6
Minnesota. Anni fa.
“Lei
è pazzo”.
Era
la seconda volta che Lily
definiva l’uomo che aveva incontrato sull’autobus
in quel modo.
Perché
non esisteva un’altra
spiegazione.
Era
reale. Lei era reale. Non era
la figlia di un dannato personaggio di una storia inventata. Non veniva
da un mondo
incantato, non era uscita da un uovo di drago che era stato rubato dal
nido di
sua madre da Biancaneve e dal Principe Azzurro. Che erano i genitori di
Emma.
Di Emma! La sua vita era un disastro, era un grande, enorme casino, ma
era
fottutamente vera.
‘Non
me ne starò qui a credere a
tutte queste stupidaggini’, pensava, mentre il vecchio con la
barba grigia la
guardava, comprensivo e benevolo. ‘Sono le cazzate di un
arteriosclerotico’.
Solo
che non lo erano e Lily lo
sapeva. Per quanto si ripetesse che erano tutte fandonie,
ciò non bastava a
liberarla da quella certezza. Era come se quel tizio le stesse
confermando cose
che in fondo immaginava già.
Emma
era entrata nella sua vita e
quando l’aveva incontrata al supermercato aveva subito
avvertito un legame,
come se un filo rosso e invisibile le unisse. Per questo era stato
così facile
parlarle e volerle bene. E questa era la prima cosa.
Quell’Apprendista, come si
faceva chiamare, sapeva un sacco di fatti che la riguardavano. E questa
era la
seconda. C’era qualcosa di fondamentalmente diverso, di
sbagliato in lei e
questa era la terza. La quarta era... che quel vecchio aveva davvero
l’aria di
un mago. Parlava in modo strano, usando parole a volte antiquate.
“Ho
imprigionato l’Autore nel
libro. Ora non può più modificare le storie.
Può solo registrare dei fatti”,
disse l’Apprendista, incurante del suo commento.
“Purtroppo non si può tornare
indietro. Nemmeno il mio maestro è in grado di sistemare
questa faccenda”.
“Quei
due... mi hanno rovinata”,
riuscì a dire Lily.
L’Apprendista
assentì. “Sono stati
manipolati. Come me, del resto”.
“Mi
hanno maledetta”, continuò,
come se non avesse sentito.
“Già,
è vero”.
Il
suo primo pensiero fu che li
voleva morti. Tutti e due. Erano i genitori di Emma, ma li voleva
morti. Erano
stati manipolati, ma a lei sembravano comunque dei mostri e li voleva
morti.
“Dov’è
mia madre adesso?”
“È
in questo mondo”.
“E
mio padre?”
“Non
so niente di tuo padre, cara.
Mi dispiace”. L’Apprendista guardava dritto dinanzi
a lui. “In ogni caso non
puoi raggiungere Malefica, adesso. C’è una
maledizione”.
“Un’altra?”
“Questa
è diversa. La custodiva tua
madre nel suo scettro, ma la Regina Cattiva gliel’ha
sottratta. Ha tolto il
lieto fine e i ricordi a moltissima gente, compresi i genitori di Emma.
Lei si
trova qui perché loro ce l’hanno
mandata”. Le raccontò della teca magica costruita
da Geppetto, nella quale era stata riposta una Emma appena nata
perché potesse
salvarsi.
Sì,
erano dei mostri. Quei due
erano dei mostri, senza dubbio. Biancaneve era un mostro.
Le
sovvenne l’immagine di una
ragazzina con i capelli neri e le labbra rosse, la pelle candida come
neve, una
ragazzina in grado di incantare gli uccellini e commuovere il
Cacciatore, il
killer assoldato dalla matrigna. Stava per esplodere in una risata un
po’ folle
e isterica, ma riuscì a trattenersi.
“La
maledizione...”, ricominciò
Lily.
“Deve
essere spezzata. E sarà Emma
a farlo. Tuttavia è ancora presto. Passeranno parecchi anni
prima che il suo
destino si compia. Il suo e... il tuo”.
“Il
mio?”
“Questa
non è stata l’ultima volta,
Lily”. Si voltò di nuovo, incrociando i suoi occhi
sbarrati e ripieni di furia.
“Tu ed Emma siete legate e così sarà
per sempre. Un giorno la rivedrai. Emma
sarà la Salvatrice, ma l’oscurità
incombe per tutti. L’oscurità... minaccia
chiunque”.
***
Storybrooke.
Oggi.
La
gemma rossa brillò, illuminando l’antro in cui
Emma custodiva la roccia.
L’Oscuro
tirò con vigore per estrarla.
Un’ondata
di potere si riversò fuori dalla spada e la
investì, scaraventandola qualche
metro più indietro.
Se
lei non fosse stata l’Oscuro, ma una persona comune, si
sarebbe trasformata in
un mucchietto di cenere.
Tremotino
ridacchiò, divertito. – Credevi davvero che fosse
così semplice, cara?
Emma
scosse il capo, stordita dalla magia protettiva che circondava
Excalibur. Si
voltò, osservando il suo pugnale e la spada ancora al suo
posto nella roccia.
Avvertì la furia salire come una marea. No, certo, non
avrebbe mai potuto
essere così facile. Avrebbe dovuto immaginarlo. Essere
l’Oscuro, aver
abbracciato l’oscurità, possedere tutto quel
potere non era sufficiente.
-
Questo tentativo è stato addirittura più ridicolo
del tuo tête-à-tête
con il pirata. Una perdita di tempo
inutile. – aggiunse Tremotino.
Emma
tornò verso la roccia.
-
Se davvero vuoi quella spada... devi pagarne il prezzo –
commentò lui,
aggiungendo un’enfasi particolare alla sua parola preferita: prezzo.
-
Datevi una mossa, ragazzi. – disse Leroy agli altri nani, al
lavoro nelle
miniere. – Visto che Pisolo è un albero dobbiamo
essere produttivi anche per
lui.
-
Produciamo un po’ di ossigeno. – replicò
Gongolo.
Persino
Leroy sorrise per qualche momento, salvo poi recuperare la sua
espressione
scura e scontrosa. – Ehi! Concentriamoci.
-
Giusto.
I
nani si girarono di scatto, udendo la voce di Emma.
La
figlia degli Azzurri se ne stava comodamente seduta su una roccia, con
le gambe
accavallate e un accenno di sorriso. Sembrava molto a suo agio, quasi
stesse
assistendo ad un film.
-
Nessuno ama le brutte sorprese. – continuò la
nuova Oscura.
-
Niente polvere di fata per te, sorella. – disse Brontolo,
risoluto.
Emma
si alzò e prese uno dei picconi appoggiati al muro.
– Infatti sono qui per
qualcos’altro. Qualcosa di più... affilato.
-
Il mio piccone. – disse Gongolo.
-
Oh, sai, ho imparato una cosa, da quando sono diventata
l’Oscuro. – Raggiunse
Gongolo. – Se c’è il tuo nome su
qualcosa... tienitelo stretto.
-
Che cosa sei diventata? – domandò Leroy, agitando
il suo, di piccone. – Gli
Azzurri dicono che Emma, la Salvatrice, è ancora qui da
qualche parte. Gli farò
sapere che non l’ho vista. Io vedo soltanto
l’Oscuro Signore in azione.
La
voce di Brontolo ebbe su di lei lo stesso effetto che avrebbero avuto
delle
unghie che sfregano contro una lavagna. - Già. Io sono
l’Oscuro. E tu un nano
da quattro soldi che come unica arma ha un piccone.
-
Fatti sotto, se ne hai tanta voglia! – esclamò
Leroy.
-
Fatti sotto? – Gongolo non credeva alle sue orecchie.
– Ma come fatti sotto?
Leroy...
-
Tu taci. – lo rimbeccò il nano, squadrando
l’Oscura. – Pensi che un nano non
possa combattere? Non importa quanto sei forte. Sono disposto ad
affrontarti.
Emma
strinse gli occhi, fino a ridurli a due fessure. Brontolo ebbe la netta
impressione che la ragazza che un tempo aveva spezzato la maledizione
della
Regina Cattiva lo stesso studiando, che stesse spiando nella sua mente.
-
Cosa stai facendo? – chiese.
-
Leggo dentro di te. – rispose Emma. – Ecco
un’altra cosa che ho imparato,
diventando l’Oscuro.
-
Leggi?
-
Le tue paure. I tuoi segreti. Le tue debolezze. –
scandì, avvicinandosi di più
a lui.
-
Ah! – Leroy sollevò di più il piccone.
– Le debolezze, avete sentito?
Gli
altri nani avevano sentito benissimo, ma se ne stavano tutti
schiacciati l’uno
contro l’altro, timorosi.
-
Un comportamento degno del miglior Oscuro. –
continuò Leroy, imperterrito. – Un’altra
cosa che farò sapere al nostro sceriffo. Così la
smetterà di comportarsi come
un povero padre preoccupato per la figlia e troppo spaventato per
agire.
-
Fallo pure. – fu il commento di Emma. – Credi che
me ne importi qualcosa, di
quello che dirai a mio padre?
-
Oh, quindi non ti importa se gli dirò che sei diventata un
mostro?
-
Potrebbe importare a te nel momento in cui me la prenderò
con ciò che hai di
più caro in questa città. E non parlo del tuo
piccone. – Emma si sporse verso il
nano e gli parlò in un orecchio, come aveva fatto con
Gongolo un istante prima.
– Parlo... di una certa fata.
Il
cuore gli balzò nel petto come un pupazzo a sorpresa
impazzito. – Non lo farai.
-
Prova a sfidarmi di nuovo, allora.
-
Sei così codarda da fare del male ad una persona innocente?
– sibilò il nano.
Le mani che serravano il manico del piccone sudavano copiosamente.
-
Oh, no, affatto. Colpire te adesso sarebbe un gioco da ragazzi. Ma
esistono
cose ben peggiori della propria morte. – L’Oscuro
continuava a sussurrare le
parole nel suo orecchio. Il tono era scostante e determinata. -
Preferisci che
le strappi il cuore o che le strappi le ali?
Le
mani gli tremavano al punto tale che faceva fatica a mantenere la presa
sulla
sua arma. Ebbe voglia di scaraventargliela sulla testa, sapendo che
comunque
non l’avrebbe uccisa.
Poi
fece un passo indietro e lo gettò via, con rabbia.
-
Bene. – commentò l’Oscuro. –
Buon lavoro, nani.
Emma
tornò con il piccone e si avvicinò a grandi passi
alla roccia. Lo sollevò sopra
la spalla e si preparò a calarlo sulla dura pietra.
-
Il piccone di un nano! – esclamò Tremotino,
comodamente appoggiato alla roccia.
– Questo condurrà certamente ad un insuccesso.
Anche se... ammetto che le tue
minacce mi sono piaciute. Sarà che non siamo in buoni
rapporti con le fate.
-
Il piccone di un nano spezza qualsiasi cosa. –
ribatté Emma.
-
Ma niente spezza la magia. A parte un bacio. – Tremotino
sembrava divertirsi un
mondo quando la sbeffeggiava. – Hai mai pensato di estrarla
con un bacio?
Emma
sferrò un potente colpo di piccone, imprimendovi tutta la
forza che aveva.
Il
piccone si ruppe. Le rimase solo il manico.
Tremotino
emise la sua stridula risatina. – Se la spada potesse parlare
ti direbbe che
sei una povera sciocca! Stai esaurendo le opzioni, cara. Vedi, noi
vogliamo
soffocare la luce. Quindi, abbiamo bisogno di un eroe che estragga
Excalibur
dalla roccia.
Emma
avrebbe dovuto pensarci prima. Era troppo occupata a valutare tutte le
possibili opzioni e non aveva considerato la più ovvia, dato
che ad estrarre
l’arma era stato Artù, un uomo che era tutto
fuorché un eroe. La profezia di
Merlino aveva indicato lui come re di Camelot, ma poi le aspettative
erano
state deluse.
Tuttavia
era un eroe all’inizio. Era un vero re prima di scoprire che
Excalibur era solo
una spada spezzata. Lo era prima di perdere la testa nel corso della
sua
ricerca.
-
E chiariamoci. – continuò Tremotino. –
L’eroe non sei tu. Perciò perché non la
smetti di perdere tempo e non vai a prendere l’eroe di cui
abbiamo bisogno?
Ancora
prima che lui continuasse, Emma sapeva già chi doveva
cercare.
-
Naturalmente entrambi sappiamo... di chi si tratta.
-
Tu.
Rise
di nuovo. – Beh, non proprio. Ma se così per te
è più facile...
Emma
gettò via il manico di legno sul quale capeggiava il nome di
Gongolo. – Lui non
è un eroe.
-
No. Non ancora, cara. Adesso è solo... un uomo. Un uomo da
ricostruire. Senza
di me, in effetti... non
è niente.
Emma
appoggiò le mani alla roccia, osservando gli elaborati
disegni della lama. La
gemma rossa nel pomolo era come un occhio sempre aperto che vegliava.
-
Lo costruirò. – disse l’Oscura, senza
distogliere lo sguardo dalla spada.
-
Vuoi costruirlo tu? Sarà difficile, cara.
Il
suo indice seguì i dettagli impressi sull’elsa. -
Non io. Ma qualcuno lo farà
per me.
Trovò
Merida dove chiunque si sarebbe aspettato di trovarla.
Vagava
ai margini di Storybrooke, nel bosco, con una freccia già
incoccata. Girava in
tondo, più che altro. I suoi occhi cercavano disperatamente
qualcosa di
familiare, qualcosa che potesse ricondurla a casa, forse. I riccioli
rossi le
spiovevano sul viso ed erano più in disordine del solito.
Quando
Emma comparve alle sue spalle, lei si voltò di scatto,
tendendo la corda
dell’arco al massimo.
-
Merida. Che piacere rivederti – disse l’Oscura, in
tono piatto.
-
Tutto questo è opera tua, vero?! –
gridò Merida. – Avrei dovuto immaginarmelo
da quando ti ho incontrata. Alla fine i tuoi demoni ti hanno raggiunta.
-
Metti via quell’arco. Non ti servirà a niente.
– Emma avanzò di un passo.
Merida
osservò l’essere maligno che una volta le aveva
strappato il cuore, minacciando
di ucciderla. Allora aveva visto una donna tormentata dalla magia
oscura,
tormentata da voci che sentiva solo lei e che volevano spingerla verso
il
baratro, verso la tenebra. Ne aveva avuto subito paura, ma
l’aveva anche
aiutata, perché sapeva quanto fosse terribile portare sulle
spalle il peso di
una maledizione.
-
Stai lontana da me! – disse Merida, preparandosi a scoccare
la sua freccia.
-
Oppure?
-
Oppure dovremo combattere.
-
Non hai nessuna possibilità.
-
Non ti conviene sottovalutarmi.
-
Mi baso su quello che so. Non sei riuscita ad uccidere l’uomo
che ha trafitto
tuo padre alle spalle. L’hai mancato. L’hai mancato
come una principiante. E
adesso vorresti usare quelle frecce contro di me? Certo, la distanza
è
nettamente inferiore. È più facile... –
Il sorriso di Emma le raggelò il sangue
nelle vene.
La
mano di Merida tremò visibilmente. La regina di DunBroch era
paonazza, con gli
occhi più sgranati che mai. Sembrava dovesse svenire da un
momento all’altro o
crollare a terra fulminata. Scoccò la freccia, urlando,
presa dalla furia e
quella filò nell’aria che la separava da Emma, o
qualsiasi cosa fosse la
creatura che aveva osato parlarle in quel modo di suo padre.
Emma
non bloccò la freccia. Sarebbe stato semplice. Per quanto
giungesse veloce,
puntando dritta al suo cuore, lei la vedeva arrivare con una lentezza
disarmante.
L’Oscura
allargò le braccia e la punta la trafisse. Il dolore fu
breve. Intenso, ma
breve. Emma non cambiò neppure espressione, mentre afferrava
la freccia di
Merida e la estraeva, per poi spezzarla a metà e gettarla
via.
-
Dove sono i miei fratelli? Cos’è successo?
Dimmelo!
-
Possiamo andare avanti così tutto il giorno, Merida.
– osservò Emma, ignorando
la domanda. Non si chiese da dove fosse venuto quel ricordo, quello
legato al
padre di Merida. Immaginava che, in quanto Oscura, certe conoscenze
fossero...
parte di lei. Immaginava che la sua mente potesse arrivare ovunque,
immaginava
che, in qualche modo, potesse arrivare alle debolezze, ai segreti delle
persone
con cui era entrata in contatto. Così come nelle miniere era
arrivata al punto
debole di Brontolo. - Dipende da te. Possiamo anche cambiare gioco.
Potrei
trasformarmi in qualcosa che già conosci, se la cosa ti
diverte.
Merida
afferrò un’altra freccia e la incoccò.
Una nube magica abbracciò Emma,
occultandola per qualche momento. Crebbe vistosamente davanti ai suoi
occhi,
salì verso l’alto, verso le fronde degli alberi.
Si gonfiò, come un ventre
gravido in procinto di partorire qualcosa di mostruoso.
Mor’du
allungò una zampa nera verso di lei e Merida
spiccò un balzo per evitarlo.
Incespicò e cadde malamente. Non perse la presa
sull’arco e, afferrata una
nuova freccia, la scagliò contro l’orso mannaro
che ora ruggiva, imbestialito.
L’enorme bocca piena di denti aguzzi e letali avrebbe potuto
divorarla in un
solo boccone.
Mor’du
si precipitò verso Merida, minacciando di schiacciarla sotto
il corpo possente.
Lei si alzò e prese a girargli intorno, standogli il
più lontano possibile.
Scagliava una freccia dietro l’altra, colpendolo sempre, ma
senza mai riuscire
ad ucciderlo. L’orso sradicò un albero dalle sue
radici e quello si piegò
lentamente, scricchiolò e infine rovinò a terra,
sollevando foglie e causando
la fuga precipitosa di uno stormo di uccelli.
Non
è Mor’du! Sta giocando con te!
La
voce che urlava nella sua testa era molto simile a quella di suo padre,
Fergus.
“Non
sei riuscita ad uccidere
l’uomo che ha trafitto tuo padre alle spalle. L’hai
mancato. L’hai mancato come
una principiante”.
Era
la verità, lei l’aveva mancato. Aveva mancato quel
cavaliere che non aveva
neppure visto in faccia. La freccia gli aveva solo aperto un foro nel
mantello
rosso. Merida aveva sognato quel momento per molte notti, ancora adesso
lo
sognava. Ci aveva pensato e ripensato e quando ci pensava la
conclusione era
sempre diversa; riusciva a trafiggere l’uomo prima che lui
trafiggesse suo
padre. Quando ci ripensava lei era sempre un po’
più precisa, più veloce. Molti
le avevano detto che non era stata colpa sua: Mulan, sua madre, i suoi
fratelli...
Ma
l’Oscuro voleva parlare solo del lato negativo delle cose.
Voleva che si
ricordasse solo della parte brutta, del male, perché
l’Oscuro era il male. La
Emma che aveva incontrato nella foresta era già preda della
magia nera, eppure
non era ancora stata risucchiata nel vortice della
malvagità. La cosa che si
era trasformata in Mor’du... quella era terribile. Infilava
il dito nella piaga
per avere la meglio su di lei.
-
Maledetta strega! – gridò Merida, con il respiro
affannoso.
L’orso
ruggì ancora, levando il muso verso il cielo. Poi la nuvola
magica lo riavvolse
ed Emma riassunse le sue sembianze. Merida si sentì
afferrare per il collo. Un
attimo dopo, erano faccia a faccia.
-
Adesso verrai con me. Non hai altra scelta. Non puoi battermi. La tua
testardaggine
non basterà. – precisò
l’Oscuro.
-
Vuoi il mio cuore? – sibilò Merida, senza mai
staccare gli occhi dai suoi. –
Prendilo! Visto che è così facile per te... che
cosa aspetti?
-
Prenderò il tuo cuore, puoi starne certa. Se non farai
ciò che ti dico, lo
prenderò. E non lo farai, ne sono sicura. Quelle come te non
imparano mai. –
Emma inclinò la testa di lato, quasi stesse ascoltando
qualcuno che le sussurrava
parole nelle orecchie. Batté le palpebre. – Ti
porto in un posto sicuro. Dove
nessuno ti troverà.
-
Dimmi almeno se i miei fratelli stanno bene! –
esclamò Merida, con la voce
tremante e piena di collera.
L’Oscuro
non rispose. Con un gesto della sua mano, svanirono entrambe.
Leroy
disse agli altri nani di aspettarlo fuori dalla centrale di polizia. Li
avrebbe
raggiunti, però doveva accertarsi di una cosa. Quindi si
recò in fretta e furia
al convento della Madre Superiora.
Quando
vi giunse, vide alcune sorelle impegnate
in varie attività. Una di loro stava pulendo uno dei vetri
della struttura, in
piedi in cima ad una scala che un’altra suora stava reggendo
con entrambe le
mani. Non c’era traccia di panico o di confusione. Sembrava
tutto in ordine. Ma
lui doveva accertarsene. Doveva accertarsi che lei
stesse bene.
“Oh,
no, affatto. Colpire te adesso
sarebbe un gioco da ragazzi. Ma esistono cose ben peggiori della
propria
morte”.
-
Posso aiutarti in qualche modo, Leroy?
Il
nano si girò. Non capiva da dove diavolo fosse sbucata, ma
Turchina era proprio
accanto a lui e lo osservava con la fronte aggrottata.
-
Sorella... – cominciò Brontolo, ricambiando
l’occhiata. – Volevo assicurarmi
che... fosse tutto a posto. Abbiamo ricevuto delle minacce da parte di
quella
ragazzina.
-
Ragazzina? – Turchina apparve confusa.
-
Emma. La ex Salvatrice. La nuova Oscura. Come preferite voi, sorella.
-
Che genere di minacce?
-
Astrid è qui?
Turchina
iniziava a comprendere. Stava osservandolo attentamente, ora, e neppure
per un
attimo staccò gli occhi da lui. Gli sorrise. –
Questo luogo è protetto contro
la magia oscura, Leroy. Ho creato la barriera magica quando siete
tornati. Neve
mi ha informato di... quello che è accaduto ad Emma. E se
è per Nova che sei
così preoccupato... voglio rassicurarti. Nova non
è Storybrooke.
Leroy
scosse il capo. Quel sorriso non gli piaceva e glielo si doveva leggere
in
faccia, perché Turchina aggrottò la fronte. - Non
è a Storybrooke? E dove
sarebbe?
-
Nella Foresta Incantata. Da parecchie settimane.
Il
nano ebbe modo di riflettere sul fatto che effettivamente era da
parecchio che
non vedeva Astrid. Nova. Lui si era sempre limitato a... guardarla da
lontano.
Un po’ perché c’era sempre quella
seccatrice di Turchina nei paraggi, un po’
perché, quando non c’era Turchina,
c’erano comunque altre sorelle. Aveva
scambiato con lei qualche frase di circostanza, quando gli era capitato
di
incrociarla da sola. Era sempre felice di vedere il suo sorriso dolce,
di
ascoltare il suono della sua voce. Non riusciva ancora a credere che
quell’essere l’avesse minacciata.
Nella
Foresta Incantata?
-
Si trova alla Corte Seelie, dalla nostra regina. Tutte le fate ci
vanno, prima
o poi. E ci rimangono per un po’. – gli
spiegò Turchina. Gli parlava come se
lui fosse un idiota che non capiva quello che gli stava dicendo. O
forse era
semplicemente il suo modo di rivolgersi a chi non era suo amico o non
apparteneva alla sua comunità.
-
Le fate hanno una regina? – chiese, scioccamente.
-
Naturalmente. La regina Titania.
-
Ma... non c’è modo di aprire un portale!
-
Ruby e Scricciolo sono riusciti a produrre un fagiolo magico. Un unico
fagiolo,
che li ha riportati nella Foresta Incantata. Astrid è andata
con loro.
“Si
trova alla Corte Seelie, dalla
nostra regina”. Non
osava nemmeno chiedersi che razza di
persona... fata fosse quella
regina.
Però si chiese se Astrid avesse raggiunto la Corte sana e
salva. Si chiedeva
quando sarebbe tornata. Se sarebbe
tornata.
Non
seppe che altro aggiungere.
***
Camelot.
Cinque settimane prima
della maledizione.
Le
guardie di Artù sostavano sui camminamenti, gli elmi che
baluginavano colpiti
dai raggi del sole. Alcuni passeggiavano avanti e indietro,
appoggiandosi alle
lunghe lance.
Nessuno
badava a lei. In realtà, quando le passavano accanto, si
limitavano ad un gesto
del capo in segno di saluto, ma cercavano di non starle troppo vicino.
Quasi si
aspettassero che si trasformasse in drago e si mettesse a sputare
fuoco. Aveva
notato l’uomo fuori dalla sua porta quando era uscita dalla
sua stanza negli
ultimi due giorni.
Lily
si avvicinò all’albero.
“Ho
imprigionato l’Autore nel
libro. Ora non può più manipolare le storie.
Può solo registrare dei fatti”.
Un
Autore imprigionato in un libro. Un mago potentissimo imprigionato in
un
albero.
Erano
tutti intrappolati, in un modo o nell’altro.
“Purtroppo
non si può tornare
indietro. Nemmeno il mio maestro è in grado di sistemare
questa faccenda”.
Lily
appoggiò una mano sul tronco nodoso. Si chiese se Merlino
fosse a conoscenza
della brutta fine del suo Apprendista. Era al corrente di
ciò che succedeva
anche se era imprigionato là dentro? La sua mente era in
grado di raggiungere
altre terre, altri mondi... anche se il suo corpo era impossibilitato a
muoversi?
Lilith.
Lei
allontanò la mano dall’albero con uno scatto
nervoso.
Era
stato... un sussurro. Un sussurro in un orecchio. Debole, ma chiaro.
Qualcuno
aveva pronunciato il suo nome. Aveva detto anche
qualcos’altro, solo che non
era riuscita ad afferrarne le parole.
Merlino?
Silenzio.
Il vento soffiò, spostandole qualche ciocca di capelli.
Allungò
di nuovo una mano verso il tronco. Vi posò solo la punta
della dita. L’albero
sembrò pulsare come un cuore.
-
Lily?
Spiccò
un balzo, colta alla sprovvista. Si voltò, ritrovandosi
davanti ad Emma.
-
Sei stata tu? – domandò Lily.
-
A fare cosa?
-
A chiamarmi. Un attimo fa. Sei stata tu?
Negli
occhi di Emma c’era una luce strana. Sfuggente, persino. Ma
il suo sguardo
esprimeva anche perplessità. – No. Sono appena
arrivata.
Lily
osservò di nuovo l’albero. Ci girò
intorno, anche se non sapeva bene che senso
avesse farlo.
-
Che cosa succede, Lily? Hai sentito qualcosa?
-
Non lo so. Per un attimo... ho avuto l’impressione che
qualcuno mi stesse
parlando. – Scosse il capo. – Non ho capito nulla,
se non il mio nome.
-
Merlino... – disse Emma. Ora sembrava stesse parlando a se
stessa.
Appoggiato
al tronco c’era Tremotino. Sostava là, con le
braccia conserte.
-
Credevo non potesse... comunicare con noi. – stava dicendo
Lily.
-
Io credo che possa. Forse non riesce a raggiungerci come vorrebbe, ma
solo per
poco. Era quello che stavamo cercando nella sua torre.
-
Un modo per comunicare con lui?
-
Sì. Abbiamo trovato qualcosa... un fungo.
Lily
batté le palpebre. – Vuoi comunicare con un mago
potente attraverso un fungo?
-
Non è un fungo qualsiasi. La Corona Scarlatta. Serve per...
abbattere delle
barriere magiche. Artù ha detto che si trova nella Foresta
della Notte Eterna.
Mio padre sta andando là con il re.
-
È sicuro?
-
La Foresta? Suppongo di no, Lily. Ma mio padre è deciso ad
andarci e Artù non
vuole che parta da solo.
-
Non parlo della Foresta, ma del re.
Lei
non rispose subito. Parve rifletterci. – Ci ha permesso di
entrare nella torre
per cercare un modo per liberare Merlino. Nonostante sia al corrente di
quello
che Regina gli ha nascosto... si è fidato comunque di lei.
Credo che sappia
quello che fa.
Restarono
in silenzio per un minuto almeno.
Emma
si avvicinò di più all’albero.
– Cosa stavi facendo prima che Merlino ti
parlasse?
-
Niente, stavo...
“Purtroppo
non si può tornare
indietro. Nemmeno il mio maestro è in grado di sistemare
questa faccenda”.
-
Beh, pensavo al suo Apprendista. L’ho incontrato molto tempo
fa. Su un autobus.
Emma
aggrottò la fronte.
-
Sai, quando eravamo ragazzine. La sera in cui mi hai riportato la mia
collana.
Emma
stava per rispondere, ma venne interrotta da un improvviso trambusto.
Qualcuno
lanciò un grido soffocato e pronunciò una serie
di parole incomprensibili.
Sembrava che stesse cercando di parlare ma avesse uno straccio in bocca.
-
Muoviti – ordinò uno dei cavalieri di
Artù. Reggeva un uomo per un braccio,
aiutato da un altro cavaliere.
L’uomo
in questione aveva un cappuccio in testa, le mani legate da corde
robuste e gli
abiti polverosi. La camicia, che una volta doveva essere stata bianca,
era
lacera. I pantaloni marroni erano abbastanza sudici. Le nocche delle
mani erano
scorticate. La cosa che sembrava un po’ strana era il corvo
che svolazzava
sopra le loro teste. Dava l’impressione di seguire il
gruppetto.
Artù
accorse in cortile. Azzurro lo seguiva. Erano entrambi pronti per
partire alla
ricerca della Corona Scarlatta. Indossavano l’armatura e
avevano agganciato le
spade ai cinturoni.
-
È lui? – domandò il re.
Lily
ed Emma si avvicinarono per vedere meglio.
-
Sì, sire. Non è stato difficile trovarlo.
– rispose uno dei cavalieri. – Il
corvo ci ha portati da lui.
L’uomo
bofonchiò qualcosa sotto il cappuccio. Artù si
avvicinò e glielo strappò dalla
testa.
A
giudicare dal suo sguardo incuriosito e perplesso, non era esattamente
ciò che
si era aspettato.
L’uomo
era vecchio, con una zazzera di capelli grigi e selvaggi, la barba
folta,
sopracciglia cespugliose e un naso lungo e sottile. Rosso, anche. Come
quello
di chi beve parecchio. Sbatté le palpebre per riadattarsi
alla luce del sole e
mise a fuoco Artù. Appariva frastornato. Il corvo
piombò sul vecchio e cercò di
appollaiarsi sulla sua spalla.
-
Non adesso, Heathcliff – disse. Tossì. Aveva anche
un labbro spaccato e un
livido violaceo sul mento. – Non vedi che sono occupato?
Evidentemente
Heathcliff era il corvo, perché l’uccello
arruffò le penne e mandò un gracchio
spazientito. Aveva un occhio solo.
-
Quindi questo sarebbe il mago... che ha incantato la spada di Percival
– disse
Azzurro, squadrando l’uomo dalla testa ai piedi.
-
Ci hanno parlato di lui nei villaggi vicini. – rispose uno
dei cavalieri. – E
abbiamo trovato le monete di Camelot in casa sua, nonché una
spilla appartenuta
a Percival. Inoltre... non ha impiegato molto tempo ad ammetterlo.
-
Ad essere onesti, ho offerto a questi uomini una sedia e una tazza di
tè, ma
noto con disappunto che non conoscono le buone maniere. –
replicò il mago. Biascicava,
più che altro. – Non c’era bisogno di
usare tutta quella polvere di papavero. Lasciate
che mi presenti, sire. Il mio nome è Knubbin.
-
Sapete chi sono io?
-
Siete re Artù di Camelot, lo so bene, diamine. –
lo interruppe Knubbin,
raddrizzando un po’ le spalle. – Anche il mio corvo
sa chi siete. Sapevo anche il
nome del vostro cavaliere ancora prima che arrivasse e me lo dicesse.
L’ho
visto. Nel pozzo dietro casa. Ogni tanto vedo cose
nell’acqua. Beh, in realtà
non mi piace vedere cose nell’acqua. Preferisco starmene
seduto fuori a
guardare le carote che crescono. Non che le veda crescere davvero, ma...
-
Non sembra affatto un mago. Sembra solo un ubriacone –
commentò Lily.
-
Ubriacone! – gridò Knubbin. – Questa
sì che è bella, un ubriacone! Io sono un
mago. Non avete sentito questi signori? Sono Knubbin e sono un mago.
“Non
sembra affatto un mago”. Che razza di modi sono mai questi?
Vi faccio notare
una cosa, tesoro. Siete un po’ ignorante in materia.
-
Basta così. Buttatelo in prigione. –
decretò Artù, stufo di sentirlo ciarlare.
– Abbiamo altro a cui pensare, al momento. Ma mi
occuperò anche di lui.
I
cavalieri gli rimisero il cappuccio in testa, soffocando le sue
proteste, e lo
trascinarono via. Il corvo andò con loro.
***
Storybrooke.
Oggi.
Alla
centrale di polizia, il vecchio mago che aveva detto di chiamarsi
Knubbin era
cascato in un sonno profondo. L’uomo dormiva sdraiato sulla
branda, nella cella
che gli era stata riservata, con la bocca aperta e russando come una
motosega. I
capelli grigi formavano una corona intorno alla sua testa.
-
Ecco qualcuno che non ha certo bisogno di un incantesimo del sonno
– commentò
Regina, posando i libri che aveva trovato sulla scrivania. –
Che ci fa qui? Chi
è?
-
A quanto pare è un mago – disse David. –
Belle l’ha ritrovato davanti alla
porta del negozio di Gold stamattina.
C’era
anche un pennuto, nella cella. Il corvo era sveglio e osservava i
presenti con
l’unico occhio buono.
-
Tuttavia, avrebbe bisogno di un incantesimo che gli cucia la bocca
– disse
Regina, infastidita da quel russare.
-
Hai trovato qualcosa? – chiese Azzurro.
Regina
annuì. Le ricerche avevano prodotto qualche risultato.
Aprì uno libro e mostrò
un pezzo di carta sul quale qualcuno aveva tracciato un punto di
domanda.
-
Questa... è la mia calligrafia – spiegò
Regina. – Devo aver segnato questa
pagina a Camelot. Non so se è la risposta giusta, ma... i
libri vengono da là. Li
stavamo usando per trovare una soluzione.
Azzurro
stava per aggiungere qualcosa, ma i nani fecero irruzione, guidati da
Brontolo.
-
Siamo stati violati! – gridò il nano.
-
Qual è il problema? – chiese Azzurro.
-
Quale pensi che sia? La tua bambina. – Brontolo mise molta
enfasi nella parola bambina. Era
molto più arrabbiato del
solito. Sul piede di guerra.
-
Ha preso il mio piccone! – si lamentò Gongolo.
-
E mi ha minacciato! – aggiunse Leroy.
-
Minacciato? – chiese Azzurro. – Che genere di
minacce?
-
Beh... – Lui rivolse un’occhiata agli altri nani,
che guardarono lui, in
attesa. – Ha minacciato Astrid. Sono stato al convento della
Madre Superiora
per accertarmi che fosse tutto a posto. E lo è, per fortuna!
Ma non possiamo
restare qui a far niente!
Regina
aveva capito che era il momento di levare le tende. – I nani
sono affare
vostro. Io penso a questi.
Emma
ha preso un piccone? Il
piccone di un nano?, si
chiese, uscendo dalla centrale.
-
Cosa pretendi che facciamo, Leroy? – domandò Neve.
Sedeva con le braccia
incrociate e il suo tono era pesante. E stanco.
-
Aiutateci! – rispose Brontolo. – Sappiamo che
è vostra figlia, ma dovete fare
qualcosa, altrimenti lo faremo noi.
-
Non le farai del male. – disse Neve, scandendo bene ogni
parola, quasi lo
considerasse un ritardato. La sua mente si rendeva conto, a margine,
che non
avrebbe dovuto preoccuparsi di lui o degli altri nani. Emma era
l’Oscuro. Un
gruppo di nani non era niente per l’Oscuro. Nemmeno se
fossero stati in cento e
tutti armati di piccone. Era più preoccupata che fosse Emma
a fare molto male a
loro.
Il
corvo mandò un gracchio.
-
Non preoccuparti. – disse, infatti, Azzurro. – Non
possono.
-
È solo questo che ti preoccupa? – chiese Brontolo,
incredulo. – Smettila di
fare il genitore spaventato! Fai lo sceriffo. Ne abbiamo bisogno!
-
Vi restituirò il piccone. Grazie per avermi informato.
– La sua risposta non
ammetteva repliche di sorta.
Knubbin
smise di colpo di russare, ma non si svegliò. Si
rigirò sulla branda,
affondando la faccia nel cuscino.
-
Sembra che questa sia un’altra questione irrisolta, che
lasceremo correre...
per ora. – Brontolo lo fissava intensamente. Non aggiunge
altro, ma si tolse
dai piedi e gli altri nani lo seguirono, borbottando scontenti.
David
si strappò letteralmente la giacca di dosso e
l’appese all’attaccapanni, prima
di andare a rintanarsi nello studio dello sceriffo. Sbatté
le porta dietro di
sé. Neve lo raggiunse.
-
Perché le serve un piccone? È allarmante.
Lily
entrò nella centrale. Aveva passato l’intera
mattinata a girare in tondo,
praticamente senza scopo. Continuava a ripensare al suo incontro con
Emma e non
sapeva quali conclusioni avrebbe dovuto trarne. Aveva recuperato una
mappa di
Storybrooke e individuato la zona in cui avrebbe dovuto trovarsi la
casa
dell’Oscura, ma non aveva ancora deciso se ritornarci o meno.
In realtà si
sentiva un’impostora. Non aveva raccontato tutta la
verità a Regina... e
soprattutto non l’aveva raccontata a sua madre.
-
Non lo so – stava dicendo Azzurro. – Cosa
può fare con un piccone che non è in
grado di fare con i suoi poteri? E per quale motivo si è
messa a minacciare una
fata?
Evidentemente
alterato, il principino colpì la sedia girevole con un
calcio.
-
David!
-
Vorrei solo che parlasse con noi!
-
Lo so, anch’io!
David
scosse il capo. – Non... non possiamo salvarla!
-
Non ancora! – ribatté sua moglie. – Ci
stiamo provando.
-
Come? Cosa sto facendo?
Niente,
pensò
Lily, osservandolo. Niente che possa
effettivamente aiutarla.
-
Sei la nostra guida – tornò a dire Neve.
-
Nessuno sembra volermi seguire!
E
chi si sognerebbe mai di farlo? I
nani, forse, si
disse Lily. Li aveva visti uscire
dalla centrale, non esattamente felici. Doveva essere successo qualcosa
di
serio. Un piccone. Perché Emma aveva bisogno di un piccone?
I suoi poteri non
erano sufficienti? Il pugnale dell’Oscuro non era sufficiente?
Un
piccone?!
-
Non preoccuparti dei nani!
-
Non lo sono! Sono preoccupato per Emma e perché questa
situazione è tutta colpa
mia!
-
Lei ha deciso di sacrificarsi...
-
Avrei dovuto fermarla! Sono suo padre e adesso... – Si
fermò, come se non fosse
più in grado di continuare. – Sono paralizzato.
Non sono capace di fare niente.
Né per lei, né per te... per nessuno.
-
Stai facendo molto. Stai aiutando le persone meglio che puoi.
-
È proprio questo il problema.
Lily
spostò gli occhi sull’uomo nella cella. Non si era
mosso di un millimetro. Il
baccano non sembrava scalfire il suo sonno.
“Quei
due... mi hanno rovinata”.
“Sono
stati manipolati. Come me,
del resto”.
“Mi
hanno maledetta”.
“Già,
è vero”.
Lily
ripensò a quell’incontro sull’autobus.
Ripensò a quando aveva scoperto tutta la
verità.
“Quei
due... mi hanno rovinata”.
-
Vai. Ci penso io – stava dicendo Azzurro. Diede un bacio a
sua moglie.
Lily
si affrettò ad uscire e si diresse sul retro, prima che uno
dei due si
accorgesse di lei.
“Non
possiamo salvarla”.
“Non
ancora. Ci stiamo provando”.
“Come?
Cosa sto facendo?”
Fuori,
la luce del sole le parve fin troppo accecante.
La
verità era che Azzurro si sentiva impotente, non sapeva che
cosa fare per
aiutare sua figlia, non aveva idea di come salvarla, di come riavere la
ragazza
che era stata la Salvatrice, ma Biancaneve invece... Biancaneve no. Lei
era sembrata
molto padrona di sé. Era preoccupata, certo, ma non era
preda dell’agitazione e
dell’impotenza come suo marito. Sembrava vedere tutto con
molta chiarezza, pur
essendo senza ricordi.
Nella
vita di Lily non c’erano mai state molte certezze. Le uniche
certezze erano
legate al fatto che lei era stata maledetta e che i suoi nemici erano i
genitori di Emma.
Era
Biancaneve. Oh, anche suo marito, certo, il suo principe azzurro super
perfetto. Ma Biancaneve era ben peggio. Nella sua
storia, Biancaneve era la cattiva. L’Apprendista le
aveva
raccontato tutta la vicenda senza tralasciare nessun dettaglio e Lily
ne era
convinta. Poco importava che l’Autore fosse intervenuto.
Biancaneve l’avrebbe
fatto comunque, trascinandosi dietro quella testa vuota di Azzurro. Lei
era la
mente. Era la guida. Suo marito, senza di lei, si sarebbe messo a
girare su se
stesso come un povero imbecille. Non avrebbe maledetto una bambina
appena nata.
Non l’avrebbe rubata a sua madre.
Nella
sua storia Biancaneve era
esattamente
ciò che era stata in quella realtà alternativa
creata dall’Autore. La Regina
Cattiva. E Azzurro nient’altro che il suo cagnolino.
Forse
era cominciato tutto con quella maledizione. Biancaneve voleva una
figlia che
fosse pura, che fosse eroica e perfetta. Così aveva fatto in
modo che
l’oscurità le venisse strappata e aveva accettato
di trasferirla in un’altra
bambina. Adesso l’oscurità era tornata indietro a
riprendersi Emma. Era tornata
a riprendersela perché la magia aveva sempre un prezzo,
tutto quanto in quel
mondo aveva un prezzo. Tutto. Tutto tornava come un boomerang. Tutta la
vita
era un cerchio e si finiva col ricongiungersi al punto di partenza.
“Perché
tu non hai fallito. Tu hai
cercato di aiutarmi. Tu hai fatto la cosa giusta”.
“Non
hai niente da temere da me”.
Lily
sferrò un calcio ad un bidone della spazzatura,
ribaltandolo. Ora aveva
l’impressione che la sua oscurità stesse
dilagando, allargandole lentamente
un’ala nera sugli occhi.
Quando
udì il ruggito, Biancaneve, appena uscita dalla centrale con
mille domande che
le frullavano in testa e la sensazione che una parte della disperazione
di
David si fosse insediata anche in lei, sollevò il capo e si
schermò gli occhi
con una mano.
Vide
il drago nero sorvolare Storybrooke e dirigersi verso i boschi fuori
città. Non
avrebbe saputo dire se si trattasse di Malefica o di Lily,
poiché erano
pressoché identiche, ma quando la gigantesca ombra la
oscurò, venne colpita da
un presentimento di tale orrore e di tenebre che si fermò,
raggelata. Serrò più
forte i manici del passeggino. Sulle braccia e sul dorso la pelle si
era accapponata
in maniera vistosa e insolita. Dietro gli occhi, avvertiva
materialmente il
fiotto dell’adrenalina.
Guardò
di nuovo il cielo di Storybrooke. L’ombra era scomparsa e
così anche il drago.
_________________
Angolo
autrice:
Buongiorno
a tutti.
Vorrei
fare qualche precisazione come al solito:
Knubbin
non è un personaggio della serie tv, ma non è
nemmeno una mia invenzione. È un
mago che appare nel libro di Wendy Toliver, Red’s
Untold Tale, che parla dell’infanzia e
dell’adolescenza di Red/Ruby. Se non
l’avete letto, vi consiglio di farlo.
Per
chi non conoscesse il film della Disney Pixar, Brave:
Mor’du è un enorme orso che strappa la gamba al
padre di
Merida. Originariamente era un principe della Scozia, il primo dei
quattro
figli di un re.
Titania,
che qui ho citato come regina delle fate, è un personaggio
che ho introdotto
anche in un’altra mia storia, Clarity.