“Gwen. Dobbiamo andare.”
Non mi mossi, continuando a dargli la schiena. Stavo
ferma, di fronte alla finestra. Lo sentii sospirare.
“Gwen.”
Se anche avessi voluto voltarmi a
guardarlo, non avrei potuto. Ero praticamente ipnotizzata. Era come se avessi
perso il controllo sul mio corpo. Fissavo immobile il desolante panorama,
perfettamente conscia del destino incontro a cui sarei andata se non avessi
ascoltato le esortazioni di Dave. Eppure non mi muovevo. Non potevo muovermi. Ogni fibra del mio
essere si tendeva inspiegabilmente verso ciò da cui sarei dovuta
fuggire, mentre il poco di razionalità che mi era rimasta mi incitava a
voltarmi e seguire il ragazzo fermo sulla soglia. Il contrasto di impulsi mi
inchiodava sul posto.
“Gwen”, chiamò
ancora Dave, secco. Dave era sempre secco. Mi ero sempre detta che dietro la
barriera di distacco doveva esserci una profonda sensibilità –
lo
dicevano tutti – ma sinceramente era da un po’ che avevo cominciato
a dubitarne seriamente. Anzi, forse non ci avevo mai creduto.
“Gwen, stammi a
sentire.”, sibilò a denti stretti. “Non ho intenzione di
morire per i tuoi capricci.”
“Nessuno pretende che tu
compia un simile sacrificio.”
Tacque per qualche istante.
Osservavo rapita le colonne di fumo scuro che si erigevano in lente e impassibili
volute all’orizzonte. Appoggiai una mano sul vetro della finestra. Era
più facile, in quel modo, rendermi conto di quanto fosse vero ciò
che avevo davanti agli occhi. Ero assolutamente consapevole del fatto che
ciò che vedevo stava accadendo realmente, ma l’idea era
difficilmente concepibile, tendeva a sfuggire dalla mente, a cambiare forma.
Invece avere la mia mano lì davanti, familiare e assolutamente concreta,
forniva al mio instabile subconscio la prova che altrettanto concreto era il
paesaggio lì fuori.
“Basta, Gwen. Dobbiamo
andare.”
“E allora vai.”
“Ho detto dobbiamo, Gwen. Tu verrai con me.
Non risposi.
“Non c’è
tempo”, disse ancora, ma ormai aveva perso convinzione.
“L’ultima navetta è in partenza.”
“Già. Dovresti
fare
in fretta.”
“Piantala.”
“Vattene.”><= /o:p>
“Piantala, Gwen.”
Continuai a fissare
l’orizzonte. Seminascosti dal fumo, potevo scorgere i vulcani di recente
formazione, che eruttavano ininterrottamente con devastanti esplosioni. La
lava
incandescente aveva percorso molto spazio molto in fretta, la distruzione che
aveva seminato era lì, davanti ai miei occhi, neanche poi così
lontana. Una scossa sismica, l’ennesima scossa, fece vibrare le pareti
dell’edificio. L’epicentro doveva essere lontano, perché
mentre dove ci trovavamo non aveva provocato danni – non più delle
precedenti, perlomeno – vidi in lontananza due alti palazzi dalle vetrate
a specchio crollare improvvisamente, e diverse crepe aprirsi nel terreno. Una
navetta sfrecciò rapida non molto distante dal tetto del palazzo e prese
immediatamente quota. Era certamente diretta a New York, per unirsi alle altre.
New York costituiva uno dei porti più importanti del pianeta, ora er=
a in
gran parte lì che ci si radunava per l’evacuazione. Ma io non
avevo intenzione di raggiungerla. Io non avevo intenzione di andarmene e
seguire il resto dell’umanità su Marte. Già, Marte R
Era l’unica possibilità. Una possibilità a cui in quel
momento stavo deliberatamente sputando in faccia. Questo era ciò che la
parte razionale del mio cervello mi gridava ininterrottamente. Ma che senso
avrebbe avuto andarsene? Salvarsi? A che scopo? Sarei sopravvissuta, sarei
arrivata su un pianeta su cui fino ad allora c’erano state solo sedi i
ricerca e sperimentazioni i cui scopi non erano di dominio pubblico. E una volta
lì? Che cosa avrei dovuto fare? Ricominciare? Ricominciare cosa? Ce
l’avevo, io, qualcosa da ricominciare?
Sentii i passi di Dave
avvicinarsi. “Perché?”, chiese semplicemente, accostandosi a
me.
Restammo immobili davanti alla
finestra, i volti imporporati dal caldo bagliore emanato dalla lava
incandescente e dai repentini lampi di luce scaturiti dalle continue
esplosioni.
Tutta quella devastazione era
opera dell’uomo. Come sempre.
Anno 4322. Dopo le pericolose
tensioni, dopo i vani tentativi di accordo, dopo le infinite e inutili
trattative, ciò che tutti temevano da tempo era avvenuto. Il terzo
conflitto mondiale era esploso. Ed era stato assolutamente devastante. Le
previsioni dicevano che
Avevo visto con i miei occhi molte
delle atroci conseguenze della guerra, ma i ricordi erano confusi. Per non
parlare di prima. Il pensiero suscitò in me la rabbia e la frustrazione
che mi travolgevano sempre di pari passo quando evocavo le immagini sbiadite
del conflitto e tentavo inutilmente di fare altrettanto coi fatti che lo
precedevano. Tentai di ignorare il pensiero.
Ricordavo sfocati attimi di
terrore, sofferenza, disperazione, soprattutto delle persone che mi
circondavano, sebbene non riuscissi a rievocare i loro volti. E poi la fine. La
fine della guerra, ma non del dolore.
I soccorsi – e
fortunatamente non i rinforzi, che
avrebbero rappresentato altri scontri – erano arrivati numerosi, dotati
di tutto ciò che occorreva per ripararsi dalle radiazioni e avevano
scandagliato la zona in cerca di superstiti. Io ero una di loro, ed ero stata portata
insieme agli altri in America. Coloro che erano sopravvissuti e stati salvati
furono ricoverati d’urgenza in un numero elevatissimo di ospedali nei
principali centri degli Stati Uniti e del Canada, che avevano collaborato il
più efficientemente possibile.
Ma tre quarti di loro morirono poco dopo il salvataggio. Due terzi dei restanti
nei mesi a seguire. La maggior parte dei pochi rimanenti in due o tre anni.
Questo era ciò che mi era
stato raccontato. Ciò che ricordavo era … ben poco.
Un’esplosione. Urla. Terrore. Case che crollavano. Un campo aperto
devastato, arido, morto. Persone altrettanto devastate e aride, altre morte.
Sfuggenti immagini di scontri, di navette, di altra distruzione. E poi nessuno.
Ero sola. Le navette sfrecciavano rapide nel cielo, lasciandosi le consuete
scie di fumo dietro. Vedevo le luci intense puntate al suolo. Sapevo che ci
stavano cercando. Che mi stavano cercando. Ma erano così lontani...
Tendevo la mano verso di loro, tentando di attirarne l’attenzione, ma non
mi vedevano. Spalancavo la bocca, nel tentativo di urlare. Io volevo urlare, lo
desideravo con tutte le forze. Ma non ci riuscivo. Non potevo. Eppure non avevo intenzione di rinunciarvi.
Volevo essere salvata, non sapevo perché, ma lo volevo, lo desideravo
disperatamente. Non volevo morire, non volevo. E poi il buio.
A risvegliarmi era stata una
luce
abbagliante, bianca, fredda. Nel bagliore frastornante, si era stagliata a
un
tratto la sagoma nera di un uomo. Mi si era avvicinato, mi aveva teso la mano.
Mi parlava sorridendo, ma non lo sentivo. Non sentivo neanche me stessa, in
quel momento, credo. E poi un secondo risveglio all’ospedale. Da
lì ricordavo tutto bene. Ero stata trasferita in una casa famiglia e poi
dopo poco nell’ Yven College. La struttura scolastica era cambiata
moltissimo nel corso del tempo, amava ripetere sempre il famoso professor
Michaelson.
Era lì che ero vissuta fino
ad ora, era lì che mi trovavo in quel momento, mentre avrei dovuto
essere da tutt’altra parte. Eppure l’idea di andarmene mi ripugnava
profondamente. Amavo la stabilità, per quanto potesse essere difficile
per una come me concepire il significato di una parola del genere. In ogni
caso
il pensiero di un trasferimento su un altro pianeta mi risultava orribile.
Lo
avrei fatto per salvarmi. Ne valeva davvero la pena?
Sospirai piano. Avrei dovuto
essere terrorizzata dallo spettacolo agghiacciante che avevo davanti agli
occhi, immagino. Ma non lo ero affatto. Era come se avessi raggiunto uno stato
di perfetta serenità imperturbabile, simbolicamente protetta dalle
pareti tra cui ero vissuta negli ultimi cinque anni, e che riconoscevo come
l’ambiente più simile a quello di una famiglia, sebbene sapessi
perfettamente che un termine del genere non era neanche lontanamente adatto a
descriverla. Eppure era lì che negli ultimi tempi avevo vissuto,
dormito, studiato, insieme alle persone che ci lavoravano, a quelle che ne
frequentavano le lezioni e che al pomeriggio rientravano a casa e ad altri
dieci ragazzi orfani che vi risiedevano stabilmente. Dieci ragazzi ora tutti al
sicuro. Beh, tutti tranne uno. Un emerito imbecille cocciuto che voleva
sottrarmi alla catastrofe a tutti i costi.
Dave adesso mi fissava immobile, i
suoi occhi chiari erano puntati su di me, accesi a scatti dalle esplosioni
– questa volta naturali – sempre più vicine. Sembravano
passati secoli dal termine della guerra, e invece erano trascorsi solo cinque
anni. Cinque anni in cui
“Gwen”,
sussurrò Dave.
Dannazione, perché non
scappi?, pensai serrando la mandibola. Cosa aspetti? Vuoi morire anche tu?
Chi
sono io per te, perché diamine vuoi che ti segua?
“Vattene, Dave. Va'
via. La navetta starà partendo.”
“Appunto.”
Alzai lo sguardo su di lui.
“Non ho intenzione di seguirti.”
L’espressione di Dave
si
indurì, per quanto si possa indurire un’espressione già
dura. “Che razza di cretinate vai dicendo? Vuoi restare qui e
morire?”
Lo guardai scettica. “No,
voglio restare qui e sopravvivere. Secondo te?”
“Forse non ci hai fatto
caso, presa com’eri a seguire le tue tendenze suicide, ma questo non
è propriamente il momento più adatto per scherzare.”
Mi voltai verso la finestra. La
distruzione era sempre più vasta e sempre più vicina. Vedevo
le
case crollare, i torrenti di lava attraversare aree un tempo abitate.
“No. Io resto.”>
“Stammi a sentire, adesso o vieni o ti porto via io con la forza. Accettare le catastrofi è un conto, ma scegliere volutamente di morirci avendo la possibilità di salvarsi è tutt’un altro discorso. Tu sei pazza, Gwen.”
“Pensavo te ne fossi accorto
prima. E io che ti facevo una persona perspicace.”
“Va’ al
diavolo.”
Restammo di nuovo in silenzio.
Desideravo che se ne andasse. Non volevo che morisse per colpa mia.
Perché doveva costringermi ad andarmene, se non era quello che volevo?
C’era una ragione se mi comportavo in quel modo. Più di una,
forse. Imbecille. Maledetto imbecille, perché non si metteva in salvo?
“Ascolta”, sussurrai.
“So che il mio ti sembra un comportamento immotivato e stupido. Ma non
è così. Hai una vaga idea di che impressione dia la sensazione
che la propria vita non abbia né capo né coda, che sia un ammasso
di avvenimenti senza rilievo piazzati a casaccio nel nulla, che sia un inutile
lasso di tempo senza un principio e senza uno scopo effettivo? Hai una vaga
idea di che cosa si provi nel sapere che in realtà un principio
c’è stato, e anche uno scopo, ma che tu non puoi sapere quale
fosse?”
Dave restò in silenzio per
qualche istante. Non ci eravamo mai parlati molto – in realtà
non
avevo mai parlato molto con nessuno, preferivo ascoltare senza essere
necessariamente coinvolta – e forse un discorso del genere lo spiazzava,
ma del resto non avrei avuto più occasioni per farglielo capire, quindi
tanto valeva spiegarglielo subito ed evitare di essere ricordata come Gwen, la pazza suicida.
Dave aveva abbassato lo sguardo
alla finestra. “No”, disse piano. “Non ne ho idea. Ma a volte
ricordare è peggio. Tu pensi che non sia così, ma almeno nella
tua condizione non hai nulla da rimpiangere.”
Lo fissai allibita. “Tu non
capisci. Io non rimpiango nulla del passato, questo è vero. Ma il motivo
è che non lo conosco, il mio passato! Il ricordo più antico che
ho risale alla fine della guerra. Prima di allora c’è il vuoto
totale. Ho un’istruzione piuttosto articolata, e non so chi me
l’abbia inculcata. Conosco una serie notevole di nozioni, e non ho idea
di come abbia fatto ad apprenderle. Non so chi fossero i miei genitori, non so
se avessi fratelli o sorelle … Non so neanche chi fossi io, come mi
comportassi, quale fosse il mio carattere, il mio modo di pensare… Dannazione,
è una sensazione orribile!”
“Non ho detto che la tua sia
una situazione piacevole.”
“Già. Ma non
comprendi ciò che voglio dire.”
Dave restò in silenzio.
Gli scoppi roboanti si facevano
sempre più vicini. Una forte scossa seguita da scrosci schioccanti ci
annunciò che l’edificio non avrebbe retto a lungo.
“Ti prego, Gwen”,
sussurrò Dave. Lo guardai sconvolta dal suo tono morbido, che non gli
era mai appartenuto.
“Perché vuoi trarmi
in salvo a tutti i costi?”, domandai con voce quasi rabbiosa.
“Perché? Non capisco. Cosa ti importa se muoio? Io non sono nessuno
per te.”
Dave mi guardò in silenzio,
i riflessi cremisi danzavano sul suo volto dai tratti decisi.
“Ti prego, Gwen”
, si
limitò a ripetere. “Ti prego. Vieni con me.”
Lo fissai immobile, incapace di replicare alle sue parole, che pure erano così banali. Ma era il modo in cui le pronunciava a spiazzarmi. Non avrei mai creduto che sarebbe stato capace di parlare così. Dannazione. Quell’insopportabile soccorritore indesiderato era riuscito a fare leva sulla sensibilità che proprio a lui mancava, ma che io sfortunatamente possedevo. Quello che inizialmente era un ordine autoritario ora mi veniva proposto come supplica, e come supplica sentita, anche – almeno così mi sembrava –, e in questa forma riusciva ad esercitare su di me qualcosa di decisamente più efficace, dal suo punto di vista.
“Dave …”
Accidenti. Aveva appena mandato in
fumo il mio piano di morire in pace. Finchè mi esortava in modo secco e
freddo l’idea di ascoltarlo non mi sfiorava neppure, ma ora che usava
quel tono… Era quasi riuscito a farmi sentire in colpa. Accidenti a me.
“Perché dovrei
seguirti?”, mi ostinai. “Perché? Poniamo che lo faccia.
Ci
salviamo arriviamo su Marte. E poi?”
“E poi niente. Saremo
vivi.”
“Appunto! Non vedo a che
scopo …”
Scosse piano il capo, con ar
ia di
palese disapprovazione. Non era difficile capirlo. Quella difficile da capire
ero io.
“Ascolta, Dave, non lo sto
facendo per pessimismo, o perché sono in un momento melodrammatico.
Ho
preso una decisione con piena cognizione di causa. Ho analizzato attentamente
la situazione sotto tutti i punti di vista, e la risposta che ne ho ottenuto
è semplicemente che ora come ora preferisco morire che vivere. So che
sembra una pazzia, ma è così. Ho ragionato, davvero. Non sono una
stupida.”
“Lo so.”
“E allora …
“Lo so, Gwen, che hai
i tuoi
motivi. Non riesco a mettermi dal tuo punto di vista, ma so che non prenderesti
una decisione del genere senza delle ragioni più che buone. Ma ti prego
…”
Di nuovo. Di nuovo il tono
vellutato e supplichevole. Evidentemente aveva capito come comportarsi. Ti prego. Come diamine faceva con
due
banalissime parole a farmi sentire in torto marcio?
“No, Dave, no”,
tentai
ancora di impormi, ma adesso ero io che avevo perso convinzione.
Mi guardava immobile, sul suo
volto un’espressione che non lo avevo mai visto assumere.
“Non vengo”, dissi
ancora.
“Allora resto
anch’io.”
“NO!” Il mio fu
quasi
un grido, un urlo disperato. L’idea che qualcuno potesse morire solo
per
una mia decisione era assolutamente agghiacciante. L’idea che Dave
potesse morire era agghiacciante.
“No”, dissi ancora,
piano. “No, no, no … Tu devi andare. Adesso.”
“Non se tu resti.
Lo guardai negli occhi, senza
sapere cosa dire per mandarlo via. Per far sì che sopravvivesse. Dave si
avvicinò. Perché? Doveva fare l’esatto opposto, doveva
andarsene.
“Dave, va’ via.
Dave si chinò su di me e mi
baciò sulle labbra.
Restammo immobili per qualche
istante, mentre il rombo della distruzione si faceva sempre più vicino.
Mi ritrassi lentamente e lo
guardai inarcando un sopracciglio.
“Pensi che basterà
questo a convincermi?”
“Non me ne andrò
senza di te.”
Di nuovo mi trovai in silenzio.
Cosa avrei potuto rispondergli? Mi
dispiace, questo significa che morirai? Una violenta scossa percorse
l’intero edificio come un brivido.
“Vieni con me”,
sussurrò ancora Dave.
“Sì”, mormorai
senza neppure accorgermene.
Il sorriso che per un attimo gli
illuminò il volto mi lasciò sbalordita. Poi la sua espressione si
fece concentrata. Mi cinse le spalle con un braccio, come per assicurarsi che
non mi allontanassi all’ultimo istante, e mi guidò – anzi,
praticamente mi trascinò – fuori dalla stanza. L’Yven
college nel suo complesso era già messo peggio di quanto immaginassi.
Dave mi portava velocemente attraverso le aree più sicure, verso
l’uscita.
Io non mi opposi.
Gli stavo permettendo di fare
tutto quello che voleva, non sapevo perché, ma mi limitavo a lasciarmi
trasportare come un fantoccio. Eppure fino a pochi istanti prima avevo ben
altre intenzioni.
La navetta era pronta davanti
all’ingresso del college.
Ci salimmo in fretta, e Dave si
mise alla guida. Evidentemente chi c’era prima si era dato alla fuga
chiedendo un passaggio ad un’altra navicella di passaggio. Non lo si
poteva biasimare.
In fuga dal pianeta che avrebbe
dovuto accoglierci.
Vedevo dall’alto i torrenti
viscosi e al contempo impetuosi di lava incandescente scorrere rapidi sotto di
noi. Vedevo i palazzi distrutti, le maestose sopraelevate ridotte ad un ammasso
di macerie crollate al suolo, i pochi alberi rimasti sradicati e riarsi.
Ci lasciavamo alle spalle quella
devastazione, ma non sapevo se la nostra destinazione sarebbe stata molto
meglio. Per la verità non sapevo assolutamente nulla. Non sapevo quale
sarebbe stata la nostra vita su Marte, non sapevo neppure se ci saremmo
arrivati, su Marte. Non sapevo se quello era un inizio o una fine.
Un’alba o un tramonto. Non sapevo nulla del passato e nulla del futuro.
Non sapevo nulla.
Solo che io e Dave per il momento
eravamo salvi.