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Autore: LittleGinGin    04/02/2016    5 recensioni
Sono passati più di mille anni da quando Arthur è morto. Merlin vive presso il lago di Avalon nell'attesa del suo ritorno, prega per vederlo sorgere nuovamente da quelle acque e poterlo riabbracciare ancora. Ma lui è morto quel giorno insieme al suo Re, all'altro suo lato della medaglia.
Percepì una forte fitta al petto, proprio lì, dove un tempo vi era il suo cuore, e una mano affondargli nella carne fino a farla sanguinare. Poteva sentirla lacerargli le membra dall’interno mentre il vuoto lo consumava divorando la carne che ancora cercava di opporsi a quella lenta morte.
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One-shot di 1362 parole SPOILER FINALE
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Merlino
Note: Traduzione | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
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Salveee!!
Oh mio Dio, non ci credo di star pubblicando un'altra storia ... ero veramente bloccata e per questo premetto fin da adesso che non so che pastrocchio sarà venuto fuori qui. Spero solo non così disastroso ...

Credo sia doveroso che informi che
chi non ha voglia di spoilerarsi il finale della serie televisiva, è meglio che non vada oltre a leggere.
Lettore avvisato, mezzo salvato - Sto forse impazzendo? Togliamo il forse ... -


Comuqnue sia ecco che pubblico un altra storiella su questa fantastica serie Tv - sì, mi dispiace ma è sempre Angst e post-nononpuòesseresuccessoveramente-finale. Beh sinceramente non so che altro dire, ho solo usato praticamente tutta la mia giornata a impormi di finire la storia pur di non studiare e quindi nulla, eccola qui. avrei voluto riguardarla ancora ma la voglia di metterla qui su EFP è stata più forte eheh.
Mi scuso per eventuali errori e ringrazio utte le buon'anime che hanno avuto la pazienza e il coraggio di leggere questa fan fiction. veramente tante tante grazie.

PS.Se vi interessa, ecco l'altra mia storia " Cio che rimane di me " http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3282843&i=1







 
Nient’altro che polvere











 
Strinse le labbra attorno al filtro aspirandone una piena boccata, la gola pervasa da un piacevole bruciore.
Alzò il volto verso il cielo terso di nuvole, gli occhi socchiusi che celavano al mondo il loro dolore. Schiuse le labbra imperlate di sangue lasciando fuoriuscire il fumo che si perse nell’aere bruno in riccioli opachi. Il muto silenzio di quella notte lo avvolgeva in una fredda coperta penetrandogli fin dentro le ossa mentre il gusto di ferro mischiato a quello pungente della canna gli impregnava la bocca.
Era stato un idiota, un vero stupido. Non doveva provocare quell’uomo: primo perché era tre volte più grande di lui, secondo perché puzzava tremendamente di alcol e questo non era mai un buon segno. Eppure aveva continuato, nonostante l’istinto gli intimasse di smettere, e non aveva smesso neanche quando l’energumeno l’aveva colpito in pieno volto facendogli sputare sangue, nemmeno quando l’aveva atterrato al suolo colpendolo in volto più e più volte, il sangue che colava copioso sull’asfalto, e un intenso bruciore si diramava dalla bocca dello stomaco fino a riversarsi in tutto il corpo.
Ma ormai anche quella era diventata un’abitudine: litigare con un ubriaco fino a vomitare, tornare a casa livido in volto e sul corpo, un labbro spaccato, qualche costa incrinata, abbandonarsi sul divano senza forze e sperare che il sonno lo cogliesse il più velocemente possibile, per non pensare, per non ricordare.
E così anche quel giorno, quel maledettissimo giorno, aveva trovato uno dei tanti fattoni per le stradine poco illuminate dei sobborghi di Londra. Era bastato poco per ritrovarsi la sua grande carcassa intrisa dall’odore nauseabondo di alcol addosso, le sue rozze e callose mani a stringerlo per i polsi.
Strinse la sigaretta tra le dita.
Erano ancora violacei.
Forse avrebbe fatto meglio a farsi una doccia, puzzava tremendamente ed era sporco di sangue rappreso. Magari l’acqua della doccia, almeno questa volta, sarebbe riuscita a lavar via anche quel dolore impresso dentro di sé da troppo tempo.
Ma non si alzò e chiuse nuovamente gli occhi, le labbra strette in una linea sottile mentre le lacrime iniziarono a formarsi dietro le palpebre, amare, brucianti. Mormorò un imprecazione nel nulla, le tenebre e il silenzio che gli avvolgevano le membra stanche e stremate.
Non ce la faceva più.
Represse un sospiro frustato con un altro tiro di canna.
Come poteva continuare così? Era un cadavere che si illudeva di poter vivere ancora.
Abbandonò la schiena contro la colonna del portico, le braccia lasciate ricadere sulle gambe. Si morse il labbro inferiore provando a reprimere un singhiozzo.
Se Lui l’avesse potuto vedere in quel momento, gli avrebbe sicuramente dato dell’idiota.
Sbuffò abbassando il capo.
Poteva sentire la sua voce urlargli dell’incapace seguita da uno scappellotto e dalla sua espressione imbronciata, quella che metteva su quando qualcosa non andava quando desiderava – o quando lui faceva qualcosa di tremendamente stupido –.
Ma Lui non poteva più sentirlo.
Lui non poteva più gridargli contro.
Lui non poteva più fare nulla, perché semplicemente Lui non c’era più e non sarebbe mai tornato.
Sentì la bocca piegarsi in una smorfia di dolore mentre cercava di pronunciare quel nome che l’aveva tormentato per tutti quegli anni senza mai trovare sfogo, quella maledizione dagli occhi azzurri come il cielo estivo e i capelli color del sole, quella maledizione - la sua - alla quale non avrebbe mai saputo rinunciare.
Percepì una forte fitta al petto, proprio lì, dove un tempo vi era il suo cuore, e una mano affondargli nella carne fino a farla sanguinare. Poteva sentirla lacerargli le membra dall’interno mentre il vuoto lo consumava divorando la carne che ancora cercava di opporsi a quella lenta morte.
Alzò lo sguardo devastato sulle placidi acque che, tinte del nero della notte, rimanevano immobili difronte al suo tormento.
Quanto, nella sua lunga e interminabile vita, le aveva osservate, pieno di speranza e aspettativa, pieno di odio e rancore, il petto scosso dai sussulti, il cuore che si sgretolava ogni qualvolta la speranza del suo ritorno veniva infranta. Nemmeno tra le braccia di Morfeo era riuscito a trovarvi pace: Lo vedeva rinascere dal lago mentre lui lo aspettava sulle rive fremendo, la magia un ribollire impetuoso nel sangue. La sua figura che, come i raggi tiepidi del primo sole, gli riscaldava l’animo e il corpo di nuova vita, mentre lo sguardo cerulo si sfumava nelle lacrime che, copiose, rigavano le sue guance e la bocca tremava desiderosa di pronunciare il suo nome, per troppo tempo taciuto. E quando finalmente si trovavano l’uno di fronte all’altro, il cielo diveniva puniceo e le acque del lago sbattevano con furiosa ira sulle sponde, reclamando quel corpo privo di vita che giaceva ora inerme ai suoi piedi, freddo, immobile. Ogni volta lo stringeva a sé, urlando il suo nome in una vana preghiera disperata fino a svegliarsi tra le grida e nient’altro che la solitudine ad accoglierlo.
Fanculo il destino! Doppiogiochista infame
Spense con ferocia la canna, i denti affondarono nel labbro inferiore riaprendo il taglio che buttò nuovamente sangue. Represse un lamento nelle profondità della gola, alzandosi di scatto, furente, la testa stretta tra morse dei ricordi lontani.
Cazzo! Cazzo! Cazzo!
E corse giù per l’immenso prato, sfrecciando tra i rami della boschiva che lo graffiavano, cascando malamente sulla terra umida e bagnata, sempre più veloce, sempre più deciso, le gambe che bruciavano doloranti, l’aria che gli tagliava i polmoni e tutto che scorreva confuso d’avanti ai suoi occhi. Inciampò su di un masso nascosto dalle ombre della notte, cadendo rovinosamente a faccia in giù. Rimase così per qualche secondo, gli occhi chiusi, la mandibola serrata, e un grido che chiedeva solamente di poter essere liberato.
Merlin non lo trattenne.
Buttò fuori tutta l’aria che aveva in corpo lasciando infrangere il suono amaro della sua voce su ciò che lo circondava mentre la disperazione lo divorava dall’interno e tutto si riduceva a nient’altro che inconsistente polvere. Strinse i pugni nella terra cercando di riprendere il controllo – perché, l’aveva mai avuto? –.
Già, lui non era nient’altro che polvere inconsistente, debole sotto le intemperie della tempesta, cenere che si illudeva di poter tornare fuoco.
Strinse le gambe al petto cercandovi conforto, la testa abbandonata sulle ginocchia, leggera, priva di peso. Era stanco di lottare, stanco di camminare per le terre nella vana speranza che tutto si sarebbe aggiustato, che le due facce della stessa medaglia un giorno si sarebbero riunite. Perché il drago gliel’aveva detto, gliel’aveva promesso, che “ Per quando Albion ne avrà più bisogno, Arthur risorgerà ancora “ e lui ci aveva creduto veramente. Ci credeva tutt’ora nonostante fossero passati più di mille anni e il suo corpo gli implorava di cedere all’evidenza, di smettere – per l’amor del cielo basta, ti prego! – di credere a quelle insulse parole che non erano altro che un modo per provare a consolarlo.
Perché mi hai lasciato solo? Perché mi hai abbandonato?
E rimase così, le lacrime a macchiargli gli abiti, il corpo debole, sulle labbra una preghiera, una supplica che aveva solo un nome:
“ Arthur … ”
 
La tiepida carezza dell’aurora appena sorta gli baciò le guance dove una piccola perla cadeva dalle ciglia abbassate. I raggi dolci del sole sapevano di casa e famiglia, di cuoio e terra bagnata, e lo fece sorridere tremolante nel sonno che l’aveva colto all’improvviso in quella tempesta che l’aveva travolto. Sapevano di promessa e di occhi azzurri come il cielo.
Probabilmente al risveglio Merlin non avrebbe ricordato nulla, sarebbe rimasto a sedere sull’erba verde ad ammirare il lago con una nuova forza in corpo, una fiammella debole eppure tenace, troppo orgogliosa e testarda ber abbandonarsi alla disperazione, una fiammella che bruciava ardente e avrebbe illuminato la strada di casa ogni volta che si fosse perso. E allora si sarebbe alzato, sorridendo dolcemente verso di lui, la speranza di nuovo a brillare tra la nebbia della paura e a scaldargli il cuore morto.
Avrebbe sorriso sì, ma non oggi, non nell’anniversario della morte di Arthur. Per quella notte sarebbe rimasto solo con i pezzi del proprio cuore infranto fra le mani, a piangere fino a non avere più la forza di alzarsi.
Per quella notte sarebbe stato egoista.
   
 
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