso di te.
Aishiteru , Mei4, leggi dalle sue labbra.
Un’ultima parola, non in francese, non in inglese, ma nella vostra lingua.
Una lacrima ti riga il volto.
Mentre quella porta si chiude e ti senti crollare, finalmente riesci a piangere.
Silenziosamente, dentro di te, con un contegno che non vorresti avere.
Ti accovacci a terra, quasi ti contorci, senti Shizune piangere con molta più enfasi.
La invidi: può piangere, può strillare quanto vuole, ma non soffrirà mai quanto te.
Uno sparo.
Rialzi il capo di colpo, sgrani le iridi verde smeraldo: e capisci, forse per prima, capisci.
Capisci che quel colpo non gliel’hanno inflitto loro, che lei non avrebbe mai permesso a nessuno di decidere della sua vita, per quanto misera fosse diventata.
Capisci che anche questo lo ha fatto per te: tu lei hai detto di non essere abbastanza forte per vederla morire.
O forse, anche lei non era abbastanza forte per vederti nella disperazione.
Il tuo cuore si ferma.

(…)
Pioggia leggera, colori freddi, silenzio.
Persone vestite di nero, ombrelli aperti, preghiere.
Ed una lapide.
Immagini così il suo funerale, ma ti sei guardata bene dall’andarci: probabilmente avresti sentito elogiare una Tsunade che nemmeno conoscevi.
Te ne stai lì, seduta sul suo letto, nel suo appartamento di Nagasaki – a casa sua.
Inspiri un dolce profumo di fragole, che in lei hai appena percepito.
Ti guardi intorno e quasi sorridi: non immaginavi che una persona tanto puntigliose fosse, in realtà, estremamente disordinata.
Ti lasci cadere sdraiata sul letto, chiudi gli occhi e sospiri: vorresti averla conosciuta altrove, in un altro momento, magari in un'altra vita.
O forse no, non l’avresti apprezzata ed amata allo stesso modo.
Ti giri su un fianco, sfiori il cuscino: è delicato quanto la sua pelle, e questo ti strappa un sorriso amaro.
Devi lasciarla andare, lo sai, o non sarai mai in pace con te stessa, e lei non vorrebbe vederti così – lei che ha cercato di alleviarti il dolore fino all’ultimo.
Ti si stringe di nuovo il cuore in una morsa, perciò ti alzi di scatto per non piombare ancora in quel terribile oblio.
Sono passate ormai settimane, eppure ti sembra vivo quanto il giorno stesso.
Ti alzi di malavoglia, dai un ultimo sguardo in giro: disordine, disordine ovunque.
Intravvedi una delle sue tante fotografie, una piccola, una in cui stranamente sorride – quasi un miracolo.
Sorridi a tua volta, come sorridessi a lei e la prendi, mettendola nella borsa: lasciarla andare non significa dimenticarla.
I tuoi passi sono lenti, mentre esci dal suo appartamento – nel quale ti sei praticamente trasferita da quando ne sei venuta a conoscenza, le chiavi te le ha gentilmente lasciate il suo migliore amico.
Lui, in quell’appartamento, non ci vuol più mettere piede.
Ed ora nemmeno tu.
Ti fermi sulla porta, lanci un ultimo sguardo: fa male, malissimo, ma di nuovo sorridi, perché sai quanto a lei sarebbe piaciuto.
«Aishiteru, Tsunade».



_Note:
1 "Un tavolo per cinque, per favore"
2 "Bastarda! Io ti uccido/ucciderò, soffrirai fino alla morte! Tu - "
3 "Prendi me"
4 "Ti amo, Mei"
  
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